Sapi. Nomoli.
"Nomoli". Cultura Sapi.
Steatite nera. Epoca fine XVI-inizio XVII secolo.
Dimensioni: h.cm.7.
Provenienza:
galleria Mazzoleni-Sambonet, Milano (I).
Expertise:
galleria Mazzoleni-Sambonet, Milano (I).
Catalogazione AA 1/1995.
Scultura denominata "nomoli" raffigurante un personaggio seduto, forse un capo o un antenato, che tiene fra le mani un contenitore, epoca fine XVI-inizio XVII secolo. Sulla testa un buco atto che conteneva delle sostanze magiche.
Queste sculture per molti anni hanno costituito un mistero per quanto riguardava la loro origine che gli studi delle fonti effettuati negli ultimi trenta anni hanno in parte dipanato attribuendo la loro paternità ai Sapi. I Mende, la cui penetrazione nell'area geografica che interessa queste sculture è iniziata verso la metà del XVI secolo, chiamano queste sculture che trovano interrate "nomoli" attribuendone la produzione alle popolazioni che prima di loro occupavano il territorio, oppure all'opera di particolari genii ("dyinynga") associati a fenomeni naturali. Il termine "nomoli" si riferisce anche a un vegetale dotato del potere magico di incrementare i raccolti.
Fino a qualche tempo fa i Mende conservavano le sculture trovate su degli altarini protetti da una tettoia, spesso ai piedi di una palma e le nutrivano con offerte di cibo per assicurarsi dei buoni raccolti di riso. Qualora il raccolto fosse andato male le fustigavano ritualmente, spesso danneggiandole.
I "nomoli" di solito rappresentano figure maschili con una grande testa, occhi sporgenti, naso pronunciatamente negroide e sono generalmente raffigurati seduti. Il materiale in cui sono scolpiti più spesso è la steatite o pietra saponaria, il cui colore può variare dal verde scuro al marrone chiaro, dal grigio al bianchiccio e al nero; è un minerale che si taglia facilmente quando è fresco con strumenti fatti con minerali più duri e che indurisce col passare degli anni. (Valeria Mazzoleni, 1995)
Estratto da: "Stili del potere", 1989.
Aldo Tagliaferri.
Queste sculture sono rinvenute dai Kissi e dai Koranko in Guinea e in Sierra Leone, dai Mende e dai Kono in Sierra Leone, dai Toma-Loma della Guinea e della Liberia, dai Baga e Temne della Sierra Leone e dai Bullom-Sherbro della costa della Sierra Leone. Presso altre etnie i ritrovamenti sono molto più rari. Siccome i popoli che conservano o trovano le sculture non sono, per lo più, gli stessi che anticamente le fecero, sarà indispensabile tratteggiare un quadro storico delle regioni di cui ci stiamo occupando e, perché tale quadro acquisti lineamenti attendibili, o per lo meno non troppo vaghi, pur senza pretendere di dare risposte definitive a questioni molto problematiche e molto discusse, gioverà tenere conto dei risultati di una ricerca interdisciplinare alla quale hanno variamente contribuito esperti di vari campi: storici, archeologi, etnologi, etnolinguisti, storici delle arti africane e altri ancora. Lo studio mineralogico di E. Jérémine (1945) ha dato l`avvio a un approccio che merita di essere almeno menzionato e che un giorno dovrà essere approfondito.
Per noi europei la storia di queste sculture coincide con l'inizio del secolo, anche se notizie e informazioni su di esse avevano incominciato a circolare nella seconda metà dell'Ottocento. Nel 1901 se ne parla, infatti, nel libro sugli Sherbro di T.J. Alldridge, che aveva venduto al British Museum due di queste sculture, trovate nel corso di scavi sull'isola di Sherbro, e alla stessa data risale una trattazione specifica di L. Rütimeyer: entrambi i testi costituiscono importanti punti di riferimento, il primo perché coincide con l'impegno del British Museum di costituire una raccolta di tali oggetti, collezionati da militari e amministratori britannici in Africa, e il secondo per il ricco apparato iconografico che lo accompagna.
Quanto alle culture dalle quali provengono le sculture, oggi ci si può avvalere di testimonianze molto più significative, e meno generiche di quella, per esempio, che si trova in una lettera del mercante genovese Antonio Malfante, scritta nel 1447 e ricordata da Ph. Allison (1968), relativa al culto di idoli di legno e di pietra in paesi situati a sud degli stati musulmani di Timbuctù e Gao; soprattutto si può risalire alle cronache dei viaggiatori portoghesi, olandesi e inglesi che per primi visitarono la Sierra Leone e la Guinea. Queste preziose fonti storiche, straordinariamente vivaci e interessanti, di alcune delle quali si parlerà oltre, solo nell'ultimo trentennio sono state sondate, e annotate criticamente, anche al fine di ricostruire la fisionomia originaria delle culture dalle quali provengono le sculture in pietra, che per molti anni costituirono un mistero, al punto da indurre molti studiosi ad attribuirne la paternità a civiltà molto lontane nello spazio e nel tempo.
A partire dalla prima decade del nostro secolo, quindi, la presenza di queste sculture nei musei e nelle raccolte private di tutto il mondo è andata aumentando, sia perché gli etnologi hanno incominciato a raccoglierle e studiarle sistematicamente, sia perché certi scavi compiuti per fini pratici e dunque senza seguire criteri scientifici, ne hanno portato alla luce fortuitamente a centinaia, perlopiù alimentando il mercato occidentale delle arti africane. Nell`ultimo decennio, benché i soliti commercianti Mandingo abbiano cercato di soddisfare le richieste del mercato, il numero delle sculture uscite dall`Africa è senz'altro diminuito, ma questo fatto, che ha comportato anche un incremento del valore venale degli oggetti e, parallelamente, dei falsi. Non è sorprendente, dopo che, anche a causa della decadenza di credenze religiose e di vincoli sociali tradizionali, erano state cedute molte sculture conservate, talora attraverso i secoli, per scopi rituali, gli scavi sono diventati la fonte primaria e casuale dei ritrovamenti, e questa tendenza e aumentata progressivamente a partire dalla metà degli anni Trenta, quando gli Inglesi diedero avvio all'estrazione dei diamanti in Sierra Leone (Atherton, 1984). Oggigiorno questo genere di ritrovamenti ha luogo nel corso di scavi in zone aurifere o diamantifere, nella costruzione di case o strade, o durante le opere di disboscamento che, purtroppo, stanno spazzando via le millenarie foreste dell'Africa occidentale; in alcuni casi si trovano ancora sculture nei "villaggi morti" ("kyepomdo"), ossia abbandonati da tempo, in zona Kissi, o lavorando nei campi. Ne vengono trovate anche presso i corsi d'acqua, per esempio quando i cercatori di diamanti modificano il corso delle acque di un fiume.
I popoli ai quali si devono più frequentemente i ritrovamenti sono i Mende, uno dei maggiori gruppi tribali della Sierra Leone, della quale occupano l'area centro-orientale, e i Kissi, che vivono soprattutto nella zona forestale e montagnosa della Guinea meridionale, con propaggini in Sierra Leone e in Liberia. Entrambi questi popoli attribuiscono poteri magici alle sculture in pietra.
Il nome col quale i Kissi indicano le pietre che trovano è "pomdo" (pl. "pomtan"), ossia "il morto", e il motivo per cui mantengono un atteggiamento reverenziale nei confronti delle sculture dipende dal fatto che ritengono di stabilire attraverso di esse un rapporto con i propri antenati; quando trovano un "pomdo", identificano l'antenato mediante tecniche divinatorie e poi collocano la pietra sopra una specie di altare per utilizzarla nel corso di cerimonie magiche descritte da Denise Paulme (1954).
È stato più volte confermato che i Kissi hanno continuato a scolpire pietre anche nel nostro secolo, pur tenendo a distinguere, fino non molto tempo fa, quelle più antiche da quelle più moderne, il che spiega perché molti "pomtan" rivelano una evidente somiglianza con sculture lignee, abbastanza rare, scolpite dagli stessi Kissi nel nostro secolo. Oggi i Kissi competono con i Mende nell`alimentare la fiorente industria del falsi, realizzati a volte con perizia, ma sempre spacciati per oggetti antichi. I Mandingo, musulmani, inventano volentieri un pedegree storico per ogni scultura che vendono, al fine di magnificarne l'eccezionalità e di giustificarne gli eventuali difetti.
Il "pomdo" può essere tenuto su una specie di altarino, vestito e nutrito con offerte propiziatorie, oppure può essere conservato, bene impacchettato con tessuti di cotone, dentro una ciotola, insieme con sostanze magiche e amuleti, e talora viene celato in una nicchia scavata appositamente nel ventre di una scultura lignea che funge da suo protettore e da oracolo durante cerimonie divinatorie.
(...)
Pur sapendo che i Kissi scolpivano ancora la pietra, e che la zona di frontiera orientale dell`area da loro abitata, "pres du pays Toma", è particolarmente ricca di "pomtan", e pur avanzando ipotesi circa i rapporti esistenti tra i riti iniziatici Kissi e Toma, Y. Person (1961) negò che questi ultimi scolpissero la pietra, senza supporre che i Toma circondavano di mistero le loro attività rituali ancora più risolutamente dei loro vicini.
La foresta ci riservava, ancora una volta, una sorpresa: negli ultimi anni i mercanti Mandingo sono riusciti a mettere le mani su alcune sculture in pietra, certamente di produzione Toma o Loma, le cui forme sono imparentate a quelle dei "pomtan", e ciò mi induce a correggere quanto scrissi nel 1974, quando ritenni influenzate dallo stile Toma sculture che, invece, sono Toma tout court.
Rispetto alle sculture in pietra e alla loro tormentata storia, anche i Toma, compresa la loro appendice meridionale Loma, si trovano, come i Kissi, sia pure più marginalmente di questi, in un rapporto di continuazione e reinvenzione di una tradizione che essi non crearono ma tardivamente accettarono, adattandola a una propria idea della figurazione.
(...)
Sono state spesso notate somiglianze tra le sculture in pietra della Guinea e della Sierra Leone da una parte e, dall'altra, quelle in legno, bronzo o pietra di altre culture, soprattutto nigeriane, ma, sulla base di quanto oggi ci è dato di sapere, solo alcune rare sculture in legno della Sierra Leone, delle quali si parlerà oltre, documentano una origine storica comune con le sculture in pietra antiche. Da questo punto di vista possono essere considerate degne di nota le decorazioni geometriche di una testa Loko, che riprendono motivi analoghi a quelli incisi su alcune sculture in pietra.
I Mende, la cui penetrazione sistematica nell'area geografica da loro attualmente occupata è iniziata verso la metà del Cinquecento, e molto probabilmente ha precedenti sporadici più remoti, chiamano "nomoli" le sculture che trovano, attribuendone la produzione alle popolazioni che prima di loro occuparono la stessa area, oppure all'opera di particolari genii, i "dyinyinga", sorta di spiriti "decisamente associati a fenomeni naturali come i fiumi, il bush ecc." (Little, 1951). Il termine "nomoli", il cui plurale propriamente è "nomolisia" e che si riferisce anche a un vegetale dotato del potere magico di incrementare i raccolti (McCulloch, Atherton-Kalous,), è entrato nell'uso comune per indicare appunto il tipo di sculture in pietra trovate soprattutto dai Mende. Oggi i Mende di fatto separano i Kissi dalle popolazioni costiere a questi ultimi linguisticamente imparentate, giacché i Bullom, i Temne e i Kissi parlano tutti lingue che, secondo la classificazione stabilita da D. Dalby (1965), appartengono alla famiglia Mel.
I "nomoli" di solito rappresentano figure maschili con una grande testa, occhi sporgenti e naso pronunciatamente negroide. Spesso queste figure, sedute, sembrano sostenersi il mento adornato da una barba stilizzata, o reggere oggetti la cui natura non è sempre chiara, o un ventre più o meno pronunciato. Alcune sculture mostrano personaggi a cavallo di un animale non sempre identificabile ma che può essere un elefante, o un felino. Chiara, invece, è l`associazione tra la figura umana e un coccodrillo. È opportuno ricordare che tra i popoli della Sierra Leone ogni clan riconosce un rapporto totemico con un particolare animale, con tutti gli obblighi e le proibizioni che da ciò derivano (McCulloch), donde l'associazione simbolica tra un guerriero e il "suo" animale.
Tanto nel caso dei "cavalieri", quanto nel caso dei personaggi associati a un coccodrillo si nota una evidente sproporzione a favore dell'uomo, secondo parametri adottati abitualmente dagli scultori africani ed esemplificati, per quanto riguarda i cavalli e i muli, dalle arti nigeriane. A causa della mosca tse-tse, il cavallo in Sierra Leone ha sempre avuto vita difficile, sebbene sia noto, che ad alcune battaglie combattute in quelle regioni verso la metà del Cinquecento parteciparono anche dei cavalieri, provenienti da regioni più settentrionali.
Fino a qualche tempo fa i Mende erano soliti conservare le sculture in pietra in altarini protetti da un semplice tetto, spesso ai piedi di una palma. Le nutrivano con offerte di cibo e le utilizzavano in riti volti ad assicurare buoni raccolti nella coltivazione del riso: qualora un raccolto fosse stato giudicato insufficiente, le sottoponevano a una fustigazione cerimoniale che le poteva danneggiare.
Diverso è il trattamento riservato alle sculture dai Kono, che le utilizzano nel corso di cerimonie di purificazione mediante le quali si pone rimedio a un crimine commesso; presso i Kono le sculture sono custodite da un gruppo di persone che ne tramandano il possesso per via ereditaria (Atherton-Kalous).
Ho avuto occasione di conoscere un italiano che, dirigendo lavori di costruzione di una strada in Sierra Leone nel 1976, a circa trenta chilometri a sud-est di Kenema, ha fatto in tempo a fermare un caterpillar impegnato nel compito di demolire un cunicolo contenente circa trenta "nomoli". Il cunicolo era stato sepolto, precedentemente, da parecchi metri di terriccio a causa dello smottamento di un colle, ma, a giudicare dalle qualità formali delle sculture superstiti, appartenenti a uno stile tardo e poco attraenti, lo smottamento doveva essere stato relativamente recente. Comunque sia, cito questo ritrovamento, per alcuni versi tipico, anche per rilevare che il materiale in cui sono scolpite quattro di queste sculture, che ho potuto vedere, è quello usato più spesso, ovvero steatite. La steatite, o pietra saponaria, i cui colori possono variare dal verde scuro al marrone chiaro, dal grigio al bianchiccio e al nero, è un minerale che si taglia facilmente, quando è fresco, con strumenti ricavati da minerali più duri (con "ascia di dolerite e 'micro-scalpelli' di quarzo", come ha spiegato Atherton, 1984), e indurisce col passare degli anni. Il cunicolo in questione, analogo ad altri scoperti per caso (Joyce, 1909), si trovava a poche decine di metri da un corso d'acqua. Queste sculture, per quanto tarde, sono abbastanza canoniche nelle dimensioni che, solitamente variano dai sei ai quaranta centimetri, benché siano noti esemplari di maggior mole.
Detto per inciso, tra i "nomoli" scolpiti per essere ceduti ai mercanti, e dunque falsi, e del tutto privi di rapporti con le tradizioni africane, è frequente una certa inclinazione al gigantismo. Kunz Dittmer distinse puntigliosamente "pomtan" di diversi periodi, e in particolare quelli della "decadenza", molto comuni, da quelli più antichi e più rari, per esempio opponendo la maggior precisione nella resa anatomica e la sapiente resa dei particolari, caratteristiche delle sculture più antiche, alle grossolane stilizzazioni e alle flosce soluzioni plastiche delle sculture più recenti: la stessa osservazione vale per i "nomoli". È bene sottolineare, a questo punto, che la distinzione tra "pomtan" e "nomoli" ci può dire qualcosa circa l'identità di chi ha trovato le sculture, ma nulla circa quella dei popoli che le fecero, e in alcuni casi si rivela ovviamente equivoca, mentre in altri può risultare pratica.
Neppure il termine "ka-mal" (pl."ta-mal") usato dai Temne (Lamp, 1983) ci aiuta ad uscire da questa impasse, originata dalla arbitrarietà di nomi imposti comunque a posteriori. A rendere fragile la portata di tali distinzioni, al di fuori della loro sommaria praticità, concorrono sia il fatto che talora si trovano nella stessa zona sculture di tipo diverso, sia l`esistenza di sculture antiche che sommano le caratteristiche di tipi diversi. In particolare, cancellandosi, di fatto, la distinzione tra i "pomtan" appena scolpiti e quelli che Denise Paulme poteva ancora chiamare "veri pomtan" (1954), i Kissi continuano ad usare un termine dal quale conseguono insidiose confusioni, dato che non tutte le sculture possono pretendere di rientrare nel loro retaggio culturale allo stesso titolo; naturalmente lo "scandalo" logico è tale solo ai nostri occhi, mentre per i Kissi, che sottomettono il tempo storico alle esigenze del tempo mitico, è diventato naturale accogliere e onorare l'antenato anche quando conoscono di persona chi ha scolpito il "pomdo" (Person). Le origini della attuale cultura Kissi sono abbastanza miste da giustificare le difficoltà che essi incontrano nel decifrare ciò che resta del loro passato, proprio perché si tratta di un passato con origini stratificate e multiple.
Per i Kissi sono "pomtan" anche le sculture con figure che sfoggiano una formidabile dentatura (donde la definizione di "grinsende Still" proposta da Dittmer) e, spesso, armi di vario genere (lance, spade, scudi, mazze, archi) o che, in piedi o inginocchiate, reggono degli oggetti. Questi personaggi armati, evidentemente rappresentanti di una casta militare, in genere sono contraddistinti da scarificazioni e tatuaggi, più o meno complessi, che sottolineano la loro appartenenza a una élite o a una particolare etnia e, a volte, da corazze di cuoio più o meno elaborate. Alcuni di questi guerrieri sono a cavalcioni di un animale la cui identità, come nel caso dei "nomoli", può essere incerta. Certo è, invece, che anche l'eccellente scultura commentata da Lamp e già appartenente al Musée de l'Homme raffigura non un uomo che "mostra un fallo sostenuto dalla barba" (Lamp, 1983), bensì un capo a cavallo di un animale, come del resto aveva già spiegato Dittmer, che aveva riprodotto lo stesso oggetto in anni in cui i termini di confronto erano molto più difficili da reperire (Dittmer) anche se, nonostante la posizione dei piedi, resta dubbio che si tratti propriamente di un cavaliere.
Abbastanza spesso, come dimostravano le immagini di Fabulous Ancertors(A.Tagliaferri, 1974), di questi personaggi è messo in evidenza il sesso, ma non al punto da far scambiare uno di essi con certi "cavalieri" maliziosamente disegnati da Beardsley. Più misteriose sono altre figure barbute, appartenenti a questo stesso gruppo, che, oltre ad ostentare la dentatura appuntita, sommano caratteristiche virili e femminili, e altre ancora, di sesso maschile, che reggono tra le braccia un bambino. L'androginia, paragonabile a quella di notissime sculture Dogon, potrebbe alludere a un ideale di completezza, a una sintesi di tutti gli attributi umani. È interessante notare che alcuni dei guerrieri o dignitari portano una specie di turbante, esattamente come certe figure maschili rappresentate nei "nomoli".
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Può darsi che il ghigno tipico di queste sculture, non meno enigmatico del famoso sorriso eginetico, avesse anche un senso apotropaico, collegabile alle storie di cannibalismo tramandateci soprattutto a proposito degli antichi Bullom e Temne, e terrificanti tanto per gli africani quanto per gli europei; tuttavia sembra più credibile che, agli occhi degli scultori, quel ghigno avesse essenzialmente un valore estetico e di status symbol. Dentature affilate sono messe in mostra, come si è visto, anche nei "pomtan" relativamente recenti, che si distinguono per via della loro struttura accentuatamente tendente alla forma cilindrica, e ciò non meraviglia dato che, fino a non molto tempo fa, i Kissi, come i Temne e i Bullom, limavano i loro denti per ragioni estetiche. Nelle raffigurazioni appena menzionate di guerrieri e di altri personaggi di alto rango, la dentatura e messa in risalto ben più decisamente e acquista, anche a causa della precisione con la quale è scolpita, un valore espressivo di primaria importanza che, inevitabilmente, è stato a sua volta, nel tempo, interpretato.
I denti sono talora messi in evidenza anche in un altro genere di sculture, ovvero nelle teste di grandezza all'incirca naturale, o più piccole (raramente più grandi), trovate soprattutto dai Mende, in particolare nell`area compresa all'incirca tra Sefadu e Kenema, ovvero in una zona diamantifera e quindi più esposta di altre a scavi sistematici. La presenza delle teste in pietra e dei diamanti nelle stesse aree (uso il plurale perché alludo anche alla Guinea e alla Liberia) ostacola seriamente le indagini di chi vi si avventuri, sia pure alla ricerca di informazioni.
A queste teste, alle quali già si riferiva, anche con alcune illustrazioni, Rütimeyer nel 1901, oggi conosciute col nome, imposto loro dai Mende, di "mahen yafe" (Spirito del Capo), i Mende attribuiscono valori magici analoghi a quelli riconosciuti dai Kissi ai "pomtan" antichi. Il nome "mahen yafe" è, di per sé, abbastanza vago sia perché "maha" (il titolo di "capo") è un termine di deferenza che si applica in generale a persone di alto rango, sia perché è stato usato anche per designare anelli di ottone o di ferro scoperti con le sculture e usati per giuramenti particolarmente solenni Joyce, 1909, Atherton-Kalous).
I Kono, una etnia più settentrionale affine anche linguisticamente ai Kissi, e gli stessi Kissi, trovano delle teste con caratteristiche diverse rispetto a quelle delle "mahen yafe" più "classiche". Tra queste ultime ricordo alcuni esemplari resi noti, o addirittura celebri, da pubblicazioni che ne hanno messo in rilievo le qualità artistiche, oltre a quelli conservati al British Museum, da tempo evidenziati con l'usuale finezza da William Fagg, e a quelli riprodotti in Fabulous Ancestor, che comprendono le teste del Museum für Völkerkunde di Basilea, quelli appartenenti rispettivamente alle collezioni Sainsbury, Gastaut (Marsiglia), Tishman (Los Angeles), Grassi (Tervuren), e, ancora, quello notissimo del Metropolitan Museum di New York, quello, appartenente a una collezione svizzera, esposto alla Kunsthaus di Zurigo nel 1970, quello del Museum of Art di Baltimora e, infine, quello, importantissimo per qualità e dimensioni, conservato nel museo di Freetown. Tutte queste "mahen yafe" costituiscono utili punti di riferimento per numerosi confronti, fermo restando che di alcuni esemplari di eccellente fattura, in mano a privati, non sono state fatte circolare riproduzioni.
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Le "mahen yafe", a volte conservate gelosamente per generazioni dai "paramount chief" ossia da capi particolarmente importanti e influenti, e da rappresentanti delle società segrete che hanno avuto un ruolo di primaria importanza nella storia religiosa e politica della Sierra Leone, certamente rappresentano capi delle antiche popolazioni di quel paese. Come le sculture più antiche sono frequentemente effigi di personaggi ornati di bracciali, gioielli o collier, segni di un elevato rango sociale, così queste teste mostrano, al naso e agli orecchi, anelli che anche in questo caso fungono da segni di distinzione. Le barbe sono curate anche nelle rappresentazioni relativamente più astratte e sintetiche, e le pettinature elaborate, caratterizzate da un grosso chignon raccolto sulla nuca oppure da uno chignon, o ciuffo, più piccolo raccolto asimmetricamente sulla parte posteriore del capo e riscontrabile anche in alcuni "nomoli".
Le stilizzazioni maggiormente semplificate, plasticamente geniali ed efficaci nella resa della barba e dei capelli, possono accompagnarsi a un trattamento naturalistico dei lineamenti del volto. Ad alcune "mahen yafe" è stato fatto un buco, da chi le ha trovate, per inserire nella scultura una sostanza dotata di poteri supposti magici, secondo una pratica riscontrabile anche negli altri tipi di sculture sopra descritti, e con particolare frequenza nei "nomoli". A parte le "mahen yafe", solo un numero abbastanza limitato di sculture è stato concepito, in origine, con una cavità atta ad ospitare offerte rituali o sostanze magiche, e benché essa sia solitamente scavata nella testa o nel ventre, non mancano i casi in cui la cavità è stata fatta altrove, né quelli in cui i buchi sono numerosi.
Tra tutti gli esemplari di "mahen yafe" sopra ricordati si possono notare sia analogie sia differenze stilistiche, determinate dalla bravura dello scultore, dalle tecniche di lavorazione e dalla complessità dei particolari ai quali si voleva dare risalto. Una differenza importante può essere colta tra teste piuttosto orizzontali, massicce, dai tratti marcatamente negroidi, con un collo tozzo e poderoso, e teste piuttosto verticali, più naturalistiche sia nell'articolazione del collo sia nel disegno dell'occhio e delle labbra. La forma "a campana" dell`occhio può essere riscontrata in entrambi i gruppi e può essere più o meno realistica, tenendo presente che essa originariamente, come appunto si nota negli esemplari più naturalistici, definiva la palpebra superiore. Dittmer aveva già suggerito, per cogliere la genesi di questa forma, di osservare le "mahen yafe" con una luce spiovente dall'alto, e aveva notato che l`occhio "a campana" può essere rilevato anche in altre sculture antiche.
A proposito delle teste più verticali, Philip Allison (1968), commentando un magnifico esemplare del British Museum, scrisse che "tale naturalismo nel trattamento dei capelli e delle orecchie non è riscontrabile in alcuna altra parte dell'Africa, tranne a Ife" e altri autori hanno proposto paralleli anche con l`arte Benin; è ragionevole proporre tali confronti, e tuttavia occorre riaffermare, in ultima istanza, l'unicità delle "mahen yafe", altissima espressione artistica di una cultura che ha avuto il suo centro nella Sierra Leone. Rapporti con altre antiche culture africane a est della Liberia, a suo tempo ventilati con insistenza da Dittmer, non possono essere negati a priori, e anzi possono essere suffragati, per esempio, da analogie segnalate tra frammenti di vasi trovati nel centro della Sierra Leone e nella zona del lago Chad e risalenti all'incirca all'VIII secolo dopo Cristo, in una diversa prospettiva cronologica, potrebbero trovare una giustificazione nella presenza, ipotizzata da Rodney (1967) sulla scorta di informazioni riportate nelle cronache europee, di una componente più orientale, proveniente dall'hinterland della Gold Coast, l'attuale Ghana, nella compagine originaria dei Mani, che invasero la Sierra Leone verso il 1550.
Qui si vuole sostenere non che gli antichi capi delle popolazioni della Sierra Leone siano nati, armati e addobbati di tutto punto, come Atena dalla testa di Zeus, bensì che le sculture in pietra della Sierra Leone e della Guinea costituiscono, pur nella articolazione di diversi stili, e quali che siano le influenze esercitate su di loro da altre culture, una realtà artistica unitaria con forti e indiscutibili tratti di originalità.
Un altro gruppo di sculture in pietra, provenienti esclusivamente dalle zone Kissi e Koranko della Guinea, deve essere distinto dai precedenti. Si tratta di sculture facilmente riconoscibili perché rappresentano, negli esemplari certamente più antichi e più finemente lavorati, personaggi vestiti con abiti o armature portoghesi rinascimentali o barocchi che, col passare del tempo, sono stati imitati allontanandosi sempre più dalle situazioni storico-culturali nel cui ambito furono realizzate le prime sculture, e dunque dagli originali portoghesi. Qui si riscontra una tipica stilizzazione del volto, determinata dalla forma a Y costituita dal nesso tra occhi e naso. Mentre le sculture più antiche, molto accurate nei dettagli, come dimostra il superbo esemplare del Musée de l`Homme riprodotto anche da Dittmer (1967), sono raffigurate con abiti portoghesi, nei secoli successivi sono stati riprodotti, in modo sempre meno preciso, solo alcuni particolari degli abbigliamenti, come la gorgerina, tipica del XVI e XVII secolo. È interessante rilevare che la cronaca di André Donelha, sulla quale tornerò, dice esplicitamente che i capi di alcune popolazioni portavano camicie acquistate dai portoghesi.
Spesso un gruppo di personaggi minori è raccolto intorno a un personaggio centrale, simbolicamente e materialmente eminente. E caratteristico di queste sculture guineane il trattamento della testa, costituito da una specie di bugnato che negli esemplari più pregevoli è delimitato con precisione e forse voleva originariamente raffigurare un copricapo.
Si è già accennato ad alcuni paragoni proposti tra sculture in pietra e sculture lignee appartenenti alle stesse regioni o a regioni limitrofe, paragoni che alcuni estendono anche alle sculture guineane appena descritte. Le tracce di continuità sembrano davvero troppo vaghe e labili per poter essere ritenute significative, ossia per permettere di tracciare rapporti lineari di discendenza, tenuto conto anche del fatto che la maggior parte delle sculture in pietra sono comunque ben più antiche di quelle di legno. Rare sculture in legno conservate nei musei o apparse in raccolte private negli ultimi anni costituiscono, tuttavia, delle eccezioni, dato che sono senza dubbio imparentate ad alcune delle sculture che raffigurano guerrieri o personaggi androgini.
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Poiché il clima e le termiti della regione geografica di cui qui si parla hanno distrutto ogni traccia delle sculture in legno più antiche, la cui esistenza è testimoniata da cronache portoghesi già a partire da quelle raccolte da Valentim Fernandes nei primissimi anni del Cinquecento, solo condizioni particolarmente propizie hanno potuto garantire la conservazione di queste statue in legno, la cui antichità non può comunque essere messa in discussione dopo che l'esemplare del Museo di Baltimora, pubblicato da Lamp (1988) e proveniente dalla Sierra Leone, è stato fatto risalire dalle apparecchiature dell'Università dell'Arizona a un periodo oscillante tra il 1190 e il 1394. Scavi sistematici e ulteriori esami scientifici dovrebbero chiarire i rapporti esistenti, d'altra parte, tra le sculture in pietra e alcuni esemplari in terracotta, come quelli riprodotti in Fabulous Ancestors (si veda anche Lamp, 1988).
Un'intuizione di William Fagg, che per primo evidenziò, nel 1959, certe somiglianze tra i "nomoli" e alcuni avori detti afro-portoghesi, scolpiti da artisti africani per il mercato europeo rinascimentale, inaugurò una direzione di ricerca che si sta dimostrando fruttuosa anche perché ha ancorato la storia delle sculture in pietra a un periodo piuttosto circoscritto, sottraendole alla vaghezza del tempo mitico di cui sono intrise le tradizioni orali. Dopo aver stabilito, nel 1460, i primi contatti con gli Sherbro della costa, i Portoghesi importarono in Europa corni, coppe, saliere e altri oggetti in avorio sui quali erano finemente scolpiti personaggi africani ed europei e motivi decorativi che ritroviamo in alcune sculture in pietra. Gli studi comparativi, illustrati da Ezio Bassani e William Fagg nel catalogo della mostra di avori africani organizzata dal Center for African Art di New York nel 1988, distinguono gli avori a seconda della loro zona di provenienza, giacché è definitivamente assodato che non tutti provengono dalla Sierra Leone, dove tuttavia molti di essi vennero scolpiti, come specificano Bassani e Fagg, tra il 1490 e il 1530 (1988). Questi ultimi, oggi sparsi in collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, vennero importati, più precisamente, dai "regni dei Sapi" (otto, secondo Almada) che si estendevano lungo le coste della Sierra Leone, donde la proposta di ribattezzarli "avori Sapi-portoghesi".
Per quanto concerne le sculture in pietra, l'intuizione di Fagg mise in moto, in realtà, due generi di ricerca destinati a confluire l'uno nell'altro, perché da una parte incoraggiò le analisi comparate mettendo in luce le fonti europee di questi geniali "ibridi", nei quali si fondono forme e contenuti africani ed europei, e dall'altra indusse i ricercatori a individuare, nelle cronache antiche, informazioni atte a documentare ulteriormente i nessi esistenti tra le sculture in pietra e il mondo dei misteriosi Sapi. Seguendo questa seconda pista, e dunque indagando sulla storia dei "regni dei Sapi", ho potuto così identificare, in Fabulous Ancestor, grazie a riferimenti contenuti nel Tratado di Almada, sia l'allusione a un'antica cerimonia in sculture che sembrano rappresentare dei prigionieri (mentre invece si tratta di capi Sapi), sia un guerriero Sapi circondato dalle teste mozze dei suoi nemici; quanto a quest'ultimo, solo successivamente, quando venne identificato il bellissimo avorio Sapi-portoghese acquisito dal Museo Pigorini di Roma, raffigurante un guerriero circondato a sua volta da teste mozze, fu evidente che le due sculture, quella in pietra e quella in avorio, si riferivano a un medesimo atto cerimoniale. Stando a quanto affermava Almada, i guerrieri tenevano molto al possesso dei crani, a costo di procurarseli anche con mezzi non propriamente eroici, per esempio decapitando degli schiavi, ma in quanto egli raccontava riconosciamo, comunque, l`eco di cronache più antiche, come quelle raccolte da Fernandes, il quale scriveva che, presso i Sapi, i personaggi di rango venivano sepolti, con lo scudo in una mano e la lancia nell'altra, di fronte ai crani dei nemici uccisi. Donelha parla dell'usanza, diffusa tra i Baga, di esibire il cranio di un nemico ucciso, con una descrizione che ha un equivalente nel resoconto di Almada.
Ancora in Fernandes troviamo una precisa indicazione, alla quale già si riferiva Dittmer (1967), a proposito della funzione commemorativa delle sculture in pietra, dove il portoghese si sofferma sull'usanza di fare monumenti per i morti: "fanno un idolo a somiglianza di ciascuno di questi uomini illustri" e lo mettono in una casa coperta di erba secca, dove vengono fatti sacrifici "a seconda dell'importanza del defunto". Da queste pratiche discendono sia l'attuale altare Temne, lo "am-boro ma-sar" descritto da Lamp (1983), sia gli altari in uso, come si è detto sopra, presso i Mende e i Kissi.
E' interessante rilevare che, secondo missionari portoghesi operanti in Sierra Leone nei primi anni del Seicento, le acque dei fiumi talora venivano deviate per seppellire segretamente nei loro letti i capi più importanti ed evitare che le tombe fossero spogliate. Le sculture che raffigurano un dignitario legato sono degne di nota, a parte ogni valutazione estetica, perché conservano e tramandano il significato sacrale della costituzione della regalità, che, come sappiamo per esempio da René Girard, passava attraverso la scelta di un capro espiatorio mediante il quale si liberava la tribù dai mali che la affliggevano; probabilmente, in origine, il re veniva ucciso, e in ogni caso non si può negare, in Africa, "l'esistenza di una ideologia secondo la quale il capo poteva, o doveva, essere ucciso" (Claessen, 1981; su questa importante questione si veda anche Hair, 1974).
L`intervallo tra la scelta della vittima e l'olocausto consentì al capro espiatorio, secondo Girard, di ribaltare la propria negatività in un potere positivo e assoluto: nel cerimoniale il momento culminante non è quello dell'intronizzazione, ma il momento della scelta della "vittima", ovvero il momento dell'elezione e dunque dell'imposizione del vincolo (si veda, per esempio, La violence et le sacrè, Paris 1972). La regalità dei personaggi scolpiti nella pietra talora riflette, dunque, la sacralità del potere come questo era concepito negli antichi regni africani. Si direbbe che un'eco del cerimoniale descritto da Almada sopravviva oggi presso i Temne, i cui dignitari "catturano" di sorpresa il neo-eletto (McCulloch).
Per sondare l'identità e la storia dei Sapi si sono dimostrate decisive le cronache più dettagliate, e in particolare il Tratado di Almeda (1594), sopra citato, e la Descrisåo da Serra Leoa di Andre Donelha (1625), della quale ora è disponibile una edizione filologicamente molto curata e annotata con grande rigore da P.E.H. Hair. Benché la storia dei cosiddetti Sapi non manchi di lati ancora oscuri, e ancora sia oggetto di dispute tra specialisti, in questa direzione sono stati realizzati progressi notevoli, dei quali occorre tener conto anche in una trattazione relativa alle sculture in pietra. Le testimonianze concordano nel sostenere che i "regni dei Sapi", così battezzati dai Portoghesi, comprendevano varie popolazioni (Bullom, Temne, Limba, Baga e altri gruppi minori) e che queste popolazioni, delle quali i portoghesi conoscevano quasi esclusivamente quelle più a ridosso della zona costiera, avevano un certo grado di unità linguistica e, in comune, le pratiche delle società segrete, sia femminili sia maschili, antesignane delle società segrete attuali, e in particolare della "Ragbenle". Hair, sempre scettico e prudente nel valutare le testimonianze di chicchessia, pronto a cogliere ogni incongruenza, ha negato che tale unità linguistica fosse davvero generalizzata e ha iniziato una ardua analisi critica circa i rapporti ipotizzabili tra comunanza linguistica (parziale o forse costituita solo dall'uso comune di una lingua franca) e unità culturale.
Le comunità Sapi vennero attaccate e in buona parte sottomesse da un'altra popolazione che, numericamente esigua, riuscì a imporre le proprie superiori capacità militari. Divergenti sono i punti di vista sostenuti a proposito della patria originaria di quest'ultima etnia, quella dei Mani, che certamente provenivano da una zona estranea al controllo dei Portoghesi, i quali forse dedicarono loro tanta attenzione proprio per questo motivo. Almada sagacemente riconobbe nei Mani, a ragione, un popolo di lingua Mande, e riferì che verso il 1550 essi giunsero muovendosi lungo le coste della attuale Sierra Leone e provenendo da est; anche su quest'ultimo punto non sussistono dubbi, quantunque le loro mosse prima che si insediassero nella zona intorno a Cape Mount non siano documentate e in passato si ritenesse che fossero giunti da paesi molto lontani. Secondo la tesi di Rodney, al quale si deve la ricostruzione più puntigliosa dell'invasione Mani, una élite guerriera Mande proveniente dal Sudan sud- occidentale raccolse, muovendosi, forze eterogenee, dapprima Kru, che concentrò nella zona intorno a Cape Mount; di qui si spinse, in ondate successive, nella Sierra Leone sottomettendo i Bullom e i Temne e realizzando un'espansione che, tra l'altro, avrebbe coinvolto i Kissi spingendoli più a nord rispetto agli antichi insediamenti.
Hair, invece, tende ad escludere i Kru da queste grandi manovre militari e avanza l'ipotesi secondo cui i Mani sarebbero identificabili soprattutto con i Vai provenienti dal regno dei Kquoja situato presso Cape Mount e descritto da Olfert Dapper nella sua cronaca, anch'essa tardiva (1668) ma, almeno sotto certi profili, più precisa di alcuni resoconti portoghesi. Probabili antenati degli attuali Mende, Vai, Kono e Gbandi, negli antichi documenti i Mani vengono distinti dai cosiddetti Sumba (soprannome che, secondo i Portoghesi, significava antropofagi), i quali avrebbero costituito il grosso del loro esercito, comprendente soprattutto Bullom e Temne; molte fonti distinguono, in particolare, le spartane abitudini e la bellicosità in battaglia dei Mani dai comportamenti dei Sapi, che, pur essendo generalmente ritenuti intelligenti e abili, erano giudicati, come scrisse Almada, "dediti alle feste e ai piaceri" (ma Rodney avanzò ragionevoli dubbi circa la fondatezza di tale immagine paciosa, 1967).
Dopo le conquiste compiute verso la metà del Cinquecento, i Mani, che alcune cronache, compresa quella di Donelha, sostengono essere stati originariamente condotti da una donna, Macarico, morta quando essi giunsero alle frontiere orientali della Sierra Leone, si divisero tra loro i territori occupati e si proclamarono "re" (termine equivalente piuttosto a capo) di piccoli "regni": verso la fine del Cinquecento, quando venne pubblicato il Tratado di Almada, i Mani erano quasi totalmente assimilati dai sottomessi Sapi e il loro stesso nome stava cadendo nell'oblio. Il fatto che si possano distinguere due tipi diversi di Mende, uno più strettamente legato al ceppo Mandingo e uno fuso più intimamente con gli aborigeni Sapi, uno dolicocefalo e uno col cranio "più rotondo, con la fronte sfuggente e bozze frontali prominenti" (McCulloch, 1950, rifacendosi a esami antropometrici precedenti), potrebbe essere invocato per spiegare le diversità formali tra due tipi di "mahen yafe" sopra descritti.
A causa di frequenti discrepanze tra le cronache antiche, è difficile valutare oggi le conseguenze dell`invasione Mani, bloccata prima dai Limba e poi dai Susu, anche se si riconosce che l'intera vicenda ebbe un carattere essenzialmente militare e locale e quindi non comportò vasti movimenti migratori. Rodney comunque ritenne che la conquista Mani avesse distrutto le strutture portanti delle culture Sapi e, di conseguenza, avesse causato il declino delle loro arti "associate a una cultura pre-Mani", benché proprio attraverso i Mani fossero giunte in Sierra Leone le tecniche per tessere e per lavorare il ferro (quest'ultima, però, già da tempo conosciuta in alcune parti del paese). Secondo questa ricostruzione, a un incremento delle conoscenze tecniche dei Sapi, ovvero, in sostanza, soprattutto dei Bullom e dei Temne, avrebbe corrisposto una decadenza delle loro sculture, comprese quelle in pietra.
Da parte sua Hair ha energicamente criticata questa interpretazione e l'ha confutata tracciando "sulla base di prove linguistiche" (1974) la sostanziale continuità etnolinguistica della costa guineana tra il XVI e il XVII secolo e oltre. Di fatto, Hair, che mira a demolire la storia della Sierra Leone proposta da Kup e a rifondarla sulla base di una nuova metodologia, nega che l`invasione Mani abbia comportato effetti sconvolgenti sulle culture autoctone e sostiene che le gesta dei Mani avrebbero avuto una portata essenzialmente militare e nessun nesso con ipotetiche migrazioni di popoli. Trovandosi, una tantum, in accordo con Kup, ma al fine di contrastare l'interpretazione catastrofica di Rodney, Hair avanza l'ipotesi secondo la quale il declino dell`arte Sapi-portoghese di scolpire l`avorio avrebbe avuto luogo, nel Seicento, in concomitanza con la crescente strage di elefanti.
La lettura incrociata delle cronache portoghesi sopra menzionate, integrata dalla esegesi di Hair, che intorno al testo di Donelha ha costruito una fittissima rete di riferimenti a tutte le altre fonti esistenti, lascia supporre che la produzione delle sculture in pietra sia retaggio soprattutto degli antichi Bullom e Temne, e, in minor misura, di altri gruppi tribali, loro vicini, compresi i Kissi, coinvolti nella turbolenta storia dei "regni Sapi". Ai Sapi, e talora ai loro capi Mani, si riferiscono Almada e Donelha nelle loro testimonianze, frutto di esperienze quasi contemporanee, ma indipendenti l'una dall'altra: i Sapi si affilano i denti, portano anelli al naso e alle orecchie, esibiscono scarificazioni e tatuaggi sul corpo; i loro guerrieri mettono in mostra i crani dei nemici uccisi; i capi emanano decreti restando seduti su "una piattaforma rialzata" e impongono come segno di autorità ai loro consiglieri un copricapo (alla foggia dei copricapi, talvolta adornati di piume, viene comunque attribuita grande importanza in varie cerimonie). La costellazione dei regni Sapi, che aveva la caratteristica di comprendere, verso la metà del Cinquecento, popolazioni diverse in una vacillante "struttura piramidale di governo" retta da un potere supremo forse situato presso Cape Mount (Rodney), può di per se concorrere a spiegare quella diversità nella continuità che si riscontra tra gli stili delle sculture in pietra.
Alcune osservazioni a parte meritano i dignitari (i nobili o, semplicemente, gli anziani) detti "solategui", che aiutano i capi nella amministrazione della giustizia, ma hanno anche un ruolo importante nella vita religiosa delle comunità. Nei capitoli XIV e XV del Tratado, Almada si sofferma su questi dignitari, ai quali spettano particolari copricapi e seggi di legno, simboli di prestigio puntualmente rappresentati nelle sculture in pietra. La descrizione di due rituali specifici possono essere di aiuto, ancora una volta, nel tentativo di decifrare il significato di alcune sculture: insieme con il loro re, i "solategui" alimentano la credenza in un demone ("Demonio", scrive Almada, con termine sbrigativo) la cui presenza essi segnalano, di notte, percorrendo nudi le strade con grande chiasso mentre agli altri, ovvero alle donne e ai non iniziati, è proibito uscire di casa, pena la morte (salvo eccezioni decretare dal capo); nel corso di quella che oggi chiameremmo una seduta giudiziaria, agli avvocati è dato di coprirsi il volto con maschere orrende (umas màscaras mui feias) nel difendere gli imputati.
Esistono delle sculture in pietra, tutto sommato abbastanza frequenti, che potrebbero rappresentare questi personaggi mascherati. Alcune di queste sculture sono stilisticamente rapportabili ai "nomoli", mentre altre sembrano imparentate ad altri stili e in quelle relativamente più tarde viene accentuato l'aspetto grottesco e fantastico.
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E' interessante rilevare che tutte queste figure mascherare ripetono, pur con variazioni e invenzioni stilistiche, un prototipo che doveva essere riconoscibile e quindi rispondere a canoni determinati.
La parentesi storica che sopra ho sommariamente delineato lascia aperti, naturalmente, molti problemi, tra i quali quello relativo alla datazione delle sculture più antiche in assoluto, problema alla cui soluzione daranno, si spera, un contributo decisivo i nuovi, e sempre più raffinati, metodi di analisi dei reperti archeologici. Non priva di ombre resta anche la questione del declino delle antiche culture della Sierra Leone e della Guinea, perché, nonostante il rigore col quale Hair ha illustrato la continuità di quelle società nel tempo, sussistono margini di incertezza circa la coincidenza (o lo sfasamento) tra le vicende culturali e quelle linguistiche. Almeno per quanto concerne le zone costiere della Sierra Leone è verosimile che il declino delle sculture in pietra sia stato di poco posteriore a quello delle sculture in avorio, mentre è certo che la memoria delle antiche tradizioni ha lasciato tracce più persistenti nelle zone più interne, verso la Guinea, dove gli Inglesi si avventurarono solo a partire dalla seconda metà dell'Ottocento.
Riconosciuto che, grazie alle ricerche di Hair, oggi sia poco convincente addossare la responsabilità della scomparsa delle tradizioni Sapi ai Mani, restano comunque da individuare le ragioni che hanno concorso nel causare il tramonto delle arti Sapi. Tra queste ragioni, di natura eterogenea, elencherei: quelle interne, legate alle perenni lotte tra capi locali, come quelle di cui fu diretto testimone John Hawkins nel 1567-1568, e di cui si trovano echi in numerose cronache; gli effetti devastanti della sempre più rapace tratta degli schiavi (l'episodio raccolto da Donelha a proposito di un intero villaggio Bullom sottrattosi alla schiavitù imposta da un capo Mani lascia supporre che tali fughe verso l`interno siano aumentate con la crescita dello schiavismo europeo e abbiano quanto meno indebolito gli equilibri dei vecchi ordini tribali); le pressioni esercitate dai missionari cristiani e musulmani, molto suscettibili di fronte all'adorazione di idoli pagani, come del resto constatiamo anche nei commenti del missionario americano George Thompson, che, a quanto pare, fu il primo viaggiatore a descrivere, nel 1852, dei "nomoli", trovati tra le rovine di un villaggio distrutto dalle guerre (Fraser, 1971); e infine la lenta ma implacabile assimilazione di alcune popolazioni da parte di altre (si pensi all`influenza Temne esercitata sui Bullom, che oggi occupano solo parte della Penisola di Turner, o alla fusione, sul territorio della Sierra Leone, tra Kissi e Mende).
Entro un orizzonte culturale nel cui ambito i nessi tra religío e potere erano inestricabili, l'abbandono dell'arte della scultura in pietra, legata al culto degli antenati e a una precisa committenza, implica la dissoluzione di tutto un complesso di vincoli sociali e religiosi. Proprio dove gli antichi capi avevano potuto costruire, attraverso i secoli, una tradizione, questa più rapidamente si spense, mentre essa poté sopravvivere in luoghi più lontani, resi più sicuri dalla fitta foresta ma anche remoti rispetto alle condizioni sociali e materiali in cui era nata.
Se si giudicano le sculture in pietra sulla base del loro valore artistico, non si può fare a meno di cogliere differenze notevolissime anche all'interno di ciascuno dei gruppi sopra distinti secondo criteri formali. Le sculture più antiche, lavorate con cura nei dettagli da scultori molto abili, spesso patinate e ammorbidite dal tempo, non possono essere confuse con quelle più tarde, in genere semplificate e meno fini nell'elaborazione dei particolari, e tanto meno con quelle fatte all'incirca nell'ultimo secolo, reinventate nelle forme e nei contenuti. Quanto alle patine, gli effetti più pregevoli sono riscontrabili in esemplari ricavati da un minerale compatto e relativamente untuoso al tatto, che diviene lucido con l'uso; alcune sculture sono coperte da una patina crostosa formatasi con le offerte rituali, mentre altre sono avvilite da una patine telephone assolutamente artificiale. Lo scultore antico, tecnicamente qualificato anche se anonimo, e sotto certi aspetti paragonabile a un artista romanico, sa affrontare con decisione tanto il tratto umano quanto quello divinoide, tanto il dettaglio realistico (che può rinviare, come si e visto, a riti e simboli molto specifici) quanto la soluzione formale "astratta", che può essere ardita in quanto applicata a parti considerate secondarie rispetto a contenuti espressivi ritenuti primari. Allo scultore più tardo viene a mancare, anche quando ha talento, il punto di riferimento costituito da una gerarchia dei valori saldamente controllata dalla natura politico-religiosa del potere, in qualche modo depositario del senso delle cose.
Le migliori di queste sculture, nelle quali si manifesta compiutamente il genio plastico africano, richiedono di essere osservate e giudicate da diversi punti di vista e, per essere apprezzate, dovrebbero essere maneggiate e valutate anche attraverso un attento esame autoptico delle superfici.
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Si può ipotizzare che tra il Duecento e il Seicento si sia consumata l'esperienza storica attraverso la quale i prototipi hanno perso la loro nettezza, formale e semantica, allontanandosi dai loro referenti storici originari fino a diventare enigmi, e quindi fino al momento in cui sono stati reinterpretati dalle popolazioni che, in modo più o meno indiretto, li ereditarono. Per esempio, il tema del guerriero circondato dai crani dei nemici vinti e quello del re, o capo, in atteggiamento protettivo nei confronti di personaggi a lui sottomessi (quest'ultimo secondo una raffigurazione che ne ricorda una Benin analoga) si incrociano e danno l`avvio a una produzione semplificata e più generica, che a sua volta si sovrappone al tema del gruppo raccolto intorno a un capo addobbato "alla portoghese". Di alcune figure diventa difficile, o impossibile, stabilire addirittura se siano o non siano a cavallo di un animale e, come aveva sostenuto Dittmer, le sculture che un tempo reggevano un recipiente, certamente di significato simbolico, finiscono per esibire, più modestamente, il proprio ventre. Parallelamente, le decorazioni dei costumi e delle corazze portoghesi diventano sempre più vaghe e incerte. Tra i problemi di identificazione posti dalle sculture in pietra uno è costituito dal curioso modo in cui certi personaggi sembrano sostenersi il mento e/o reggere un oggetto all'altezza del mento o del ventre. Nelle sculture eseguite con maggiore precisione e perizia la barba, per quanto stilizzata, è distinta da un oggetto, di significato rituale, che non ha sempre la stessa forma e che è diventato più o meno indistinto attraverso duplicazioni sommarie. Come è stato suggerito, in taluni casi può darsi che un personaggio impugnasse emblematiche corna di antilope, che alluderebbero a un diffusissimo simbolo del potere. Altre volte, tuttavia, si tratta di un recipiente, e altre volte ancora di una testa mozza. Alcuni personaggi reggono una specie di fune vegetale. Relativamente più agevole è l'identificazione di armi e strumenti musicali.
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