We. Tehe gla.

 

 

 

 

Tra i We la maschera è la rappresentazione simbolica di uno spirito protettivo. È un essere sia mitico sia mistico, spirituale e materiale, visibile in certi momenti e invisibile in altri. È la maschera che detta le leggi che regolano la comunità. Nelle aree culturali dove la civiltà è strutturata dalla maschera e intorno alla maschera, essa forma la base strutturale delle regole sociali e permea tutti gli aspetti della vita sociale. Nella società la maschera è un istituzione "supra terrestre" designata per gestire la comunità ad un livello che supera l'umano. Pertanto è considerevole l'influenza sugli esseri umani, permeata di magia, religione, pensiero e tutte le attività, dato che essa è lo strumento di comunicazione tra il mondo visibile e quello invisibile. Grazie alla sua capacità di dispiegamento funzionale, la maschera è titolare di tutti i poteri.
(...)
Tra i We, la maschera è suprema nel regno della metafisica. Di conseguenza, i suoi occhi hanno un ruolo fondamentale: due immense, vuote cavità rivelano un enigmatico sguardo, un'espressione sublime che trasforma la maschera nella manifestazione di una condizione universale fondamentale dell'anima comune a tutta l'umanità. Un'emozione generale resa eterna da un'espressione definitiva. Il disegno della maschera esprime una filosofia, una metamorfosi interiore che richiama forze sovrumane, disperde energie naturali che la trasformano in uno strumento di partecipazione mistica nella vita degli antenati e degli dei. In questo modo, la maschera consente a ciascuno essere di entrare nel ciclo della trasfigurazione. (Victoria Medina & Théophile Koui)

 

 

 

 

 

 

 

 

"Tehe gla". Cultura We.
Legno, tessuto, cauri, dente di felino, peli animali, piume, corna, fibre vegetali, metallo, materiali e sostanze diverse. Dimensioni: cm. 50 solo maschera, cm. 73 con tessuto.
Provenienza:
galleria Pierre Dartevelle, Bruxelles (B).
Expertise:
Pierre Dartevelle, Bruxelles (B), 2006.
classificazione Alain-Michel Boyer. Mail 27-28.03.2020.
Catalogazione AA 66/2006.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Estratto da "We", 2020.
Alain-Michel Boyer.

 

La "grande maschera" ("gla klaha").
Ciò che noi chiamiamo la "grande maschera" ("gla klaha", talvolta tradotto come "maschera della saggezza"), non si riferisce a un tipo particolare ma alla maschera più antica posseduta da una confraternita(brotherhood) che ha abbandonato la sua funzione iniziale. Dal momento che è sopravvissuta a un singolo portatore, questa peculiarità dona alla maschera un duplice status di mediatrice: tra "nyonswa" (dio supremo) e umani, e tra i lignaggi possessori di maschere quando sorge una lite. Avendo goduto di diverse promozioni ed essendo riconsacrata ogni volta, essa riceve nuovi sacrifici: espettorazioni di noce di cola, libagioni, sangue di animali.
Quando essa diviene un "klaha", i suoi colori si scuriscono, corna, zanne, denti di leopardo, peli di bufalo vengono aggiunti alla sua decorazione, completata, per esempio, da chiodi da tappezzeria. Tutti questi componenti sono segni che provengono da altrove, e spiegano il soprannome di "antenato" ("naan"), ovvero il potere che protegge, i pericoli che emanano da essa, i miracoli attribuiti ad essa.
La maschera diventa una sorta di preziosa "antichità", e viene esposta solo raramente, in circostanze solenni (simile alle vergini delle chiese spagnole che sfilano una volta all'anno su carrelli, vestite in tulle, seta e oro). Il danzatore ha il capo sormontato da un enorme grappolo di piume d'aquila ("dgisi"), porta la coda di un animale, un'ascia o una lancia e alla fine può brandire un gallo vivo. All'inizio della cerimonia, è nascosto sotto un velo (per mantenere la suspense), che viene improvvisamente strappato come una tenda da palcoscenico che si apre per una diva, rivelandone la maschera, annunciata dalle corna e circondata dalle sue "maschere annunciatrici" (le "kpepo gla").

 

 


"gla klaha", Diaouin(Costa d'Avorio)

 


La "maschera sacra" ("ji gla").
La "maschera sacra", considerata la più importante nella gerarchia di maschere, è anche una figura antica che ha lentamente acquisito questo status attraverso una successione di mutazioni. Dopo essere stata indossata da quattro o cinque generazioni di danzatori, in altre parole per quasi un secolo, è diventata il reliquiario di energia vitale del suo indossatore di maschera ("zo zai"). A volte prima era stata una "comedy beggar", poi una "bravery mask", poi è diventata "sacra", poi sempre più "sacra", soprattutto quando ha dimostrato la sua efficienza nella lotta agli incantesimi. Inoltre un fattore decisivo, spesso trascurato dagli studiosi, è il desiderio della confraternita di migliorare il proprio rango.
Sebbene l'importanza della maschera derivi dalla sua età e dai ruoli che ha ricoperto progressivamente, la sua autorità dipende anche dall'opulenza del lignaggio che la possiede e gli sforzi che ha fatto grazie alla maschera per acquisire ulteriore prestigio: tra i We la prosperità è un segno di dignità che ispira deferenza e rispetto. La stessa parola, "gninègnyon", significa sia "uomo famoso" sia "uomo ricco".
È importante organizzare cerimonie sempre più sontuose, per aumentare il grado della maschera, scegliere animali sempre più costosi da sacrificare ("sraha"): il pollo ("suu") è sostituito da una capra femmine ("gbao"), poi una capra maschio ("van-an"), poi un montone ("blauwe") e infine, come suprema consacrazione, da un bue ("blí"), animale "molto raro" tra i We, almeno ai vecchi tempi, poiché, come ha scritto il primo esploratore, "molti villaggi non ne hanno uno" (Ollone 1901, p. 87).
Più ricco è il lignaggio e meglio è in grado di sopportarne il costo. Arricchita dalla generosità delle feste, ammirata per il suo splendore, lodata da un pubblico soddisfatto, la maschera riceve automaticamente una promozione che la farà accrescere ad ogni nuova cerimonia.
Inoltre, le due maschere principali ("gla klaha" e "ji gla") hanno un punto in comune: l'importanza data al colore bianco (colore del lutto, degli antenati, degli spiriti e colore della confraternita Kwi), la polvere di caolino cosparso sulla maschera, la barba, il copricapo, un panno bianco per nasconderla prima che venga esibita, la tunica bianca del danzatore, il coro vestito con i suoi costumi bianchi. Dal momento che queste specificità non sono mai invariabili e subiscono mutazioni e cambiamenti nel corso degli anni, ogni maschera, o piuttosto il suo possessore, aspira a elevare il suo status.
Le "gla", incarnazione di forze naturali hanno lo stesso destino dei "doppi" del vivere, lo "zuhu", i principi di vita che, da una reincarnazione all'altra, da un'esistenza alla successiva, possono far elevare sulla scala sociale, accedere a un rango superiore, per cui un semplice agricoltore può diventare un "aklaha" (capo di una fascia di età), un "glokodyeí" (capo di un quartiere), un "dihiduye" (capo di una confraternita) e infine un "bloadyeydyei" (padrone di un territorio agricolo). La stessa ascensione sociale vale per "gla", che è considerata una persona, una persona nel pieno senso del termine.
Un altro fenomeno, che può sembrare inconcepibile in altre società africane che venerano l'integrità delle loro maschere per sempre inalterabili, è che per i We le modificazioni influenzano anche la forma complessiva dell'oggetto, la sua struttura. Quando è scolpita nella forma di un rettangolo che è il tipo più frequente, viene reintagliata per renderla più oblunga. Quando la sua potenza deve essere aumentata, viene completamente rielaborata: le modifiche sono caratterizzate da un aumento di volume, da una faccia allargata.
Per affinare la maschera e perfezionarla, è possibile eventualmente correggere la forma del naso, degli occhi e delle guance. Con pochi colpi di ascia sono scolpiti alcuni pezzetti di legno che vengono aggiunti e fatti alcuni adeguamenti: il viso diventa più largo, gli occhi più lunghi, pioli vengono aggiunti agli zigomi, appendici vengono inserite nelle tempie, viene modellato un corno mediano e aggiunta una mascella mobile. In alternativa, le fessure possono sostituire o completare gli occhi tubolari. A dire il vero, questa abbondanza di dettagli e aggiunte a volte influisce meno sulla maschera stessa della sua decorazione (ricchezza di appendici, paraorecchie laterali, orecchini laterali), ma poiché il legno sottostante è sempre più adornato, i componenti originali della faccia "iniziale" (nelle sue altre funzioni) possono essere difficili da riconoscere, anche se tracce dei precedenti usi sussistono velatamente.
Per la sua stessa forma, la maschera deve essere imponente a tutti i costi, deve suscitare sempre più ammirazione. Queste acclamazioni e prove di entusiasmo aumentano la reputazione della maschera ed esaltano il suo prestigio. In breve, l'essenza dell'arte dei We è la plasticità, in ogni senso del termine, e negli ultimi decenni questa plasticità è stata caratterizzata da un sovraccarico e aggregazione di elementi.

 

 

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"ji gla", Duabo(Liberia)

 


La "maschera del coraggio" ("tehe gla").
La "maschera del coraggio" ("tehe gla" per i We meridionali, "tonhu zri" per i settentrionali), talvolta viene chiamata "maschera del guerriero" (Harter 1993, t. I, p. 205), ma "tehe" significa audacia, impavidità (guerriero è "too-voni"). Nell'estremo sud, sotto-prefettura di Tai, nel villaggio di Djiera, è chiamata "nahien bihi". Come scrisse il primo esploratore occidentale, i We erano costantemente in guardia: "Di un temperamento guerresco, essi non fanno un passo nel loro villaggio senza una pistola in mano" (Ollone 1901, p. 114).
Se le guerre erano numerose, era perché erano un mezzo di promozione. In quanto parte essenziale della vita, i We consigliarono che le parti in guerra concordassero il tempo e il luogo della disfida per consentire una preventiva evacuazione di donne e bambini. Come erano queste guerre? Molte erano schermaglie a seguito di ciò che noi chiamiamo "problemi della donna" (ad esempio, un adulterio seguito da omicidio). Non c'era intenzione di spazzare via l'avversario: le ostilità cessavano dopo due o tre morti ... Ma tra tutti gli eventi collettivi, la "guerra" era l'epopea che i vecchi di oggi ricordano (o inventano) con la più grande passione. Prendete un gruppo di vecchi, seduti la sera a bere vino di palma. Sembrano passivi, apatici. Ma appena si parla dei combattimenti dei vecchi tempi, i loro occhi sgranano, si riempiono di luce e racconti delle imprese guerresche erompono.
Ciò dimostra l'importanza di tale maschera, che era precedentemente usata in due occasioni. La prima, nella cerimonia antecedente la spedizione essa esortava gli uomini, stimolandoli con balli e canti, come i seguenti, cantati da tutti: "n'lwé harai meit / n'se lwè hwè meít / sen mait ... "("non temere i tuoi nemici / morirà solo l'uomo che teme la paura"). Reputata invulnerabile, immune da proiettili, si trovava persino, si dice, di fronte ai combattenti. La seconda, alla fine del conflitto, essa li accoglieva a casa, partecipando alla loro glorificazione e al sacrificio della "contabilità finale": i vinti offrivano un ariete, che veniva tagliato in due e mangiato con i vincitori. Dopo ognuna delle parti pagava un risarcimento per coloro che erano "morti in combattimento", sia per i vinti sia per i vincitori. Una regola che sconcertò i primi ufficiali francesi, come vediamo dai loro rapporti negli archivi coloniali. Ma questa maschera ha perso la sua funzione: la "pacificazione", come la chiamavano i francesi, vale a dire il divieto di ciò che l'esercito coloniale chiamava "guerre tribali", ha posto fine ai conflitti.
Essa evoca semplicemente ricordi del precedente potere, con il trasferimento verso altri ruoli. Avendo mantenuto il suo carisma, la sua unica presenza assicura che l'ordine venga mantenuto durante le riunioni e sia propizia per la caccia grossa. I danzatori riproducono i gesti dei guerrieri, corrono tra le case, si gettano per terra, mimano la sorveglianza strisciando a terra, si fermano, poi ricominciano di fronte agli abitanti del villaggio riuniti in un cerchio sul terreno della riunione.
Più grande di qualsiasi altra maschera, nera o di colore scarlatto, la sua parte posteriore è intagliata rettangolarmente, il viso è segnato da lineamenti forti: un naso largo e a cuneo, gli occhi cilindrici, una fronte alta ornata di appendici, un'enorme bocca spalancata con la mascella inferiore incardinata, denti, corna e zanne che rafforzano l'impressione di aggressività e un'ampia barba nera sottolinea la sua mascolinità. Ma in contrasto con questa amplificazione visiva, la gonna è corta per consentire al danzatore di muoversi agevolmente, di essere sempre movimento, perché non può sedersi; egli corre in tutte le direzioni, scuotendo una lancia, una frusta o un bastone, con i quali aggredisce coloro che infrangono le regole o semplicemente sono membri del pubblico, per mostrare la sua forza e mantenere l'ordine.

 

 


"tehe gla", Ziglo(Costa d'Avorio)

 


La maschera del "mendicante comico" ("zroo gla").
La "zroo gla" (mendicante comico) o "zroo zri", è nella gerarchia inferiore delle maschere. Questa maschera subordinata consente più flessibilità nelle cerimonie, soprattutto quando si tratta di estetica, permettendo allo scultore di introdurre innovazioni morfologiche infinite. Il risultato è che, da un villaggio all'altro, è difficile identificare questa maschera a prima vista senza domandare ai cerimonieri. Piuttosto piccola, di solito ha un viso antropomorfo, con colori vivaci e contrastanti, rosso, giallo, blu per enfatizzare il suo carattere spiritoso ed allegro.
Con le sfumature, tuttavia, nulla è mai semplice: questa disposizione di colori è simile al trucco indossato dalle ragazze nelle cerimonie di escissione. Ci sono a volte aggiunte zoomorfiche (teste di ariete o di cervo). La maschera deve il suo nome generico al fatto che sembra un vagabondo da commedia, un attore in una "commedia dell'arte" africana. È un "ruolo" nel senso teatrale del termine. Il "ruolo" di mendicante, di parassita, sottolineato dal particolare patronimico dato a queste maschere, che vengono esibite sempre in due, tre o più: kuhe (arachidi), koho (riso cotto) o kao (palma da olio).

 

 

 

"zroo gla", Blay(Costa d'Avorio)


 

La maschera "artista danzante" ("dehe gla").
La maschera "artista danzante" è nota come "dehe gla" o "dehe zri". È un passo avanti nella gerarchia delle maschere. Un simbolo importante in Africa è quello che il sacrificio di un animale è necessario per configurare una maschera, affermandosi come maestra di cerimonie, il cui repertorio di gesti entra nella scena, parodiando occupazioni e attività. Questo fa ridere il pubblico. Esso le offre con entusiasmo doni, nei tempi passati braccialetti in ottone ("diguin"), oggi banconote. Indossata da giovani uomini che devono essere danzatori virtuosi, è la maschera più diffusa: alcuni villaggi ne hanno una dozzina. Ecco perché, oltre al suo nome generico (che indica la sua funzione), essa porta distinti patronimici in diverse regioni: Zrobaye in Béoua, Kangla in Yoya (sotto prefettura di Blolékin), Baogla in Troya (sotto prefettura di Tai).
La "dehe gla" si esibisce raramente da sola ma in compagnia di altre maschere di altri villaggi che si sfidano a vicenda. Come corollario di questa proliferazione, nell'interesse di evitare la monotonia e la ridondanza, la maschera mostra una varietà di forme e condizioni. Di solito antropomorfa, presenta quasi sempre qualche aggiunta di parti di animali: le corna, le piume di gallo, il becco adunco dell'aquila.
Non esiste una regola per gli occhi, che cambia da una regione all'altra: tubolare, semi-sferica, globulare, strabica. La bocca è dotata di denti ritagliati da fogli di alluminio, il copricapo è una cresta fatta di piume di bucero fissate a una corona di rattan. Un pezzo di tessuto inserito sotto il mento della maschera pende, nascondendo il viso del danzatore quando indossa la maschera in testa.

 

 

 

dehe gla, Ziriglo(Costa d'Avorio)

 

 

La "maschera della canzone" ("ble gla").
La "maschera della canzone" ("ble gla" o "ble zrí", "ble" che significa "cantare") è ancora un altro grado avanti nella gerarchia delle maschere. Essa deve rimanere in possesso del medesimo lignaggio. Accompagnata da mezza dozzina di assistenti che fungono da coro ("dewon"), presiede le cerimonie funerarie, le celebrazioni, i matrimoni, i ricevimenti di persone importanti e le cerimonie celebranti la fine dei rituali di circoncisione e di escissione. Considerata una maschera "femmina", ha il volto, dipinto con colori vivaci abbastanza vari, incorniciato da diverse file di campanellini con Il loro tintinnio che predomina.
Il danzatore, che indossa anche una piccola cavigliera a sonagli, è accompagnato da molti altri grandi sonagli suonanti ("saon" o "kèlaì", una sorta di idiofono). Quando il danzatore canta, getta la maschera dietro la testa e piega il tessuto che nasconde la sua faccia in un cilindro, che usa poi come megafono per cantare gli elogi di coloro che sta onorando: membri del lignaggio, cuochi che hanno preparato il pasto, una persona deceduta di cui recita la genealogia. A volte si ferma davanti a un ospite, talvolta a un estraneo, seduto sul bordo del pavimento della danza, che si inchinano a lui, lo salutano, riprendendo poi a ballare.

 

 


"ble gla", Pinhou(Costa d'Avorio)

 

 

La "maschera annunciatrice" ("kpepo gla").
La "maschera annunciatrice" ("kpepo gla"), è erroneamente chiamata "griot" (Harter 1993, I, p. 208), erroneamente in quanto non svolge questa funzione che esiste tra i Malinke (sotto il vero nome di "jeli" o "djeli"). L'appellativo è stato doppiamente travisato, poiché la maschera non parla. Non avendo voce, è un informatrice che spia, osserva, per rivelare coloro che lanciano incantesimi. È la prima ad apparire sulla scena per le celebrazioni di gioia, così come per quelle funerarie, e il suo ruolo è quello di dire alla "maschera sacra" (la "ji gla") le malvagità che ha sentito e visto. Questa maschera comunica solo attraverso il suo portavoce, il "gla wi", il cui ruolo è lodare i meriti delle "grandi" maschere.
In realtà, assomiglia alla "maschera della canzone" ("ble gla"), e gli abitanti del villaggio sottolineano le specificità che determina la sua "distinzione": una bocca con denti piccoli accennanti un sorriso, spesso con uno stelo d'erba tra le labbra segno del suo stato d'animo ma anche segno di un legame con la natura. Fessure sottili per gli occhi, palpebre abbastanza piatte, naso sottile tra due zigomi prominenti. Incorniciato da un fregio di campanellini che corre da un orecchio all'altro come una barba, il volto è coperto con un copricapo fatto di pelli di animali e piume di bucero, ornato con file di conchiglie ciprea. Nella sua mano destra, l'indossatore tiene un bastone intagliato come uno scettro dei re, nella mano sinistra uno stelo di palma. Queste due insegne sono i segni del grado della maschera come intermediario tra società e natura selvaggia.

 

 

 

"kpepo gla", Béoué(Costa d'Avorio)

 

 

La "maschera funebre" ("ko hezri").
Tra i We settentrionali una specifica "maschera funebre" ("ko hezri") ha questa funzione. A dire il vero, in altri villaggi vengono utilizzate altre maschere nei funerali, anche se questo non è una caratteristica generalizzata (diversamente che tra i Yaure e i Baule). Spesso le maschere compaiono solo quando il defunto è un membro della confraternita. Nel nord del paese, la "ko hezri" veglia su un processo importante, chiamato "nipoha", che consiste (come quasi ovunque in Africa) nel rivelare la persona "colpevole" della morte (nessuna morte è "naturale", ma derivante dalle azioni nefaste di qualcuno esperto nel lanciare incantesimi). Prima di essere bandito dall'amministrazione coloniale, questo ha assunto spesso la forma di un'ordalia, "srin-lé" (Boyer 2016, p. 88).
La "ko hezri" prima di tutto sorveglia questi riti divinatori, che rivelano l'identità del colpevole, che dovrà pagare una multa o ricevere una punizione, e che al suono del canto ("nzia dri doté wé", "ti auguriamo un buon viaggio" e "geta dj éwé", "prendi il tuo posto per sempre") accompagna il corpo al luogo di sepoltura per consentire allo "zuhu" (il doppio) di prendere il sentiero chiamato "minhan", che conduce a "siena", la massima destinazione degli spiriti dei morti. In questa veste, le maschere antropomorfe tutte nere danno un'impressione di tristezza: linee scendono nei loro tratti del volto, dall'arcata nasale alle guance, la bocca spalancata in un urlo di dolore, mentre i piccoli occhi si suppone che piangano (Girard 1968, pp. 101-5).
Altre maschere.
Potremmo descrivere molte altre maschere, ma per mancanza di spazio dobbiamo accontentarci di citarne solo alcune, come la maschera "maestro delle acque" ("pahu-símah") tra i We settentrionali. Questa è una maschera antropomorfa con le caratteristiche dello scimpanzé (naso adunco, narici larghe, occhi infossati nelle loro orbite, viso lungo con una bocca spalancata). Sorveglia la manutenzione delle fontane, cantando "mimba de bo gueu ba, mimba dé oh ghanhwé "(una maschera non conosce né madre né padre).
Ancora tra i We settentrionali, la maschera "killer di incantesimi" ("koma"), il cui potere si suppone essere "più grande di quello di tutte le altre": rivela incantesimi ("gu") e gli esseri che li lanciano ("gunyon", "mangiatori di doppi"). Le mie indagini indicano che esiste ancora una maschera del genere in tutti i villaggi tra Kouibli e Fakobli, a est di Man, il che manifesta la sua importanza. Si è detto persino che possa operare contro il capo del lignaggio in persona se questi minaccia qualcuno a torto, ma sembra che ciò possa essere messo in dubbio (i patriarchi sono sacrosanti). Tuttavia il fatto che solo gli uomini maturi possano indossarla conferma la sua importanza, similmente al fatto che l'uso sia consentito nel villaggio di Kiraio, regno esclusivo del Kwi, incompatibile con le maschere (Girard 1967, p. 96).
Il suo nome, "koma", si trova anche tra i vicini popoli che vivono al nord (Tura, Mahu; o in francese, Mahou), che ne indica l'appropriazione, ma solo a livello semantico. Tra questi è rappresentata da un volto umano coperto da uno spesso strato di materia sacrificale prolungato da un lungo becco appuntito e biforcuto. Alcune si trovano nei musei (Barbier 1993, II, p. 59). La "koma" dei We è invece fondamentalmente diversa. Sappiamo che in una maschera lo stesso nome, tanto più se è potente, è facilmente adottato in molteplici forme su vaste aree (questo è il caso di "je" ("dje") o "do" (o "lo") nel nord, est e centro della Costa d'Avorio) come se pratiche artistiche locali, forme di culto e espressioni indigene abbiano cooptato un nome prestigioso per catturare la magia trattenuta dalla parola.
Tra i We la faccia è divisa in segmenti per giustapposizione di elementi visivi apparentemente eterogenei: fronte sporgente, occhi tubolari che si estendono oltre l'arcata nasale, mentre il naso, sotto forma di un semicerchio, sovrasta un paio di enormi labbra chiuse (Girard 1967, p. 95). La maschera è muta e parlerà "solo per pronunciare la morte".
Tra i We settentrionali esiste anche una maschera esuberante e giocosa chiamata maschera "matto" (chiamata "dehezri") che anima le cerimonie, di cui è il fulcro; rappresenta un personaggio gioviale, da mostrare ai bambini, bevendo vino di palma e divertendosi instancabilmente cantando "digbeu, tigbeu colo" (amici, godiamoci la vita).