Giugn 2022. Julian Assange.

 

 

 

 

USA.
Assange rischia 175 anni di carcere per aver rivelato crimini di guerra.
Se li avesse commessi, sarebbe presidente.

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo mese è dedicato a Julian Assange, creatore di Wikileaks, giornalista al servizio dell’opinione pubblica di tutto il mondo, divulgatore di azioni e crimini occulti del potere nella sua accezione universale e nelle sue molteplici varianti.
Per me immenso esempio di “militante della verità”, di onestà intellettuale e coerenza assolute, a scapito della propria salute e vita, divenuto un perseguitato politico, la cui libertà è limitata da 12 anni, ora incarcerato in prigione inglese di massima sicurezza che rischia -fosse estradato in USA- 175 anni di carcere.
I brani riportati sono stralciati dal libro “Il potere segreto”, di Stefania Maurizi, pubblicato nel settembre 2021. Ad oggi si conferma la condizione di prigionia in Inghilterra di Assange in attesa di estradizione o meno.
Documentazione di riferimento è visibile nel sito di WikiLeaks https://wikileaks.org/.

 

 

 

 

 

 

 

 

Dalla prefazione di Kean Loach.
Questo è un libro che dovrebbe farvi arrabbiare moltissimo. E’ la storia di un giornalista imprigionato e trattato con insostenibile crudeltà per aver rivelato crimini di guerra; della determinazione dei politici inglesi e americani di distruggerlo; e della quieta connivenza dei media in questa mostruosa ingiustizia.
Julian Assange è noto a tutti. WikiLeaks, in cui ricopre un ruolo determinante, ha fatto emergere gli sporchi segreti del conflitto in Iraq e molto altro ancora. Grazie ad Assange e alla sua organizzazione, abbiamo conosciuto l'orrore di crimini di guerra come quelli documentati nel video Collateral Murder o quelli commessi dai contractor americani, per esempio a Nisour Square, a Baghdad, dove nel 2007 furono sterminati quattordici civili, tra cui due bambini, e altre diciassette persone furono ferite. Negli ultimi giorni del suo mandato presidenziale Trump ha graziato gli assassini di quel massacro, ma si è assicurato che Assange rimanesse in prigione.
Al cuore di questa storia c’è il prezzo terribile pagato da un uomo, trattato con estrema crudeltà per aver messo a nudo un potere che non risponde a nessuno, nascosto da un’apparenza di democrazia.
Mentre scrivo, il caso è nelle mani del sistema giudiziario del Regno Unito. La Gran Bretagna si vanta del fatto che le sue corti sono indipendenti, che rispetta lo stato di diritto e che i suoi giudici sono incorruttibili. Be', vedremo. Julian Assange è un giornalista il cui unico crimine è stato quello di rivelare la verità. È per questo che ha perso la libertà e ha passato gli ultimi due anni isolato in una prigione di massima sicurezza, con effetti devastanti, del tutto prevedibili, sulla sua salute mentale.
Se sarà estradato negli Stati Uniti rimarrà in carcere per il resto dei suoi giorni. Le corti inglesi consentiranno un'ingiustizia cosi mostruosa?
In Gran Bretagna ci sono anche altri aspetti di questa vicenda che ci riguardano da vicino: il grande esborso di denaro e risorse pubbliche per tenere Assange confinato nell’ambasciata dell’Ecuador; l'abietta vigliaccheria della stampa e dei media, che si sono rivelati incapaci di difendere la libertà del giornalismo; nonché l'accusa che il Crown Prosecution Service, in quel periodo guidato da Keir Starmer, abbia tenuto Assange intrappolato in un incubo legale e diplomatico.
Per quanto ancora possiamo accettare che il meccanismo del potere segreto, responsabile dei crimini più vergognosi, continui a farsi beffe dei nostri tentativi di vivere in una democrazia?

 

 

 

 

 

 

 

 

Nella cella di una delle più famigerate prigioni di massima sicurezza del Regno Unito, la Belmarsh Prison di Londra, un uomo lotta contro alcune delle più potenti istituzioni della Terra, che da oltre un decennio lo vogliono distruggere. Le istituzioni includono il Pentagono, la Central intelligence Agency (Cia), la National Security Agency (Nsa). Incarnano il cuore di quello che il generale Dwight D. Eisenhower, uno dei principali artefici della vittoria contro i nazisti in Europa, chiamava “il complesso militare-industriale” degli Stati Uniti e contro cui lo stesso Eisenhower, pur essendo un grande leader militare, aveva messo in guardia la sua nazione. La potenza e l’influenza di queste istituzioni si fanno sentire in ogni angolo del pianeta: decidono guerre, colpi di stato, assassini, influenzano elezioni e governi. In modo particolare quello italiano.
L’uomo detenuto a Belmarsh in compagnia di pericolosi terroristi e omicidi non è un criminale: è un giornalista. Si chiama Julian Assange. Ha fondato WikiLeaks, un’organizzazione che ha profondamente cambiato l’informazione, sfruttando le risorse della rete e violando in maniera sistematica il segreto di Stato, quando questo viene usato non per proteggere la sicurezza e l’incolumità dei cittadini, ma per nascondere i crimini di Stato, garantire l’impunità agli uomini delle istituzioni che li commettono e impedire all'opinione pubblica di scoprirli e chiederne conto. Assange e WikiLeaks hanno pubblicato centinaia di migliaia di documenti segreti del Pentagono, della Cia e della Nsa, che hanno fatto emergere massacri di civili, torture, scandali e pressioni politiche. Queste rivelazioni hanno innescato la furia delle autorità americane, ma in realtà nessun governo al mondo ama Assange e la sua creatura. Anche quelli finora meno colpiti dalle loro pubblicazioni li guardano comunque con sospetto, consapevoli che prima o poi il metodo WikiLeaks potrebbe attecchire anche nei loro paesi e far emergere i loro segreti. E non sono solo governi, eserciti e servizi d'intelligence a odiarli o comunque a considerarli nemici: il potere economico-finanziario, spesso a braccetto con diplomazie e 007, li teme altrettanto, perché gli affari più redditizi prosperano nella riservatezza.
E’ per questo che oggi la vita e la libertà di Julian Assange sono appese a un filo. Ha contro di sé un leviatano: l'intero complesso militare e d'intelligence degli Stati Uniti e una serie di governi, eserciti, servizi segreti di varie nazioni che non gli hanno perdonato le rivelazioni di WikiLeaks. L'unica protezione in cui può sperare è quella dell’opinione pubblica mondiale.
Mentre scrivo è ancora rinchiuso, dall'l1 aprile 2019, nella prigione di Belmarsh a Londra, nel mezzo di una pandemia. E’ possibile che a un certo punto venga rilasciato in attesa della decisione finale sulla sua estradizione, oppure no. Ma se le autorità americane riusciranno a vincere la battaglia legale che è in corso in Inghilterra, Assange verrà trasferito oltreoceano e chiuso per sempre, in isolamento, in una prigione di massima sicurezza, che potrebbe essere il carcere più estremo degli Stati Uniti: l'ADX Florence, in Colorado, dove si trovano criminali efferati come il signore del narcotraffico El Chapo. Alla sua condanna seguirà poi, molto probabilmente, quella di altri giornalisti della sua organizzazione.
Il caso va ben oltre la vita e la libertà del fondatore di WikiLeaks e dei suoi collaboratori: è la battaglia per un giornalismo che espone il livello più alto del potere, quello in cui si muovono diplomazie, eserciti e servizi segreti. Un livello che nelle nostre democrazie -soprattutto quelle europee- il cittadino comune spesso nemmeno percepisce come rilevante per la sua vita, perché raramente si mostra nei telegiornali e nei talk show. E perché il cittadino comune guarda al potere visibile: la politica che decide della sua pensione, della sua copertura sanitaria, della possibilità o meno di trovare un posto di lavoro. Eppure quel potere, schermato dal segreto di Stato, decide eccome la sua vita. Decide, per esempio, se il suo paese passerà vent'anni a fare la guerra in Afghanistan mentre non ha le risorse per scuole e ospedali, come nel caso dell'Italia. O se un cittadino tedesco viene improvvisamente sequestrato, consegnato alla Cia, torturato e stuprato perché scambiato per un pericoloso terrorista, mentre era innocente. Oppure se un uomo possa sparire dalle vie di Milano, a mezzogiorno, proprio come nel Cile di Pinochet, rapito dalla Cia e dai servizi segreti italiani, con i responsabili che rimangono liberi come l'aria.
Su questo potere segreto il cittadino comune non ha alcun controllo, perché non ha accesso alle informazioni riservate su come opera. Per la prima volta nella storia, però, WikiLeaks ha aperto un profondo squarcio in questo potere segreto, permettendo a miliardi di persone nel mondo di accedere sistematicamente e senza restrizioni a enormi archivi di documenti classificati che rivelano come agiscono i nostri governi quando, al riparo dagli sguardi dei cittadini e dei media, preparano guerre o commettono atrocità.
E’ esclusivamente a causa di questo lavoro che Julian Assange rischia di finire sepolto per sempre in una prigione. Eppure, se esiste un giornalismo che merita di essere praticato, è proprio quello che rivela gli abusi del livello più alto del potere. E non esiste libertà di stampa se i giornalisti non sono liberi di scoprire e denunciare la criminalità di Stato senza finire ammazzati o passare la vita in galera. Nei regimi non è possibile farlo senza andare incontro a gravissime conseguenze. Nelle società non autoritarie, invece, deve essere possibile. Per questo motivo il processo al fondatore di WikiLeaks deciderà il futuro del giornalismo nelle nostre democrazie e, in una certa misura, anche nelle dittature, perché queste ultime si sentiranno ancora più legittimare a reprimere la libertà d'informazione se l’”Occidente libero” metterà in galera per sempre un giornalista che ha rivelato l'uccisione di migliaia di civili innocenti, denunciato torture e gravissime violazioni dei diritti umani.
Julian Assange e la sua organizzazione hanno fatto irruzione nella mia vita professionale oltre dieci anni fa. Da allora l’intrigo e la disruption che hanno iniettato nel mio giornalismo non sono cessati. Dal 2009 a oggi abbiamo lavorato insieme, loro per WikiLeaks, io per il mio giornale -L’Espresso e La Repubblica- prima, oggi -Il Fatto Quotidiano-, alla pubblicazione di milioni di documenti classificati. Ho viaggiato per il mondo con i segreti della Cia e della Nsa. Assange e i suoi giornalisti mi hanno insegnato a usare la crittografia per proteggere le mie fonti. Stavo con lui a Berlino quando i suoi computer sparirono nel nulla. Ero nell'ambasciata dell’Ecuador a Londra quando lui, il suo staff, la sua compagna e il loro bambino, i suoi avvocati e visitatori venivano filmati e registrati di nascosto, e il mio telefono veniva segretamente aperto in due.
In questi anni sono stata, in alcune occasioni, seguita platealmente a scopo intimidatorio, ho subito una rapina a Roma, dove documenti molto importanti sono spariti nel nulla. Eppure nessuno mi ha mai chiuso in una prigione o anche solo interrogato o minacciato. Mai ho dovuto pagare il prezzo altissimo che sta pagando Assange: dopo aver pubblicato i documenti segreti del governo americano nel 2010, lui non ha più conosciuto la libertà.
Quello che ho visto dal 2010 a oggi, il trattamento che ha subito, il grave decadimento della sua salute, la campagna di stampa contro la sua persona, la persecuzione giudiziaria dei giornalisti di WikiLeaks e delle loro fonti -prima fra tutte una di grande coraggio morale, Chelsea Manning- mi hanno messo addosso una profonda inquietudine. Un’inquietudine che è andata di pari passo con quella che si è fatta strada in me a mano a mano che scoprivo la criminalità e la crudeltà di Stato rivelate dai file segreti di WikiLeaks.

 

 

 

 

 

 

 

 

Collateral Murder.

Non passò neppure un mese da quando Julian Assange mi aveva contattato per richiamare la mia attenzione su quel report del controspionaggio americano che WikiLeaks divenne un caso mondiale. Il 5 aprile 2010 pubblicò un video segreto dal titolo “Collateral Murder”, in cui si vedeva un elicottero americano Apache sterminare civili inermi a Baghdad, mentre l’equipaggio rideva. Quelle immagini furono viste da due milioni di persone in ventiquattro ore su YouTube, senza contare i canali televisivi che le rilanciarono in tutto il mondo.
Il filmato risaliva al 12 luglio 2007 ed era un file del Pentagono. Le riprese erano state effettuate in tempo reale da uno dei due elicotteri Apache che quel giorno sorvolavano la città a caccia di ribelli, e documentavano la strage senza filtri o censure. Una quindicina di civili -tra cui un apprezzato fotografo di guerra di ventidue anni e il suo assistente e autista di quaranta, che lavoravano entrambi per l’agenzia di stampa internazionale Reuters- erano stati fatti a pezzi da proiettili calibro 30 millimetri in dotazione all’Apache, mentre due bambini iracheni erano stati feriti in modo gravissimo. Il loro padre, alla guida di un furgone, si era fermato per soccorrere l’autista del fotografo della Reuters che giaceva a terra gravemente ferito, ma l’elicottero aveva crivellato di colpi lui e finito il superstite. Solo i due piccoli di cinque e dieci anni, che sedevano nella parte posteriore del veicolo, si erano salvati per miracolo, riportando però ferite molto gravi. A quanto pare, tutto lo spettacolo doveva aver provocato soddisfazione tra l’equipaggio, viste le conversazioni catturate dal video. “All right” diceva uno di loro ridendo, “li ho colpiti.” E ancora: “Guarda quei bastardi morti”. Quando le truppe americane arrivarono sul luogo della strage con un mezzo blindato Bradley, l’equipaggio dell'Apache sembrava divertirsi ancora: “Credo che siano appena passati sopra a uno dei cadaveri” diceva uno osservando il Bradley che avanzava. “Davvero?!” chiedeva un altro. “Si” rispondeva il collega ridendo.
Inizialmente le autorità americane avevano dichiarato che quelli uccisi erano guerriglieri e poi che l’attacco era avvenuto nell'ambito di un'operazione di combattimento con forze ostili. Il video smentiva le affermazioni ufficiali: non era in corso alcun combattimento. L’agenzia di stampa internazionale Reuters, che pure aveva cercato di ricostruire i fatti, era stata portata a credere alla versione ufficiale, tanto che successivamente Dean Yates -che al tempo dell’attacco guidava l'ufficio di corrispondenza della Reuters a Baghdad- denunciò di essere stato ingannato, raccontando al “Guardian” i retroscena con parole molto dure.
Dopo la morte dei suoi due colleghi, Yates aveva incontrato due generali americani che avevano supervisionato l'inchiesta su quella strage. Durante l'incontro gli erano stati mostrati alcuni minuti del video. Yates era arrivato a pensare che l’elicottero avesse aperto il fuoco contro i suoi colleghi perché il fotografo si era aggirato sulla scena dell’attacco in un modo che poteva apparire sospetto e i militari americani avevano scambiato la sua macchina fotografica con teleobiettivo per un lanciagranate. Reuters aveva cercato in ogni modo di ottenere il filmato completo per verificare in modo indipendente i fatti. L'agenzia ne aveva richiesto una copia con il Freedom of Information Act (Foia), ma ogni tentativo era stato inutile: neppure un'organizzazione giornalistica potente e con grandi risorse come Reuters era riuscita a ottenerlo. Solo dopo la pubblicazione di Collateral Murder da parte di WikiLeaks, Yates capì com'erano andati davvero i fatti. “Ci hanno fottuto” disse anni dopo al “Guardian”, riferendosi alle autorità militari americane, “ci hanno fottuto e basta. Ci hanno mentito. Erano tutte bugie.” Negli anni successivi alla morte dei colleghi, Yates precipitò in una grave crisi: la sindrome da stress postraumatico che lo portò quasi al suicidio.
Due settimane dopo che WikiLeaks aveva rivelato Collateral Murder, Ethan McCord, uno dei soldati americani che erano accorsi sul luogo della carneficina pochi minuti dopo la strage, descriveva cosi il trauma subito alla rivista americana “Wired”: “Fu uno shock, quando arrivammo a vedere quello che era successo, il massacro e tutto il resto”. Alla giornalista che gli obiettava: “Eppure lei aveva partecipato ad azioni di combattimento prima di allora. Non doveva essere una sorpresa”, McCord rispose: “Prima di allora non avevo mai visto nessuno ucciso da muni zioni di 30 millimetri. Non sembrava vero, non sembravano neanche esseri umani”.
McCord raccontò di aver visto delle armi sulla scena del massacro: alcune delle persone uccise ne avevano alcune con sé, secondo lui. Il video, comunque, non mostrava alcuna azione minacciosa da parte degli iracheni presi di mira dall'elicottero, né alcuna operazione di combattimento. Se i primi spari dell'Apache potevano essere stati causati dalla presenza di quelle armi -una dinamica tuttavia da accertare-, la pioggia di munizioni contro il furgone, che aveva fatto a pezzi civili completamente disarmati, che stavano cercando di soccorrere l’assistente del fotografo della Reuters, appariva difficile da giustificare.
Successivamente McCord avrebbe ricostruito in dettaglio quella giornata. Arrivato sul luogo della strage, era corso verso il furgone richiamato dal pianto dei bambini, mentre un commilitone non aveva retto alla scena: aveva iniziato a vomitare ed era scappato. Le ferite terribili dei due piccoli, il loro padre dilaniato, il sangue ovunque, i vetri nel corpo della bambina, la sua corsa con i due piccoli in braccio per cercare di salvarli, mentre un superiore gli urlava di lasciar perdere quei “cazzo di bambini”. “Questo succede ogni giorno in Iraq” raccontava McCord, “deve finire, dobbiamo riportare a casa i soldati subito” aggiungeva, spiegando che nel 2007 le regole di ingaggio, ovvero le disposizioni del Pentagono che prescrivevano ai militari come regolarsi sul teatro di guerra iracheno e in quali situazioni era legittimo sparare, “erano una barzelletta.” Secondo quelle regole, le truppe statunitensi potevano ammazzare chiunque percepissero come una minaccia e, poiché “molti soldati si sentivano minacciati semplicemente dal fatto che qualcuno rivolgesse loro lo sguardo” spiegava McCord, “sparavano a chiunque li guardasse”.
Una cosa è uccidere civili nel corso di un combattimento, senza avere intenzione di farlo, un'altra è prenderli di mira in modo deliberato. Nel primo caso, si parla di danno collaterale, nel secondo, invece, di crimine di guerra. Il video documentava come l’elicottero Apache avesse sterminato civili, in particolare quelli nel furgone, che non avevano minacciato le forze americane. Collateral Murder poteva aprire le porte a un’indagine sui crimini di guerra dei soldati statunitensi.
Per permettere all'opinione pubblica di verificare se l'attacco avesse rispettato le regole di ingaggio (Rules of Engagement o RoE), WikiLeaks aveva pubblicato non solo il video, ma anche quattro file segreti sulle RoE per gli anni 2006 e 2007. Questi quattro rapporti sono tra i documenti per cui oggi Julian Assange rischia di finire in una prigione americana di massima sicurezza per tutta la vita.
Solo dopo la pubblicazione di Collateral Murder e di questi documenti, Dean Yates aveva capito come le dichiarazioni ufficiali e i pochi minuti del video, che i militari americani gli avevano mostrato durante il loro incontro, lo avevano portato a trarre conclusioni completamente sbagliate. “Ero arrivato a dare la colpa a Namir (il suo collega fotografo ucciso), pensando che l'elicottero avesse aperto il fuoco perché aveva tenuto un comportamento che lo faceva apparire sospetto, e avevo completamente rimosso dalla mia testa l'informazione che l'ordine di sparare era stato già dato» avrebbe raccontato successivamente al “Guardian”, aggiungendo: “La persona che aveva notato questo fatto era Assange. Il giorno che pubblicò il video disse che l’elicottero aveva fatto fuoco perché aveva chiesto il permesso di sparare e gli era stato accordato. Aggiunse qualcosa del tipo: “Se l’ordine era basato sulle regole di ingaggio, allora quelle regole sono sbagliate”.
Senza il coraggio della fonte che aveva passato il filmato segreto a WikiLeaks, e senza quello dell'organizzazione di Julian Assange che l'aveva pubblicato, quelle immagini probabilmente non sarebbero mai emerse, nonostante i tentativi della Reuters di scoprire la verità. E WikiLeaks non si era limitata a ricevere i materiali e a diffonderli acriticamente su internet.
Prima di pubblicarli aveva fatto le verifiche giornalistiche necessarie e aveva lavorato anche per far emergere la storia delle vittime, collaborando con il giornalista investigativo islandese Kristinn Hrafnsson, che allora lavorava per la televisione di stato di Reykjavik, Ruv, e oggi guida l’organizzazione. Hrafnsson volò a Baghdad per rintracciare i due bambini iracheni e la loro madre.
Dopo aver rivelato Collateral Murder, WikiLeaks passò dall'essere un'organizzazione nota a un pubblico di nicchia a un vero e proprio caso internazionale. Ma subito dopo accadde qualcosa dall’esito tragico. La strategia pianificata dal controspionaggio americano iniziava a prendere forma.

 

 

Video collateral murder.
Versione integrale (cliccare su locandina).

 

 

 

Versione ridotta con sottotitoli in italiano.

 

 

 

 

 

Afghan War Logs.

(…)
I 76.910 documenti segreti descrivevano la guerra come mai prima era stato possibile. Si trattava di brevi relazioni compilate dai soldati statunitensi che combattevano sul campo. Contenevano informazioni fattuali, incluse latitudine e longitudine dei luoghi in cui erano avvenuti scontri, incidenti e stragi di civili, il tutto descritto con data e ora esatta e in un gergo militare stretto.
I file registravano in tempo reale gli eventi significativi (SigActs, “significant activities”) dal gennaio del 2004 al dicembre del 2009, ovvero negli anni che andavano dal secondo mandato presidenziale di George W. Bush fino al primo anno dell'amministrazione di Barack Obama. Ogni unità e avamposto presente sul teatro di guerra doveva relazionare in modo estremamente sintetico su: attacchi subiti, scontri, morti, feriti, rapiti, prigionieri, fuoco amico, messaggi di allerta e informazioni sugli “improvised explosive devices” (Ied), gli ordigni improvvisati piazzati lungo le strade e azionati a distanza che facevano strage di civili e soldati.
Ognuno dei report era come un'istantanea che fissava in un preciso momento e in un determinato luogo geografico il conflitto in Afghanistan. Mettendo insieme tutte le istantanee, soldati e intelligence potevano avere una visione completa della guerra, così come si sviluppava sul campo azione dopo azione, in modo da poter fare piani operativi e analisi di intelligence. I rapporti erano compilati dai soldati dell’esercito americano, lo Us Army, quindi erano il loro racconto del conflitto. Non contenevano informazioni di eventi top secret, perché si trattava di documenti classificati al livello “secret”.
I documenti lasciavano emergere per la prima volta centinaia di vittime civili mai computate: il quotidiano inglese “The Guardian” aveva contato almeno 195 morti e 174 feriti, ma aveva fatto notare che il dato era sicuramente sottostimato. I file aprivano anche uno squarcio sulla guerra segreta che si combatteva con unità speciali mai conosciute prima di allora, come la Task Force 373, e con i droni, gli aerei senza pilota che, comandati dai soldati americani che si trovavano in una base del Nevada, uccidevano in posti remoti come l’Afghanistan.
La Task Force 373 era un'unità d’élite che prendeva ordini direttamente dal Pentagono e aveva come missione quella di catturare o uccidere combattenti di alto livello di al Qaeda e dei talebani. La decisione di chi catturare e chi ammazzare in modo stragiudiziale, ovvero senza alcun processo giudiziario, appariva completamente affidata alla task force.
Il valore degli Afghan War Logs rivelati da WikiLeaks stava proprio nel far emergere i fatti che la macchina della propaganda del Pentagono nascondeva e le oscure operazioni della Task Force 373 erano uno degli esempi. La brutalità con cui queste forze speciali agivano nella notte aveva portato a sterminare forze afghane alleate, donne e bambini. Questo tipo di attacchi contribuivano a creare un forte risentimento nelle popolazioni locali contro le truppe americane e della coalizione.
Ma nelle dichiarazioni ufficiali dei militari il nome della Task Force 373 non compariva mai e, come il “Guardian” aveva ricostruito, venivano nascoste informazioni per coprire errori e stragi di innocenti. Durante una delle loro operazioni, per esempio, i soldati della Task Force 373 avevano ucciso sette bambini. La notizia della loro morte era stata data in un comunicato stampa della coalizione, ma senza spiegare il contesto in cui era avvenuta. Nessuno aveva raccontato che quelle forze speciali, spesso, non avevano letteralmente idea di chi ammazzavano, come in questo caso: avevano sparato cinque missili contro una scuola religiosa, una madrasa, convinti di colpire un leader di al Qaeda, Abu Laith al-Libi. In un altro, invece, avevano sterminato sette poliziotti afghani e ne avevano feriti quattro, convinti di colpire gli uomini di un comandante talebano.
I file, però, non rivelavano solo i massacri commessi dalle truppe americane, ma anche dai talebani, in modo particolare quelli causati dai loro atroci attacchi con gli Ied. Secondo i dati riportati dal “Guardian”, dal 2004 al 2009 il database degli Afghan War Logs permetteva di ricostruire come gli Ied avessero causato oltre duemila vittime civili e come il 2009 fosse stato un anno particolarmente terribile, con cento attacchi in appena tre giorni. Il quotidiano londinese evidenziava come gli Ied fossero l’arma preferita dai talebani, quella con cui cercavano di contrastare la schiacciante superiorità tecnologica delle truppe occidentali.
L’intensificarsi degli attacchi contro truppe americane e della coalizione internazionale era registrato nei file a partire dalla fine del 2005. Scavando nella documentazione, il settimanale tedesco “Der Spiegel” aveva ricostruito che questa escalation era anche dovuta al fatto che i talebani e i signori della guerra, come il famigerato Gulbuddin Hekmatyar, minacciavano o anche pagavano cifre importanti, che potevano arrivare a diecimila dollari,12 affinché la guerriglia locale portasse avanti azioni contro i soldati.
I file rivelavano anche un’altra informazione mai emersa prima pubblicamente: dalle ricerche del “New York Times” nel database risultava che i talebani avevano ottenuto missili terra-aria trasportabili e a ricerca di calore del tutto simili agli Stinger che, venticinque anni prima, la Cia aveva fornito ai mujaheddin. Si trattava di un contrappasso: la stessa tipologia di armi con cui i guerriglieri afghani avevano inflitto perdite devastanti ai sovietici, costringendoli alla ritirata, era finita nelle mani dei nemici degli americani in Afghanistan.
Quanto ai droni, presentati spesso come un'arma infallibile a rischio zero -visto che, come in un videogame, venivano pilotati da soldati che operavano in completa sicurezza da una base negli Stati Uniti-, non sempre erano così infallibili. I file, infatti, documentavano situazioni, ricostruite dal settimanale “Der Spiegel”, in cui le truppe avevano dovuto fare rischiose operazioni di recupero, perché quei velivoli senza pilota si erano schiantati al suolo e le informazioni segrete contenute nei loro computer potevano finire in mano al nemico. Non sempre, infatti, era possibile cancellare da remoto i dati presenti nei sistemi informatici dei droni14 e, quando l’operazione falliva, i soldati sul campo in Afghanistan dovevano imbarcarsi in pericolose missioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

Iraq War Logs.

(…)
L’invasione dell'Iraq ebbe inizio il 20 marzo 2003, prese il nome di Operation Iraqi Freedom, e per una superpotenza come gli Stati Uniti rovesciare il regime di Saddam Hussein fu un gioco: il 1° maggio 2003 George W. Bush annunciò che la missione era compiuta e circa sette mesi dopo Hussein fu catturato. Il dittatore sarebbe poi stato impiccato in modo barbaro il 30 dicembre 2006, accusato di crimini contro l’umanità, tra cui l'aver usato armi chimiche contro la popolazione curda della città di Halabja, nel Nord dell'Iraq, nel 1988, sterminando circa cinquemila persone.
Deposto Saddam Hussein, il paese non segui affatto la traiettoria che la propaganda aveva propinato, ovvero che gli iracheni sarebbero stati grati agli americani di averli liberati dal dittatore e avrebbero iniziato a vivere sereni in un paese finalmente democratico. L’Iraq sprofondò infatti nella violenza più cieca, da cui non si è più ripreso. La popolazione, in stragrande maggioranza di religione islamica, ma divisa in sciiti e sunniti, si abbandonò a violenze settarie.
I sunniti erano in minoranza, ma fino ad allora avevano dominato la nazione sotto la guida brutale di Saddam Hussein. Caduto il dittatore, fu il caos: sunniti contro sciiti, truppe americane e contractor contro la popolazione irachena, milizie locali contro l'invasore americano, al Qaeda contro tutti.
Gli Iraq War Logs dettagliano giorno per giorno questo inferno. Come scrisse subito il settimanale “Der Spiegel” nel commentare i file: “Ad aver compilato questi documenti che descrivono quanto disastrosa sia stata Operation Iraqi Freedom non sono stati né gli oppositori dell’America, né i suoi alleati scettici, né i media di opposizione: sono stati proprio gli stessi che hanno deposto Saddam”.
Molti dei report permettono di ricostruire ora dopo ora, nell'arco di una stessa giornata, i blindati americani che saltano sugli led, bambini e donne decapitate, gli stranieri rapiti, contractor che sparano senza avere idea di chi ammazzano, truppe statunitensi che sterminano uomini, donne, bambini ai checkpoint. Una barbarie a ciclo continuo. Leggere gli Iraq War Logs richiede di sostenere l’impatto di queste atrocità descritte senza sosta.
(…)
È proprio la guerra in Iraq che ha prodotto le atrocità contro i detenuti diventate il simbolo della disumanità della War on Terror: Abu Ghraib, la famigerata prigione che sotto Saddam Hussein serviva a rinchiudere e torturare gli oppositori del regime, divenne subito l'epicentro delle atrocità. I torturatori di Saddam erano stati rimpiazzati da quelli americani e iracheni. Quando WikiLeaks pubblicò gli Iraq War Logs, nell'ottobre del 2010, lo scandalo di Abu Ghraib era stato ormai rivelato dal grande reporter investigativo Seymour Hersh da ben sei anni, ma i file fornivano documentazione fattuale sull’arcipelago delle torture e su come fossero state tollerare e ignorate dagli Stati Uniti.
L’invasione, che l’amministrazione Bush aveva venduto all'opinione pubblica come capace di liberare il popolo iracheno da un brutale dittatore e di creare una società democratica che potesse fare da esempio in Medio Oriente, era fotografata nei report degli stessi militari statunitensi come un assoluto fallimento. Come fece subito notare il settimanale tedesco “Der Spiegel”: “Nei quasi 400.000 documenti la parola “democrazia” compare solo otto volte, mentre gli Improvised explosive devices(Ied), che hanno instillato paura nei soldati americani, sono menzionati 146.895 volte”.
E’ solo grazie agli Afghan War Logs che una rispettata organizzazione di ricercatori, l’Iraq Body Count, 12 ha potuto scoprire 15.000 vittime civili della guerra in Iraq mai emerse prima. Dieci anni dopo la loro pubblicazione, rimangono l’unica fonte per ricostruire queste morti in modo rigoroso.
L’Iraq Body Count ha verificato che dal marzo del 2003 all'ottobre del 2020 il numero di civili innocenti uccisi in Iraq oscilla tra 185.395 e 208.419: queste cifre rappresentano solo ed esclusivamente le vittime delle violenze dirette e non includono i deceduti per le conseguenze indirette, come il collasso degli ospedali e della sanità a causa del conflitto. Quando anche questi ultimi vengano inclusi, si arriva a 600.000 vittime, ma avere dati affidabili è impossibile: si tratta di stime, mentre il numero delle vittime civili registrate dall'Iraq Body Count è un dato reale. La guerra ha costretto 9,2 milioni di iracheni -ovvero il 37 per cento della popolazione prima dell’invasione americana- a fuggire dalle loro case e cercare rifugio all'estero o a essere sfollati in altre zone del loro paese.

 

 

 

 

 

 

 

 

Cablegate.

I 251.287 cablo di WikiLeaks non erano documenti top secret, come i Pentagon Papers: arrivavano fino al livello di classificazione “secret/noforn”, ovvero erano segreti e non potevano essere rilasciati in copia a cittadini di nazionalità non americana. Si trattava delle corrispondenze che 260 ambasciate e consolati americani, presenti in ben 180 nazioni, avevano inviato al Dipartimento di Stato a Washington, l’organo del governo degli Stati
Uniti responsabile per la politica estera e le relazioni internazionali. In quei documenti ambasciatori e consoli, assegnati a ciascuno dei 180 stati, relazionavano sui fatti più rilevanti che accadevano in quel paese: politica interna ed estera, questioni militari, criminalità organizzata, trattati sul commercio internazionale. I file andavano dalla fine del 2001 al febbraio del 2010.
(...)
I cablo non raccontavano la verità assoluta, raccontavano il mondo con gli occhi della diplomazia americana. E lo facevano con grande schiettezza. Nel segreto delle loro corrispondenze, i diplomatici non erano affatto diplomatici, erano diretti e in molti casi machiavellici, perché scrivevano con la certezza che le loro analisi e i loro giudizi non sarebbero mai diventati pubblici se non dopo molti decenni, quando ormai non avrebbero imbarazzato più nessuno, perché avevano perso qualsiasi attualità.
(...)
Altrettanto pesanti erano le rivelazioni sul complesso militare-industriale degli Stati Uniti, una macchina da guerra che spesso riusciva a ottenere da paesi alleati come l'Italia tutto quello che chiedeva, non solo per il servilismo della politica italiana, ma anche perché l’opinione pubblica non aveva l'informazione necessaria per riflettere sul ruolo del nostro paese nelle Forever Wars degli americani. Il dibattito, infatti, era (ed è) inesistente, anche quando esplodeva il dissenso -come nel caso dei gruppi pacifisti italiani, che nei primi mesi del 2003 si erano opposti all’invasione dell’Iraq-, veniva neutralizzato con tecniche inquietanti.
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L'Italia rivelata dai cablo era una democrazia dal guinzaglio molto corto, dove i politici subivano grandi pressioni: dalla guerra in Afghanistan al nostro cibo, che ci rende famosi nel mondo, gli Stati Uniti intervenivano massicciamente sulle faccende italiane. A far emergere le pressioni stavolta non erano libri o articoli antiamericani e neanche il j’accuse ideologico di intellettuali o attivisti: erano i diplomatici statunitensi stessi. Le avevano raccontate, nero su bianco, nelle loro corrispondenze ufficiali con il Dipartimento di Stato. I 4189 cablo sull'Italia e sul Vaticano ne fornivano la prova.
Alcuni dei documenti più espliciti riguardavano la guerra in Iraq: in uno datato 12 maggio 2005, neppure due settimane dopo che il presidente George W. Bush aveva annunciato la vittoria, l’ambasciatore americano a Roma, Mel Sembler, faceva un’analisi del contributo che l’Italia, allora guidata dal presidente Carlo Azeglio Ciampi e dal primo ministro Silvio Berlusconi, aveva dato all’invasione dell’Iraq. Quella guerra aveva generato una fortissima opposizione in tutto il mondo, in particolare in Europa, dove l’America di Bush si ritrovava isolata e criticata. Ma l’Italia di Berlusconi aveva rotto l’isolamento e aveva garantito il suo appoggio, nonostante l’opinione pubblica fosse visceralmente contraria e nonostante la nostra Costituzione, che all'articolo 11 recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
“Il governo italiano ha fatto la scelta strategica di mantenere la sua politica allineata con gli Stati Uniti e vi ha tenuto fede, nonostante l’intensa pressione politica interna affinché desistesse” scriveva l’ambasciatore americano Sembler, che nel cablo spiegava: “Quando il presidente Ciampi sembrava sul punto di sollevare dei dubbi sulla (legittimità) costituzionale di un dispiegamento della 173ma Brigata Aviotrasportata dell’esercito degli Stati Uniti, direttamente dal suolo italiano, il governo ha elaborato delle tattiche con noi per affrontare le sue preoccupazioni. Il supporto logistico alle forze armate americane è stato eccezionale. Abbiamo ottenuto tutto quello che abbiamo chiesto”.
Sembler continuava raccontando come avessero potuto usare l’Italia per far arrivare in Iraq le forniture belliche di cui avevano bisogno: “Aeroporti italiani, porti e infrastrutture dei trasporti sono stati messi a nostra disposizione”.
Una delle questioni cruciali su cui il governo Berlusconi aveva dato un contributo importante, secondo la diplomazia americana, era stata quella cli evitare che il presidente Ciampi denunciasse la collaborazione dell'Italia come una violazione della Costituzione. Scriveva Mel Sembler: “Il governo italiano ha lavorato in contatto con noi su delle tattiche che assicurassero che Ciampi non sollevasse la questione costituzionale”.
L’ambasciatore andava avanti raccontando che lo schieramento della 173ma Brigata era stato “il più grande spostamento di truppe da combattimento per via aerea dalla Seconda guerra mondiale”. Dopo aver esposto in dettaglio la collaborazione ricevuta, affermava: “Il governo Berlusconi ha portato un paese completamente contrario alla guerra il più vicino possibile, politicamente, allo stato di belligeranza”. E l’esecutivo di Silvio Berlusconi aveva reso tutto più facile: “Se al potere ci fosse stata un’altra coalizione -in particolare una guidata dal centrosinistra- il percorso sarebbe stato più accidentato” sottolineava.
Poi traeva le sue conclusioni: “Pur riconoscendo che l’Italia può apparire un posto arcano e bizantino fino alla frustrazione, siamo convinti che è un posto eccellente per fare i nostri affari politici e militari”.

 

 

 

 

 

 

 

 

Come nel Cile di Pinochet.

Non solo: i file rivelavano i retroscena di come il complesso militare e d’intelligence degli Stati Uniti riuscisse a operare nel nostro paese nell’impunità, anche quando si macchiava di crimini gravissimi, come il rapimento di un essere umano, Abu Omar, per le vie di Milano, in pieno giorno.
Sparì nel nulla. Il 17 febbraio 2003 Hassan Mustafa Osama Nast, detto Abu Omar, egiziano, arrivato in Italia come rifugiato, fu rapito nel capoluogo lombardo intorno a mezzogiorno. Era l’imam della moschea di via Quaranta ed era sotto indagine, perché sospettato di terrorismo internazionale. La Digos e la Procura di Milano stavano ricostruendo, tessera dopo tessera, il mosaico dei suoi contatti.
Ma quel giorno di febbraio investigatori e magistrati si ritrovarono con l’indagato sparito. Secondo una testimone che aveva assistito alla scena, era stato fatto salire su un furgone bianco, in via Guerzoni. L’inchiesta dei magistrati milanesi Ferdinando Pomarici e Armando Spataro fu notevolmente assistita dai metadati telefonici: i dati di chi aveva chiamato chi, tra le 11 e le 13 del 17 febbraio 2003, nei dintorni di via Guerzoni. L’analisi dei metadati aveva portato gli uomini dell’antiterrorismo della Digos di Milano a individuare un gruppo di telefoni sospetti. Immediatamente dopo il rapimento, alcune di queste utenze telefoniche risultavano aver percorso il tratto autostradale che portava ad Aviano -una delle due basi militari in cui gli Stati Uniti stoccano armi nucleari in Italia- e aver chiamato, tra gli altri, il colonnello Joseph Romano, capo della sicurezza della base. Incrociando questi dati con le schede alloggi degli alberghi in cui alcuni utilizzatori dei telefoni risultavano aver pernottato, le movimentazioni delle carte di credito, le prenotazioni degli hotel e dei biglietti aerei -che in alcune occasioni erano state fatte lasciando come numeri di telefono proprio quelli presenti in via Guerzoni-, gli uomini dell'antiterrorismo e i due magistrati, Pomarici e Spataro, risalirono alle identità degli esecutori del sequestro. Si trattava di una delle famigerate “extraordinary rendition”, le operazioni segrete con cui la Cia rapiva persone sospettate di terrorismo e le trasferiva nelle sue prigioni clandestine in giro per il mondo, per torturarle e cercare di farle parlare.
Abu Omar era stato prima portato alla base di Aviano e successivamente in Egitto, dove era stato torturato brutalmente con varie tecniche, tra cui scosse elettriche, elettroshock con elettrodi bagnati posizionati su testa, torace e genitali, e violenze sessuali.
L’indagine dei procuratori Spataro e Pomarici portò all’incriminazione di ventisei cittadini americani, quasi tutti agenti Cia, e di alcuni uomini del servizio segreto militare italiano, il Sismi, tra cui i vertici: il generale Nicolò Pollari, capo del servizio, e Marco Mancini, direttore del controspionaggio.
La nostra giustizia fu efficiente, tanto che, tra il 2012 e il 2014, i ventisei americani furono condannati in via definitiva a pene tra i sei e nove anni: l’Italia era un esempio nel mondo, l’unica nazione ad aver fatto giustizia. Mentre la Germania non aveva mai ottenuto una sentenza definitiva per gli agenti della Cia responsabili della “extraordinary rendition” di un cittadino tedesco innocente: Khaled el-Masri, rapito nel 2005 mentre viaggiava su un autobus alla frontiera della Macedonia, brutalmente picchiato, sodomizzato e trasferito in Afghanistan.
Eppure tutti e ventisei i condannati sono sempre rimasti liberi come l’aria: tra il 2006 e il 2012 ben sei ministri della Giustizia di governi di centrodestra e centrosinistra -Roberto Castelli, Clemente Mastella, Luigi Scotti, Angelino Alfano, Nitto Palma e Paola Severino- rifiutarono di estendere le ricerche a livello internazionale al fine di arrestarli ed estradarli in Italia. E due presidenti della Repubblica concessero la grazia a quattro di loro: nel 2015 Giorgio Napolitano la concesse al colonnello Joseph Romano, successivamente Sergio Mattarella graziò Robert Seldon Lady, Bernie Medero e Sabrina De Sousa. Nel febbraio del 2016 la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per aver violato gli articoli 3, 5, 8 e 13 della Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo. Quegli articoli stabiliscono il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, il diritto alla libertà e alla sicurezza, al rispetto della vita privata e famigliare e infine il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva. L’Italia, unica nazione i cui magistrati e giudici avevano ottenuto una condanna definitiva per i responsabili di una “extraordinary rendition” della Cia, ora si ritrovava condannata dalla Corte europea per come le sue istituzioni -inclusi due presidenti della Repubblica e la Corte costituzionale- avevano gestito il caso Abu Omar. “Alla fine” scriveva la corte “era stata garantita l’impunità”. Sia agli agenti della Cia, sia ai vertici del Sismi. Sebbene il generale Pollari e il direttore del controspionaggio Mancini fossero stati condannati, il segreto di Stato li protesse e le condanne furono annullare. La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, tuttavia, conteneva parole di grande apprezzamento per il lavoro dei magistrati italiani e faceva notare che, contrariamente a casi come quello di Khaled el-Masri, “le autorità inquirenti italiane hanno condotto un’inchiesta approfondita che ha permesso loro di ricostruire i fatti. La corte rende omaggio al lavoro dei magistrati nazionali, che hanno fatto tutto il possibile per tentare di stabilire la verità”.
Tutti questi fatti relativi al caso Abu Omar erano noti pubblicamente, perché l’inchiesta era stata seguita dalla stampa e dai media di tutto il mondo che, grazie alle indagini di Spataro e Pomarici, potevano finalmente avere informazioni fattuali sulle “extraordinary renditions” della Cia. Ma è solo grazie ai cablo che riuscii a ottenere le prove delle pressioni degli Stati Uniti sulla politica italiana affinché non si arrivasse all'estradizione dei ventisei americani condannati.
I documenti permettevano di capire come la diplomazia americana fosse consapevole di non avere alcuna chance di influenzare l'inchiesta dei procuratori Spataro e Pomarici, perché, in generale, considerava i magistrati italiani “drasticamente indipendenti”. E allora, non potendo fare pressioni dirette sui procuratori, i diplomatici le fecero sui politici, sia di destra che di sinistra. In uno dei file del 24 maggio 2006, l’allora ambasciatore americano a Roma inviato dall’amministrazione Bush, Ronald Spogli, descriveva così il suo incontro con Enrico Letta, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo di centrosinistra di Romano Prodi: “Nel contesto del mantenimento delle nostre eccellenti relazioni bilaterali, l’ambasciatore spiegò a Letta che nulla danneggerebbe in modo più rapido e grave le relazioni (Italia-Usa) della scelta del governo italiano di inviare i mandati di arresto dei presunti agenti Cia associati al caso Abu Omar. Questo era qualcosa di assolutamente fondamentale”.
Enrico Letta ebbe qualcosa da obiettare nei riguardi di pressioni così esplicite? Stando al cablo, no. “Letta” recita il documento “prese nota e suggerì di discutere personalmente la questione con il ministro della Giustizia Mastella”.
Pochi mesi dopo, nell’agosto del 2006, l’ambasciatore Spogli tornava a scrivere a Washington: “Il ministro Mastella ha finora tenuto a bada le ricorrenti richieste giudiziarie di estradare i presunti agenti Cia che sarebbero coinvolti nella rendition di Abu Omar. Prodi ha rifiutato di rilasciare qualsiasi dettaglio sulla potenziale conoscenza o sul coinvolgimento degli italiani nel caso”.
L’anno dopo fu la volta di Massimo D’Alema, allora ministro degli Esteri nel governo di Romano Prodi. L’ambasciatore americano riportava in questo modo il suo incontro nell’aprile del 2007: “D'Alema ha chiuso il meeting di un’ora facendo notare di aver chiesto al segretario (di Stato) se il Dipartimento (di Stato) potesse inviargli una nota scritta in cui si spiegava che gli Stati Uniti non avrebbero dato seguito alle richieste di estradizione del caso Abu Omar, nel caso in cui queste fossero state inviate. Una simile nota -aveva spiegato- avrebbe potuto essere usata preventivamente dal governo italiano per respingere l’azione dei magistrati, che cercavano l’estradizione dei cittadini americani implicati”.
Passò un anno, all’esecutivo di Romano Prodi succedette quello di Silvio Berlusconi, ma il risultato non cambiava. “Berlusconi ha continuato a stare con noi facendo il meglio che può nel processo ai ventisei americani” scriveva nell’ottobre del 2008 l’ambasciatore americano Ronald Spogli.
Nel database dei cablo le pressioni degli Stati Uniti erano documentate fino al febbraio del 2010, visto che purtroppo i file non andavano oltre. Ma erano presenti fino all'ultimo, tanto chein piena amministrazione Obama, nel febbraio del 2010, i diplomatici americani continuavano a premere sia su Berlusconi che sul ministro della Difesa Ignazio La Russa: “In relazione al caso Abu Omar” scrivevano, “il segretario alla Difesa (Robert Gates) ha richiesto il supporto del governo italiano affinché riconosca la giurisdizione americana sul colonnello Joseph Romano sulla base degli accordi Nato Sofa. Berlusconi ha espresso il suo ottimismo che la questione si risolverà in modo favorevole durante il processo di appello”. In un cablo successivo Gates ribadiva lo stesso identico concetto con La Russa.
Mentre scrivo, sono trascorsi quasi ventanni dalla “extraordinary rendition” di Abu Omar. Ventisei americani fecero sparire -con la complicità dei servizi segreti italiani- un essere umano in pieno giorno, perché fosse torturato in modo brutale per mesi. Proprio come nel Cile di Pinochet. Ma accadde nel cuore dell’Europa, nella più avanzata città italiana. Nell'impunità. E non solo violando i più basilari diritti umani, ma, secondo il magistrato Armando Spataro, anche danneggiando le indagini su Abu Omar, che la Procura di Milano e la Digos stavano conducendo e che avrebbero permesso di individuare e arrestare i complici.
La Central Intelligence Agency avrebbe potuto scegliere la via del rispetto dei diritti umani e della tecnologia, che funzionano, come dimostra il fatto che, seguendo quella via, i nostri magistrati e le nostre forze di polizia arrivarono a inchiodare gli stessi agenti della Cia che, quanto a addestramento e risorse economiche e tecnologiche, ne hanno in misura ben più notevole dei terroristi. Invece la Cia scelse la via della criminalità e della brutalità medievale. E le istituzioni italiane le garantirono l’impunità.