Luj 2022. Lightning Ridge.
Dedico “el mes“ a Lightning Ridge. Ho incontrato questo villaggio australiano nella lettura di “A caccia di dinosauri” di Federico Fanti ( https://www.unibo.it/sitoweb/federico.fanti) e ne sono rimasto sorprendentemente colpito. Non immaginavo un luogo simile nel XXI secolo, abitato da “cercatori d’opale”, personaggi reali che sembrano emersi da un romanzo d’avventura ottocentesco. Ma la peculiarità di Lightning Ridge è anche dovuta –ed è per questo se ne occupa il libro- alla presenza negli strati geologici di fossili di ogni tipo, e soprattutto dei “dinosauri d’opale”. Riporto il capitolo del testo.
Dimenticavo: il primo mestiere che volevo fare da piccolo era il paleontologo. Mi ero fatto comprare martelletto e scalpellino “professionali”, e in quel di Costa Imagna cercavo pietre con piccoli fossili (conchiglie). Son finito a fare il ragioniere… che tristezza. Potessi ricominciare tutto daccapo.
Le foto non sono estratte o riferite a quanto descritto nel testo, ma reperite on line.
In Australia esiste un luogo che si chiama Lightning Ridge (il “crinale dei fulmini”), che si trova nel sud-est del Paese. È una zona in cui, nelle profondità della terra, si nascondono reperti di dinosauri che nel tempo si sono “trasformati” in altro: fossili che, sepolti in strati rocciosi di quarzo e silice, con lo scorrere dei millenni sono stati attraversati da acqua fino a diventare completamente fatti di opale. L’opale. Una pietra preziosissima. Questi fossili alla vista sono stupefacenti: colpiti dalla luce brillano di mille sfumature verdi, azzurre, rosse e viola. Sono cangianti, madreperlacei.
Da piccolo, con il raccoglitore appoggiato sulle ginocchia, mi immaginavo di scavare attorno a casa e, fortuitamente, rinvenire un ossicino di quel tipo. Avrei spostato il terriccio sassoso con le mani con una certa foga ed eccolo là: un osso opalescente, così brillante da offuscarmi la vista, che mi avrebbe reso o un paleontologo famoso in tutto il mondo o un uomo ricchissimo. Già allora, però, sapevo che questo ritrovamento sarebbe stato impossibile: non solo perché a Bologna di opale sepolta non ce n'è, ma anche perché questi fossili fatti di pietra preziosa si trovano solo in una remota zona dell’Australia che, come leggevo in quei vecchi articoli, era il terreno di caccia di una grande paleontologa, la dottoressa Elizabeth Smith. Quei tesori naturali si trovano solo a Lightning Ridge. Per anni l’idea di avere a che fare con questi dinosauri luccicanti, nonostante tutto, non mi ha mai lasciato. Ha fatto parte di una sorta di mia mitologia privata, come un picco da raggiungere e un sogno da realizzare per poter dire a quel me bambino: “Ce l'abbiamo fatta a vedere dal vivo quella meraviglia!”.
Sotto sotto sapevo già, quando ero piccolo, che l'avventura si presenta puntuale alla porta di chi non abbandona la speranza. E a un certo punto il destino mi ha spalancato una porta che io, zaino in spalla e occhi accecati dall’entusiasmo, ho attraversato di corsa.
In questa avventura mi coinvolge Phil Bell, che negli anni è diventato uno dei miei migliori amici oltre che un collega. Originario di un paese poco lontano da Sydney, è un preparatissimo studioso di dinosauri e, come molti altri di questo strano ambiente, è un po’ fuori di testa. Tutto ciò che lo riguarda ha qualcosa di avventuroso e immediatamente ti porta a immaginare mirabolanti avventure australiane: non solo è devoto a ricerche scientifiche d’avanguardia, ma a guardarlo sembra una sorta di Mr.Crocodile Dundee: spesso vestito con camicie senza maniche sbottonate, la pelle abbronzata e lucida di fatica, collane e bracciali intrecciati con perline e denti di animali.
Quando nel 2015 ci rimettiamo in contatto siamo entrambi “diventati grandi”. Tutti e due abbiamo ampiamente superato la fase del “volontario sul terreno”, lavoriamo come ricercatori universitari e cominciamo a prendere un po’, più saldamente in mano le redini del nostro mestiere. Quasi senza rendercene conto, poi, siamo diventati entrambi papà per la prima volta. Dopo anni trascorsi nel (per lui gelido) Canada a studiare e ottenere un dottorato di ricerca, Phil è finalmente tornato nel suo mondo, realizzando un grande sogno: fare il paleontologo a casa propria, nella sua amata Australia. Anche in questo siamo simili: pure io sto cercando in ogni modo di fare il cacciatore di dinosauri non solo in giro per il globo ma anche nella mia Italia.
Nonostante ormai siamo tutti e due adulti, appena Phil mi dice che tipo di progetto ha in mente mi rendo subito conto che i due ragazzi che si sono conosciuti nelle badlands canadesi non sono cambiati di una virgola: mi vuole coinvolgere in una ricerca (del quale lui è il referente scientifico) volta a indagare alcuni tra i dinosauri più incredibili del mondo, i rarissimi “dinosauri d’opale”. Me lo dice con il suo solito accento impenetrabile, tanto che in un primo momento penso di non aver capito. Gli chiedo conferma e lui, con pazienza, si mette a ripetere tutto daccapo. Questa volta sono sicuro: ha detto proprio “dinosauri d'opale”. I miei occhi a quelle parole si illuminano, e la mente corre al secondo faldone del primo ripiano custodito nell'armadio del mio ufficio: il faldone che ho tenuto nella cameretta per anni e che contiene gli articoli di giornale sulle scoperte della dottoressa Smith. Si cancellano di colpo vent'anni di vita e torno a tremare come un ragazzino. Sussurro tra me e me, ancora incredulo: “Hai sentito? Ci siamo quasi”.
Phil lavora all'Università del New England ad Armidale, nel New South Wales, a circa cinque ore da Sydney. É lì che, nel giugno del 2015, lo raggiungo dopo un viaggio della speranza di due lunghissimi giorni e vari fusi orari, con il progetto di spostarci poi verso quella sorta di luogo mitologico che è Lightning Ridge.
Ad Armidale, Phil mi accoglie con il suo solito abbigliamento assurdo e, ovviamente, scalzo. Questa tenuta lo rende paradossalmente autorevole, soprattutto quando mi presenta al gruppo di persone che stanno lavorando insieme a lui alla ricerca dei dinosauri d’opale. Loro sono in abiti più formali, da ufficio, e Phil contrasta in un modo che lo fa sembrare il più saggio e pieno di esperienza. Stringo la mano a ognuno, anch’io stretto nei miei noiosi abiti “civili”. Ancora non posso saperlo, ma con loro condividerò settimane di tende, esplorazioni, cucina da campo e avventure di ogni genere. Diventeremo tutti più rilassati, meno civilizzati. Più vicini a Phil e alla sua stranezza. I vestiti stirati saranno un’utopia.
Mentre giriamo per il campus tra eucalipti e koala, Phil mi parla del progetto che ha in mente: abbiamo un giorno ancora per mettere insieme i dettagli della spedizione e poi partiremo verso Lightning Ridge. Ci aspetta un viaggio in auto di sei ore attraverso le foreste tropicali e l'outback australiano. Chi fa il mio mestiere deve abituarsi molto in fretta a lunghissime trasferte come questa, che sono tutto tranne che una perdita di tempo perché si riallacciano rapporti e se ne stringono di nuovi, condividendo ricordi e progetti passati e idee per il futuro. Nulla di meglio, soprattutto se lo si fa, come me, attraversando l'Australia a caccia di fossili fatti di opale.
Arriviamo poco prima di cena e ci fermiamo al pittoresco (a dir poco) Crocodile Caravan Park dove ci accoglie all’ingresso un gigantesco coccodrillo in vetroresina. Oltre all’animale kitsch che lo contraddistingue, il posto è dotato di una cucina da campo e di container di metallo nei quali sono posizionati alcuni letti a castello. Questa sarà la nostra base. Casa dolce casa.
Inutile dire che trenta secondi esatti dopo aver preso le chiavi e aver lasciato qualche borsa, saliamo di nuovo in macchina diretti verso una nuova destinazione: Lunatic Hill, ovvero la “collina dei malati di mente”, il punto zero della caccia ai dinosauri di opale. Qui ci aspetta una signora dai lunghi capelli grigi alla quale stringo subito la mano. Ho ancora la mano stretta nella sua quando Phil mi dice che lei, proprio lei, è Elizabeth Smith. Quella dottoressa Elizabeth Smith di cui leggevo le gesta da ragazzino. Davanti a me c’è una signora elegante, pacata, dagli occhi sfavillanti e arguti. Una studiosa dalla portata enorme che ripone in me e in Phil una grande fiducia: la speranza di riuscire a fare finalmente il punto attorno al fenomeno dei dinosauri d’opale.
Elizabeth, alcuni anni fa, ha fondato proprio qui un centro di ricerca dedicato interamente allo studio dei fossili d’opale che sta avendo grande successo, l’Australian Opal Centre. Il centro è nato anche grazie all’intervento di un’altra donna straordinariamente tenace di nome Jenni Brammall, da me per questo prontamente soprannominata Generale Brammall. In un capannone che contiene tonnellate di rocce provenienti dalle miniere circostanti, Jenni ed Elizabeth mi spiegano che istituire un centro del genere, del tutto dedicato al tema dei fossili di opale, è stato necessario non solo per via dell’incredibile particolarità di quei reperti, ma soprattutto perché esistono alcune domande scientifiche a cui è difficile dare risposta e che richiedono lo studio di più professionisti, con punti di vista e approcci complementari.
Le domande che più fanno scintillare di curiosità le due studiose si possono riassumere così: come mai in tanti anni di ricerca sono stati rinvenuti resti fossili di animali diversissimi tra di loro, come piante, dinosauri, squali, gamberi, rettili marini, mammiferi? Perché animali che vivono in ambienti completamente diversi riemergono tutti insieme qui a Lightning Ridge? Qual era il paesaggio a Lightning Ridge milioni di anni fa? E, visto che si tratta di creature che sono vissute in un periodo di tempo molto lungo, che età hanno di preciso questi fossili?
Ora quello con gli occhi che scintillano sono io: rispondere a queste domande è esattamente ciò in cui sono bravo.
Lightning Ridge sulla carta può sembrare una cittadina come molte ma, nella realtà, si tratta di una landa desolata e inospitale che nasconde un segreto. Abitata quasi soltanto da uomini che hanno deciso di votare la propria vita a scavare il terreno, Lightning Ridge assomiglia molto a un set cinematografico improvvisato, dove la natura ha creato nel sottosuolo qualcosa di molto raro: immensi filoni di opale.
L'opale non è altro che una variante molto rara della silice, il minerale più abbondante del nostro pianeta, e ne esistono moltissime tipologie, quasi tutte di poco valore. I minatori di Lightning Ridge le chiamano “potch”, non pregiate. Se ne trovano a tonnellate qui attorno. Ciò che cercano questi uomini che giocano d'azzardo con il destino, però, è un altro tipo di pietra nascosta: l’opale nera. Una gemma iridescente di una bellezza impossibile da descrivere e dal valore esorbitante. Il ritrovamento anche di un solo minuscolo pezzo di opale puro di questo tipo, infatti, può renderti enormemente ricco, e questa zona, sotterraneamente, ne custodisce a tonnellate.
Lightning Ridge è, quindi, un’immensa piana attraversata da buchi nella terra larghi poco più di un metro, che scendono nel sottosuolo e si snodano fra i trenta e i settanta metri di profondità in una miriade di tunnel realizzati in modo “artigianale”. Non a caso a Lightning Ridge abitano soltanto figure umane che passano metà della propria esistenza sottoterra, tra cunicoli stretti e umidi, come se fossero i nani di Moria del “Signore degli anelli”.
Questo è il mio primo, grande problema: non ci sono scavi professionali o affioramenti rocciosi a vista. Le risposte che cerco si trovano tutte "sottoterra, in luoghi che mai sono stati confrontati tra loro. In quei tunnel. Là esiste una sorta di gigantesco puzzle tridimensionale in cui le rocce e i fossili abbondano.
Prima di partire per questa missione, in molti mi avevano guardato carichi di invidia per il mio imminente viaggio in Australia: dicevano che mi aspettavano sole, mare, spiagge, paesaggi bellissimi. A ripensarci adesso mi viene da ridere, perché non ci fu mai previsione più sbagliata di quella. Il mio destino mi aveva riservato due settimane intere da passare sottoterra, di cunicolo in cunicolo: eccola, l'Australia di un cacciatore di dinosauri.
Chi abita qui cerca l'opale nera e, per farlo senza problemi, ha acquistato intere porzioni di terreno approfittando della golosissima legislazione australiana che garantisce che tutto ciò che si trova in una proprietà privata è, di diritto, del proprietario della terra, in modo inalienabile. Questo significa ricchezza certa, per coloro che hanno abbastanza costanza e fortuna. Significa però anche che, se si rinvengono importanti reperti fossili, nessuno ha il diritto di reclamarli. Nemmeno la scienza. Ed ecco il secondo, enorme problema che grava su Phil ed Elizabeth: trovare qualcosa di scientificamente rilevante qui non vuol dire affatto poterlo studiare.
Da qualche parte dobbiamo cominciare: il primo obiettivo è chiedere a persone mai viste prima il permesso di scendere nel loro sottosuolo, attraverso i cunicoli che hanno scavato nel terreno, per studiare la geologia sotterranea del posto e comprendere la natura e la provenienza storica dei mitici fossili d'opale. Ciò significa andare dagli abitanti di Lightning Ridge e domandare: “Fareste entrare me e il mio collega, dei totali sconosciuti, nella cassaforte naturale che vi siete costruiti con anni di sacrifici e isolamento?”.
Portare avanti una ricerca del genere è un processo che necessita di molta diplomazia e molte dita incrociate: è assolutamente plausibile ricevere un bel “Go away, mate” -vattene, amico- lapidario nei casi migliori o, nei peggiori, una minaccia bisbigliata con un fucile stretto in braccio.
“Lightning Ridge: black opal country”. Così recita il cartello che ci accoglie in questa zona di mondo dove si raggiungono tranquillamente i cinquanta gradi di temperatura (per questo abbiamo scelto di venire qui a giugno, nell’inverno australiano), dove le persone vivono sottoterra alla ricerca di pietre preziose, dove la segnaletica stradale è costellata da frasi rassicuranti come “Attenzione! Pozzi profondi! o “Attenzione ai vostri bambini. Un territorio quasi distopico, post-apocalittico, in cui la natura sembra fare di tutto per risultare inospitale per gli esseri umani. La terra aspra, di un colore bruciato, tappezzata di una vegetazione rada e secca, sotto un cielo perennemente azzurro pallido e accecante.
Viste le premesse, mi aspetto il peggio. Eppure l'umanità che incontriamo mi sorprende profondamente: uomini australiani, bizzarri nel look e un po' rudi nel comportamento, che però si contraddistinguono per l’ospitalità. Ci aprono le porte dei pozzi senza fare alcuna resistenza, accettando la nostra presenza nelle loro fortezze sotterranee. Sicuramente riconoscono nei nostri volti solo una grande passione e non la furbizia di chi vuole approfittare dei tesori nascosti in quel sottosuolo. Sono convinto, inoltre, che provino dentro di loro un enorme orgoglio nel mostrare il risultato di decenni di fatiche indicibili alla caccia di gemme, mostrando il loro mondo a qualcuno che possa apprezzarlo davvero.
Grazie a questa grande ospitalità che, in qualche modo, ci fa sentire onorati, io e Phil possiamo cominciare a mettere “le mani in pasta”. Iniziamo a creare un piano d’azione. Il nostro tentativo è quello di stilare una vera e propria “mappa del sottosuolo”: vogliamo tracciare un percorso che, attraversando un pozzo dopo l'altro, ci permetta di analizzare al nostro passaggio le stratificazioni delle pareti rocciose che costituiscono le gallerie delle miniere. Solo osservando le rocce, di cosa sono fatte e il modo in cui sono posizionate le une rispetto alle altre, sarà possibile comprendere cosa fosse Lightning Ridge ai tempi dei dinosauri e, soprattutto, perché qui si trovano resti animali di ogni tipo.
Ma, nonostante i nostri progetti luminosi, la pratica non è mai liscia come la teoria, specialmente in questo mestiere.
L’idea di dover discendere a ripetizione, per giorni, all’interno di una cinquantina di pozzi la cui apertura è costituita da un foro nel terreno piuttosto stretto è già una mansione impegnativa di per sé. Non ne siamo entusiasti, per quanto l'obiettivo di ricerca ci faccia sorvolare sul pensiero della fatica. Il tutto però presto si tramuta in qualcosa di decisamente più difficile e, per usare un eufemismo, terrificante quando vediamo davvero la tipologia di luoghi in cui dovremo lavorare: non sono solo aperture strette, ma miniere instabili, senza vie di uscita, costruite sostanzialmente con mezzi di fortuna. Quasi tutti i pozzi, infatti, portano a sentieri sotterranei asfissianti che sono stati scavati nella roccia viva. I corridoi a volte sono così stretti che è necessario attraversarli strisciando sulla pancia. Mentre mi muovo nella prima miniera che visito, guidato da uno dei rudi proprietari, osservo allarmato il “soffitto” dei cunicoli: è retto soltanto da alcuni pali di legno, malamente conficcati nel terreno. L'uomo incrocia il mio sguardo terrorizzato e anticipa la mia domanda: i pali di legno servono a reggere il peso di almeno trenta metri di roccia che ci sovrasta. Non dico nulla, non ci riesco: noto infatti che molte di queste strutture stanno visibilmente cedendo al peso della superficie: i pali sono piegati, in parte spezzati. Poche ore prima avevo notato dei fogli appesi tra gli arbusti trenta metri sopra di me. Una foto, un nome, e la scritta “Missing since december”: scomparso da dicembre. Posso solo fare due più due e chiedermi: “Da dicembre di quale anno?” e “Sarà scomparso in uno di questi tunnel?”. La paura di lasciarci la pelle è alta, e non passerà nemmeno nelle “immersioni” successive. Nei giorni a seguire, ogni volta che riemergerò, mi sentirò un miracolato e mi chiederò come sia possibile che ci siano persone che lo fanno ogni giorno da decine e decine di anni.
Fortunatamente, però, ogni volta che mi calo in questo mondo sotterraneo la mia concentrazione è quasi del tutto assorbita dall'assurda magia che mi circonda: ogni tanto incontro filoni di pareti luminose, che mi appaiono in tutta la loro magnificenza. Non appena ci si posa sopra un bagliore di luce, l’opale si accende. Vedendo quelle strisce colorate, che creano intrecci blu, rossi, verdi, mi rendo conto del fascino che tale pietra crea in questa gente. Sono colori così sconcertanti da farmi saltare un battito del cuore e da mettere a dura prova il mio respiro già affannato. Capisco perché molti individui sono disposti a sacrificare la vita per stringerne un frammento in mano. L’opale è un’apparizione. Sa di bellezza, di magnificenza. Ho sempre considerato queste visioni inaspettate come uno dei più grandi regali del mio lavoro: la mia ricerca quasi ossessiva di dinosauri mi porta a vivere in prima persona esperienze riservate a pochissimi. Sono un privilegiato, in questo.
Lo stupore, però, può durare giusto qualche minuto. Io non sono qui per contemplare questa meraviglia, sono qui per altre rocce: più spente, porose, grigie. Torno a fare il mio mestiere: cosa mi dicono le pietre che mi circondano?
Le rocce nascono da una serie di processi, molti dei quali casuali. Quelle sedimentarie -la varietà che contiene i fossili- si formano seguendo una ricetta decisamente semplice i cui ingredienti sono: del materiale piuttosto fine (come sabbia, argilla, fango) e una qualche energia fisica (la piena di un fiume, l’onda del mare che si abbatte sulla spiaggia, il vento). La forza fisica “impasta” la materia a disposizione, dando vita così a un composto che, nel tempo geologico, si trasforma in roccia. Proprio come ricette diverse danno origine a pietanze diverse, la stessa cosa avviene con le pietre. Ed è qui che intervengo io. Come un bravo degustatore farebbe con un piatto stellato, cerco di capire gli ingredienti e la tipologia di impasto che hanno dato forma alla roccia che osservo attorno a me.
In Australia mi muovo nel buio illuminato soltanto dal raggio della lampada da testa seguendo i filoni di roccia intagliata e “parlo” con le pareti, le interrogo con lo sguardo, analizzo ogni loro angolo, ogni cambio cromatico o tattile, appuntando tutto sul mio fido taccuino.
Le mie armi in questa indagine sono davvero umili: corde, metri e una macchina fotografica. Passo lunghe ore nelle profondità di questi pozzi australiani per capire le origini di un mondo tanto lontano da risultarci inconcepibile; un mondo che però è esistito, e si trova sotto di noi. In questo momento lo sto fissando con lo stesso rispetto e stupore che si ha scoprendo un tempio dimenticato, e ne traccio i confini e le caratteristiche così da poterlo raccontare a coloro che, uno spettacolo così, non potrebbero nemmeno immaginarlo.
Lentamente, pozzo dopo pozzo, ricostruisco e riconnetto le osservazioni: in un tunnel ci sono strati che si sono formati in una foresta, in un altro invece letti di antichi fiumi, in un altro ancora le prove di un mare remoto oppure tracce di terreni paludosi. E così, ricostruendo questo puzzle, mi appare un’immagine chiara: milioni di anni fa Lightning Ridge non era assolutamente nell’entroterra come oggi (attualmente dista circa otto ore di macchina dalla costa), ma era una località vicinissima al mare, un insieme di grandi lagune costiere. Un ambiente ricco di creature viventi e di sedimenti che le avrebbero seppellire. Un ambiente di transizione, dove è possibile per questo trovare quella grande varietà di forme di vita -dagli squali ai dinosauri- che per anni ha dato il tormento a Elizabeth. Milioni di anni prima di me, prima di questi cercatori di opale, prima della paura di morire in un cunicolo, c'erano creature che vivevano in un angolo del pianeta variegato e lontanissimo da come ci appare adesso. Io le posso visualizzare, mentre lavoro avvolto in un silenzio irreale, ma il mio compito è trovare una prova tangibile di quella che ora è solo la mia ipotesi più plausibile. Ecco a cosa servono, alla fin fine, questi strani studiosi che si chiamano “paleontologi”: a confermare che, in realtà, quello che a un primo sguardo appare come un magma caotico in realtà non lo è. Sotto il caos, esiste un mondo che oggi sembra inaudito ma che è esistito, proprio qui, e possiamo toccarne le prove, tra l’opale e la pietra umida.
La risposta al primo grande interrogativo che mi aveva posto Elizabeth comincia a prendere forma.
Tra un cunicolo e l’altro, a volte accompagnati dai proprietari delle miniere, io e Phil ci mettiamo alla ricerca di fossili che diano conferma definitiva alla mia tesi. Molto spesso da queste parti i fossili non si rinvengono sottoterra, durante l’immersione, ma tra le migliaia di tonnellate di frammenti rocciosi che sono già state portate a galla durante gli scavi dei minatori. Nei mucchi di roccia esclusa, insomma, perché per loro senza valore. In alcuni casi ci imbattiamo in piccole montagnette di scarto facili da controllare, ma in moltissimi altri si tratta di vere e proprie colline artificiali fatte di sabbia e “potch”. Come cercatori d'oro ci sediamo e vagliamo pietra per pietra, con gli occhi incollati a centinaia di frammenti. I fossili possono essere ovunque, anche nel “potch”. Phil e io non ci perdiamo d’animo e la nostra pazienza viene ripagata quando troviamo un po’ di materiale interessante: Phil rintraccia dei resti di gamberetti, io qualche piccola pigna fossilizzata. Ci si potrebbe chiedere come riusciamo a distinguere una semplice pietra da una pietra fossile, ed è un'ottima domanda, con una risposta forse insolita. Nell'analizzare questo enorme cumulo di rocce, nel poco tempo a nostra disposizione, è la forma a guidare la nostra ricerca: tra le migliaia di pietre scheggiate, alcune si distinguono per via di una sagoma simmetrica. Inconsueta, dunque, per una roccia qualunque. Quelle dalla forma regolare, anche se fatte di minerali come tutte le altre, spesso non sono solo pietre ma una replica perfetta di qualcosa che una volta era vivo, ovvero dei resti fossili. Un profilo a cono può essere un dente, ad esempio, un cilindro una vertebra, una sfera una pigna, e così via.
Tra i mucchi di rocce senza valore si trovano molti resti fossili, certo, ma mentre passano le ore su di noi incombe un grande problema che assume di giorno in giorno un peso sempre maggiore, visto che la stagione degli scavi sta per finire. Lo avevamo previsto. Speravamo non si presentasse, però. Il grande elefante nella stanza della nostra ricerca ha a che fare -come per tutti i grandi problemi- con le persone prima che con la scienza.
Ho visto con i miei occhi che dalle miniere vengono estratti, assieme all’opale, moltissimi resti fossili, divenuti ormai pietra preziosa. A mano a mano che i filoni di opale vengono esposti, le possibilità di trovare nuovi reperti aumenta. Si tratta di elementi formidabilmente importanti per noi paleontologi e sono, di fatto, un bene che appartiene all'umanità. Qui in Australia però, come accennato, questi reperti restano legalmente di proprietà di chi possiede il pozzo nel quale sono stati trovati, e possono valere tanti soldi. Tantissimi. E’ stato più semplice del previsto farsi portare dentro le miniere private, ma sappiamo bene che è da stupidi pensare di convincere quegli stessi minatori a donare alla scienza reperti che permetterebbero loro di ripagare una vita di stenti e di disagi. Un semplice dente di dinosauro, se fatto di opale preziosa, potrebbe portare nelle loro tasche centinaia di migliaia di dollari. Un dilemma morale non indifferente. Quindi che fare? Riesco a leggere la preoccupazione negli sguardi di Phil. Come facciamo?
L’umanità che popola questi luoghi è unica nel suo genere. A mo' di esempio rimane nella mia mente ancora vivissimo il ricordo di un pomeriggio in cui Phil mi dice: “Bene, adesso andiamo a visitare il Castello di Amigo”. Lo guardo come se non avessi capito bene, abituato come sono a fraintendere le parole che pronuncia: “Castello? In che senso? E questa persona si chiama proprio “Amigo”?”. Ma lui si limita a sorridermi, come a dire: “Capirai”. Ci dirigiamo così verso il nord della città e, improvvisamente, in lontananza, tra la terra brulla e l’azzurro luminoso del cielo australiano, in mezzo alla pianura, si staglia una casa. Non sembra un castello, non di quelli classici perlomeno: è una costruzione di un solo piano, di uno strano color marrone. Sulla soglia ci attende un uomo sulla sessantina, abbronzato e sorridente. Lo saluto e lui scoppia immediatamente a ridere: “azz, ma come, sei italiano?” esclama. “Eh sì!” rispondo sorpreso. Scopro dunque che anche Amigo è italiano, che nessuno conosce il suo vero nome, e che decenni fa si è trasferito qui come molti avventurieri alla ricerca dell’oro arcobaleno, l'opale. Dato che con le pietre che riusciva a trovare sottoterra non era stato subito in grado di racimolare abbastanza soldi per acquistare una vera casa, aveva deciso di costruirsela da solo utilizzando i materiali di scarto degli scavi: ed ecco dunque l’origine del Castello di Amigo. Mentre mi spiega tutte queste cose, gli occhi accesi del fuoco dell’orgoglio, ammetto che non riesco comunque a comprendere perché si ostinino a chiamare “castello” questa abitazione. Di regale non ha davvero niente. Tutto, però, mi diventa più chiaro quando ci addentriamo nella casa. All'interno, Amigo ha creato una scala sontuosa che scende di livello, sottoterra: questa scalinata illuminata conduce ad alcune stanze, che altro non sono che cave. Amigo vive sopra la sua fortuna: le sue miniere. Il castello non è ciò che si vede all’esterno, la casa bruna, ma ciò che c'è nelle fondamenta: la sua rete di cunicoli personali nei quali ostinatamente, ogni giorno, da anni, si cala per cercare una nuova briciola di pietra preziosa. È già difficile ammettere che una persona qualsiasi voglia rinunciare a un fossile per il bene collettivo. Facendo la conoscenza di Amigo, mi rendo conto che pensare che riescano a farlo gli abitanti di Lightning Ridge è davvero impossibile. Queste figure hanno investito gran parte della loro esistenza a inseguire un sogno “opalescente”, in una speranza di arricchimento che costa fatica e sacrificio quotidiano. Ci sono migliaia di persone, come Amigo, che a quel lavoro sfiancante ci vivono letteralmente sopra. Se trovassero dell'opale pura la difenderebbero a costo della vita. Figurarsi se, a quell'opale, si aggiungesse che è pure un fossile di dinosauro.
Phil e io incontriamo davvero moltissime persone fuori dal comune nelle due settimane che trascorriamo a Lightning Ridge. Persone diffidenti, cortesi, entusiaste, tenaci, alle quali noi cerchiamo di mostrare che il bello dei loro tesori va ben al di là del mero valore commerciale. Questo è tutto ciò che possiamo fare nella nostra opera: far toccare loro con mano la grandezza della ricerca. Ecco perché, quando riceviamo domande sul nostro lavoro, siamo ben felici di rispondere. Sappiamo bene che la curiosità è il vero motore della scienza, e da queste parti è fondamentale che non si faccia mistero delle grandi scoperte che stiamo facendo anche grazie alla loro disponibilità. Siamo tutti dalla stessa parte, alla fine. A Phil molti chiedono quale aspetto avessero gli strani animali che emergono dalle miniere di Lightning Ridge e lui, con maestria, racconta di squali che cacciavano in acque ricche di prede, piccoli mammiferi simili a roditori che si aggiravano nel fitto della foresta, dinosauri di piccole e grandi dimensioni che si spostavano in grandi branchi inseguiti da predatori armati di denti aguzzi e artigli affilati. Mentre a me pongono quella che solo in superficie è una domanda semplicissima: quando sono vissuti? E’ lo stesso quesito che mi ha posto Elizabeth il primo giorno che ci siamo incontrati a Lunatic Hill.
Molti possono pensare che siano i fossili stessi a dirci la loro età: il tyrannosaurus rex è vissuto sessantasei milioni di anni fa, il primo dinosauro duecentoquaranta milioni di anni fa, il primo squalo quattrocento milioni di anni fa. Ma non è dai resti degli animali che capiamo a quando risalgono: sono le rocce che li contengono il nostro alleato più prezioso. Grazie a loro siamo in grado di sapere quando è davvero vissuto un organismo del passato. In quest’ottica, è facile immaginare che la paleontologia sia una disciplina sempre in dialogo con un’altra materia: la fisica degli elementi.
Possiamo dire che nell’universo che conosciamo esistono due tipi di elementi: quelli stabili, ossia quelli che non cambiano mai il numero dei protoni e neutroni che formano il nucleo delle loro cellule, e quelli instabili, che sono invece elementi che perdono o acquistano protoni o neutroni nel tempo. Un elemento instabile quindi, chiamato ad esempio “A”, si trasformerà nel tempo in un elemento “A1”, poi in “A2”, “A5” e così via, attraverso piccole variazioni. Queste mutazioni dell'elemento non avvengono per caso e sono ben note alla fisica: rispettano delle leggi rigidissime e replicabili. Per questo ci è possibile sapere con precisione in quanto tempo avvengono questi mutamenti di ogni singolo elemento.
La paleontologia ha così uno strumento fondamentale per la datazione: se all’interno di una roccia fossilifera si osservano, ipotizzo, dieci cambiamenti nell’elemento “A” sarà possibile risalire all’età precisa della roccia in esame. Le stringenti leggi della fisica, ad esempio, possono indicare che per ognuno dei singoli cambiamenti dell'elemento “A” ci vogliono dieci milioni di anni, ed è così che si può affermare che la storia dell'elemento “A” è cominciata cento milioni di anni fa, nel momento in cui è diventato parte integrante della roccia. Così nasce la cosiddetta “scala del tempo”, ossia quei numeri che si trovano abbinati a un qualunque organismo fossile. É questa scala straordinaria che ci permette ogni giorno di comprendere quando un dato reperto compie gli anni e che ha permesso di capire, in una prospettiva più ampia, che i dinosauri hanno dominato il pianeta per centottanta milioni di anni, contro i duecentomila (novecento volte più a lungo!) della temutissima specie Homo sapiens.
Qui in Australia, durante una delle tante escursioni sottoterra, a un certo punto mi imbatto in uno strato roccioso molto diverso da tutti gli altri. Fino a questo momento mi sono abituato a vedere soltanto rocce rossicce e giallastre, costituite principalmente di sabbia. Lo strato che noto è invece scuro e molto ben definito: una riga grigia spessa venti centimetri che si distingue chiaramente persino nel buio delle miniere. Chiedo a diversi minatori presenti di cosa si tratti e tutti mi rispondono allo stesso modo, scuotendo la testa un po’ seccati: “Wax layer”, uno strato di cera. Quella striscia grigia non produce nulla di buono, mi dicono. Per loro almeno. Là non si forma opale, ed è un livello roccioso complicato da scavare. Quando piove, quella superficie si trasforma in una sostanza limacciosa, molto simile appunto alla cera calda, e rende pericolosi gli scavi rischiando di indebolire le strutture e creando frane inaspettate. La osservo meglio, sguinzagliando il mio occhio da geologo, e mi rendo conto che si tratta di argilla molto fine. Non è la prima volta che vedo uno strato del genere: è una striscia di finissima cenere vulcanica. Questo materiale deve aver ricoperto completamente, in un'antichissima eruzione, quella che oggi è l'area di Lightning Ridge. Le terre dovevano essere molto “livellate” se questa coltre di argilla le ha ricoperte in modo così omogeneo.
Mentre prelevo un po' di questa cenere da portare in laboratorio per analizzarla, so che la ricerca è di fronte a un vero punto di svolta. Le polveri vulcaniche infatti sono qualcosa che chi fa il mio mestiere cerca sempre con avidità perché costituite da minerali ricchi di elementi instabili, perfetti per datate in modo incontrovertibile un evento geologico. Grazie a questo materiale, la mappa geologica di questa parte dell’Australia può assumere un profilo sempre più chiaro, mostrandomi come era fatta la zona. Soprattutto, però, l’analisi del campione darà risposta al grande quesito che mi è stato posto all'inizio del mio viaggio: quanti anni hanno le creature di Lightning Ridge? Le procedure di laboratorio richiedono un po' di tempo, e il fatidico numero mi verrà svelato dopo qualche mese, quando sono ormai lontano dall'Australia. Non appena leggo quella cifra, corro a chiamare Elizabeth. A malapena la faccio parlare.
“Elizabeth, ci siamo” le dico, così felice che mi sembra di scoppiare. “Ho la risposta alla tua seconda domanda. I dinosauri di Lightning Ridge, le antiche lagune e il resto hanno... centodieci milioni di anni.”
Non dice molto, lei, in risposta. Ma anche a distanza, divisi da fusi orari e chilometri di viaggio, la sento sorridere.
Se provo a escludere gli ottimi risultati scientifici riscontrati nella ricerca geologica, di Lightning Ridge mi rimangono le sensazioni vissute con uomini che vivono esistenze strane, tra miniere self made, commercio di pietre preziose e una straniante abitudine a maneggiare preziosi fossili di dinosauri. Storie che hanno un sapore dolce nella mia memoria, ma che hanno rappresentato allo stesso tempo una sorta di battaglia continua tra la scienza e il profitto. L’apice di questo intreccio di esperienze umane avviene durante uno dei miei ultimi giorni australiani, quando Elizabeth e Phil riescono a contattare una figura piuttosto centrale nell’economia di questo angolo di mondo. Si tratta di un uomo a cui molti della zona si affidano perché faccia da mediatore nel commercio di opale, e sappiamo per certo grazie ad alcune fotografie che proprio lui è in possesso di un reperto per noi molto importante: un fossile di un dinosauro. E non di un dinosauro qualsiasi: appartiene a una specie che nessuno ha mai osservato prima. Un dinosauro tutto nuovo, insomma. Studiarlo non solo farebbe bene ai curricula di tutti i coinvolti, ma rappresenterebbe un passo in avanti per l’intera disciplina. L’unico inconveniente -e principale motivo per cui è ben saldo nelle mani di quest’uomo- è che il fossile in questione, di fatto, è una gemma di preziosa opale. Il nostro piano è parlare faccia a faccia con questo fortunato individuo, nel tentativo di raccontargli per filo e per segno l’importanza della nostra ricerca scientifica. Vorremmo coinvolgerlo, così come abbiamo fatto con i molti minatori della cittadina, nella speranza che comprenda la portata del nostro impegno. Perché faccia il tifo per noi. D'altronde, il nostro è un servizio all’umanità e lui potrebbe farne parte. Ovviamente non ci aspettiamo affatto che voglia contribuire alla ricerca o, ancora più assurdo, donarci la sua preziosissima opale: ci basterebbe poterla osservare con i nostri occhi. Quest’uomo, conosciuto da molti ma incontrato da pochi, è noto con il nome di Big Mike.
Il nostro appuntamento con lui è in pieno pomeriggio, nella stanza di un motel sperduto fuori città. Le premesse non sono ottime. Il luogo è losco. Quando arriviamo -l’atmosfera attorno è tesa come in un film di Tarantino- ci apre la porta un gigantesco soggetto alto più di due metri ed estremamente corpulento. Un armadio in carne e ossa, che con poche parole pronunciate in australiano strettissimo ci saluta e ci fa entrare in una stanzetta quasi del tutto buia, con le tapparelle abbassate che lasciano entrare soltanto un sottile filo di luce. L'unico rumore è quello dei ventilatori che sono tutti puntati verso una scrivania da lavoro alla quale ci fa accomodare. Accende quindi una lampada da tavolo e ce la punta contro come se dovessimo sostenere un vero e proprio interrogatorio.
Per lunghi momenti io e Phil galleggiamo in una sorta di silenzio inquieto, incrociando i nostri sguardi. Abbiamo la classica espressione pentita che sottintende un: “Ma come diavolo ci siamo finiti qui?”. Non facciamo in tempo a cominciare a parlare di noi e delle nostre ricerche che, senza preamboli, Big Mike infila una mano nell’enorme tasca dei pantaloni, tira fuori un sacchetto di velluto nero e si siede con un tonfo sordo. Gira la lampada verso di sé. Svuota il contenuto sull’ampio palmo della sua mano e sette oggetti grandi pochi centimetri si stagliano nel buio nonostante la debole luce. Colpiti dal raggio fioco della lampadina, quegli oggetti brillano tutti come se fossero composti da migliaia di frammenti colorati: le pareti e il tavolo si tingono di piccoli raggi rossi, verdi, turchesi e oro. Uno spettacolo ipnotico e meraviglioso. Non sappiamo cosa dire -non capiamo cosa sarebbe giusto fare- mentre Big Mike ci guarda dritto negli occhi sempre senza dire una parola. I riflessi dell'opale sprigionano una luce che si irradia anche sul suo viso, rendendo la sua pelle ruvida di un colore strano e stupendo. Capisco da un gesto impercettibile di Phil che è il momento: ci siamo preparati i concetti chiave da esporre a Big Mike in macchina, nel tragitto, e ognuno sa la parte che dovrà recitare. Siamo pronti a introdurre il discorso, a far valere le nostre ragioni scientifiche, a mostrare la passione che ci mettiamo...
Big Mike, però, taglia corto. Sa già dove vogliamo andare a parare, e anticipa il colpo: “Queste” dice muovendo lentamente le gemme che tiene nel palmo della mano, “domattina, mi faranno avere in tasca quattro milioni e mezzo di dollari”.
Noi annuiamo gravemente, consapevoli che ogni argomento scientifico, di fronte al peso dei soldi, viene automaticamente abbassato di valore. Lontani dall’arrenderci, però, e ancora sicuri di poterlo rendere partecipe del nostro entusiasmo, chiediamo con tutta la cortesia di cui siamo capaci se ha con sé i fossili che cerchiamo, mostrando le fotografie che ci hanno dato così tante speranze. Big Mike, uomo di poche parole, si alza e ci porge una piccola scatola di cartone, non più grande del mio dito indice. Phil la apre, ed eccolo là: il nostro piccolo, strepitoso, fossile. Si tratta di una mandibola con ancora attaccati tutti i denti, piccoli e dalla forma simile a una foglia. Io e Phil sappiamo che si tratta proprio di quel dinosauro sconosciuto del quale non si era ancora avuta minima traccia. Con un filo di voce chiedo se possiamo fare delle foto, e Big Mike acconsente.
Mentre siamo impegnati a scattare quante più foto possibili di quel fragile tesoro, abbozzando nervosamente qualche frase dal dubbio senso compiuto, Phil attua un vero colpo da maestro: apre il suo zaino e ne estrae gli strumenti per realizzare i calchi: due scatole di plastica, un tubetto di silicone liquido e un indurente chimico. “Possiamo farlo?” chiede a Big Mike con la voce decisa. “Non lo roviniamo, giuro, e quando finiremo sarà come se non avessimo mai toccato niente.” Big Mike in tutta risposta si acciglia e temo, questa volta sì, che scatti in lui una reazione diversa dalla passiva approvazione. Ma dopo un paio di infiniti secondi di silenzio muove finalmente la testa in segno affermativo. Punto per noi.
Certo, fotografie e calchi non bastano a portare avanti uno studio scientifico puntuale. Lo sappiamo bene. I fossili, per essere ufficialmente descritti e depositati in luoghi pubblici e visitabili, devono essere concretamente osservabili. Altri studiosi devono poterli maneggiare e fare le proprie ricerche. Ogni verità della scienza infatti si basa su due principi: la possibilità di replicare un assunto, e l’occasione di sollevare un eventuale contraddittorio. Perché si possa parlare di reale progresso della materia, questi denti dovrebbero poter essere a disposizione di ogni studioso che lo desideri. Tutto questo discorso, comunque, evitiamo di farlo a Big Mike: sappiamo bene che non farebbe mai e poi mai breccia. Mentre Phil termina il suo lavoro lasciando asciugare il silicone, a Big Mike diciamo finalmente di noi, di quello che facciamo in giro per il globo. Ci atteniamo al piano. Non parliamo di fossili, ma di luoghi e persone. E’ un mondo che anche lui conosce bene, quello del viaggio, visto che il suo lavoro lo porta a essere perennemente in movimento. Anche lui incontra mille vite diverse. Ridendo, gli diciamo che non siamo poi così diversi: entrambi i nostri mestieri hanno a che fare più con le storie che con tutto il resto. Poco dopo lo ringraziamo e, pesando ogni singola parola, gli spieghiamo che quel fossile meriterebbe qualcosa di più nobile del commercio. Anche quel fossile, soprattutto lui, ha molto da dire. La sua storia è preziosa.
“E cosa dovrei farci, allora?” chiede roco Big Mike, lo sguardo stranamente interessato.
“Potresti donarlo alla scienza” mugolo io, consapevole di come questa affermazione possa sembrare assurda a quell'omone burbero che, in tasca, ha quattro milioni di dollari di gemme. Cala infatti di nuovo il silenzio.
Dopo un’ora dall’arrivo usciamo dalla camera del motel e ci mettiamo in macchina. Passati pochi minuti siamo costretti ad accostarci in un luogo appartato, dove iniziamo a urlare imprecazioni, ognuno in una lingua tutta sua, per svuotare i nostri corpi dal grumo di tensione che abbiamo accumulato alla presenza di Big Mike. Ci rendiamo conto che abbiamo vissuto una situazione davvero straniante, qualcosa che mai avremmo pensato di dover vivere, dato che il nostro lavoro, in teoria, dovrebbe essere solo quello di studiare i dinosauri. All’università nessuno ti prepara ad affrontare situazioni come questa.