Setember 2022. Göbekli Tepe.

 

 

 

 

“Mestèe” di settembre dedicato a uno dei siti archeologici più famosi, importanti e misteriosi al mondo, se non il più, sinora scoperto. Il testo, affascinante, è di Silvia Ferrara, tratto dal volume “Il salto”, edito nel 2021.

 

 

 

 

 

 

 

 

A Göbekli Tepe è tutto sospeso, anche il tempo per arrivarci, attraverso una strada deserta, stretta, polverosa, che solca una pianura sterminata, piattissima, con collinette artificiali (tell) che spuntano a caso dal piattume come ponfi ancora inesplorati. La strada è segnata ai lati da monoliti color avena moderni, fatti l'altro ieri, che confermano, come pietre miliari o erme anatoliche, che il percorso si sta accorciando. “Ma quando arriviamo?” Io che faccio da inutile co-pilota, con un’inutile mappa che non riesco a leggere, con gli occhi fissi su questo piano riarso e giallo davanti, con la trepidazione nello stomaco e i monoliti artificiali che si ripetono fino alla nausea.
Arriviamo pensando di essere arrivati e ci accoglie invece un altro passaggio obbligato, una costruzione circolare, punto intermedio tra noi e il sito che è ancora lontano, che dista altri cinque chilometri, a cui si può arrivare solo con un passaggio in shuttle di servizio. Dentro alla costruzione un’esperienza immersiva (cinematografica pure questa, ma meno Kubrick, più propaganda) su come questo sito sia unico al mondo, il primo punto nella storia (“zero point in time” ripetuto ovunque, sembra uno slogan politico) e va da tutto molto kitsch.
Visto dallo shuttle di servizio il paesaggio è marcatamente ondulato e mi immagino stagliata nelle pupille la pala dell’archeologo pronto a scavare tutti quei “tell” che chissà che cosa celino, come il dollaro negli occhi pennuti di Zio Paperone. Una serie di collinette artificiali intervallate da qualche ulivo sparuto: una sfilza di possibili Göbekli Tepe.
Siamo gli unici a scendere dal bus, insieme a un imprenditore turco anglofono che si incuriosisce sentendoci parlare in una lingua oscura: What is that language? Italians? In mezzo a questo sito? Ma perché? Le domande arrivano a raffica, sembra averci preso per spie da strapazzo, “che strano, qui gli stranieri non vengono! ”.
Di solito quando ti dicono così è perché i siti non sono granché, almeno per il turista medio. E invece noi al primo impatto rimaniamo di stucco e la prima cosa che ci chiediamo è proprio: come mai qui i turisti non vengono? È come andare ad Atene e trovarsi davanti al Partenone senza nessun visitatore. Succede solo con le pandemie.
La costruzione circolare, quella originale, ci accoglie subito. Guardiamo dentro. Eccoli, i monoliti, quelli veri, color avena come la distesa che ci circonda, come il sole pallido e opaco sopra la nostra testa.

 

 

 

 

Antelucano.
E dire che avremmo potuto non vederli mai, questi monoliti. La scoperta di Göbekli Tepe è quasi casuale. Negli anni Sessanta del secolo scorso una missione archeologica delle Università di Cincinnati e di Istanbul, facendo ricognizione sulla superficie di questo tell, nota che dei monoliti di calcare affiorano dal terreno, pensa sia l’ennesimo cimitero bizantino, gira i tacchi e se ne va. Notare che avevano visto i rilievi sui monoliti, le decorazioni strane, ma avevano pensato fossero lapidi. Lapidi!
L'archeologia non è una scienza esatta e non sempre quel che sembra è. Ogni tanto ci vuole fantasia, bisogna fare un salto di immaginazione. E per afferrare il senso di quel luogo, ci voleva la visione di un archeologo, Klaus Schmidt, dell’lstituto Archeologico di Berlino, che si imbatte nei report sulla ricognizione fatta in superficie e qualcosa non gli torna. Un po' istinto, un po' occhio clinico dello scavatore, per Schmidt sotto a quella collina c'è per forza di più. Si deve scavare. Si deve andare in fondo.
E la storia che troverà Schmidt va talmente in profondità che scompiglia tutti i calendari.
Perché Göbekli Tepe (da qui amichevolmente GT) colpisce per quello che rappresenta sulla linea del tempo. GT, almeno per ora, è il punto zero delle costruzioni monumentali, l’inizio di qualcosa quando meno lo aspetteremmo, l’anello di una catena che riscrive la storia, il momento eureka della progressione umana, l'archetipo e la contraddizione.
Per capire GT dobbiamo fare un salto immenso nel passato, talmente lungo che mancano i punti di riferimento temporale, la mente non si aggiusta a un “avanti Cristo” così lontano. Per capire che cosa voglia dire questo, facciamo un esperimento.
Domanda: qual è la costruzione più antica che vi viene in mente?
Le piramidi d'Egitto?
La città di Uruk?
Stonehenge?
Nemmeno per sogno. Raddoppiate, triplicate le migliaia di anni e poi andate indietro: siamo a diecimila anni fa, precisamente al 9984 (con più o meno quarantadue anni di approssimazione) prima del presente. Possiamo essere sicuri della data, perché è stata calibrata e datata con il radiocarbonio prendendo dei resti di carbone nella malta che era stata usata per uno dei muri del sito. Ma ci sono degli strati anche precedenti, che risalgono a dodicimila anni fa.
Il fatto è che già si pensava potesse essere un sito antichissimo, ma mai e poi mai così antico, e dunque, contro lo scetticismo degli archeologi (creature scettiche per natura), si doveva per forza ricorrere al più spietato dei metodi, il C14, che uccide ogni miraggio di imprecisione, che taglia di netto ogni velleità di vaghezza. Lasciate ogni speranza, voi storici approssimativi: con il C14 non si scherza.
GT è, in poche parole, un sito antelucano. E va contro tutti gli schemini che gli archeologi e gli storici hanno usato come bussole per spiegare i cambiamenti della società. Non ha molto a che vedere con le altre evidenze della società di questo periodo. GT è un sito antelucano, sì, ma è avanzatissimo. Apparentemente prima della ceramica, dell'agricoltura formalizzata e stanziale, apparentemente prima degli animali addomesticati, prima di qualsiasi ordine, c’era GT.
Siamo nel 1995. Klaus Schmidt inizia le perlustrazioni, riprende in mano il sito. Sa già che lì sotto c'è un mondo intonso, immobile e intoccato. Si imbatte subito in una fossa fresca, scavata dai contadini con l'aratro per pulire il campo, e vede lì in mezzo una lastra di calcare con sopra un animale. Schmidt, ci dice, cito “verbatim”, perché forse oltre ad essere uno scienziato, è anche teutonicamente ironico: “Sopra sedeva un animale, ma non era vivo, era una scultura, più precisamente un altorilievo”. Precisino, o forse l’animale era talmente realistico, da sembrare vero. Voilà: questa creatura dà l'inizio all’incredibile storia di GT.

 

 

 

 

Draghi e altri animali.
Stiamo parlando di draghi veri. Sulla lastra erano scolpite le fattezze di una belva rettile non meglio identificata, con le fauci spalancate e i denti digrignati, in un altorilievo a tutto tondo, quasi una scultura, quasi in 3D, pronta a spiccare un salto dal calcare del pilastro. Forse era un coccodrillo? Difficile, visto che in queste zone di coccodrilli non se n'è mai vista traccia. Forse una creatura inventata, un drago? Ma dove siamo finiti? Che posto è questo, con i draghi quasi vivi che ti saltano addosso?
Nell'esplorare questo sito ripercorro la storia di Schmidt, che vede tutto questo per la prima volta dopo millenni di silenzio e una coperta di terra, che scopre a poco a poco di essere incappato nel sito che gli cambierà la vita e che cambierà tutti gli schemi dell'archeologia, la storia dei simboli, la nostra storia di esseri umani evoluti. Sembra di essere entrati in una soap opera archeologica, con colpi di scena continui.
In poco tempo, i sondaggi rilevano un numero incredibile di pietroni scolpiti a forma di T maiuscola, pilastri alti, giganteschi, pesanti. Schmidt si rende conto che qui la situazione è fuori schema. Ci siamo. Via tutti, è arrivato il tempo di scavare, via gli aratri, via il contadino che sta distruggendo tutto con le mazze, ignorante perché ignora, non sa, non può nemmeno concepire. Schmidt gli paga un generoso affitto annuo come risarcimento, per farlo stare buono, per lasciarlo scavare in pace.
E quel che trova non ha confine. Altro che Stonehenge.
I pilastri sono racchiusi in strutture circolari o “temene”, otto sono state scavate e sono bene in vista, ma le ricognizioni geofisiche ci dicono che ce ne sono circa una ventina in tutto. Sono grandi, alcune molto grandi, che misurano fino a trenta metri di diametro. Dentro ognuna sono eretti fino a otto pilastri, quelli centrali più alti e imponenti degli altri (Figura 39).

 

 

 

 

I muri circolari che li racchiudono sono grezzi e spessi, ma sembrano accessori, perché tutto converge verso i monoliti: è come se il razionale dell'architettura, il senso del sito, la sua ragione d'essere fossero concentrati lì, in queste stele alte fino a sei metri, che forse non hanno nessuna funzione architettonica, forse non sono colonne portanti. Se così fosse, non dovremmo nemmeno chiamarli pilastri perché il pilastro, per definizione, tiene su qualcosa. Questi invece sembrano solo stare, essere.
Pilastri, stele, monoliti, la definizione non ha importanza. Ne vediamo tantissimi contenuti nei quattro grandi circoli scavati, ma non basta: per cogliere la conformazione del sito dobbiamo immaginarne dieci volte di più, anche nelle zone inesplorate.
L’immagine che si dovrebbe stampare negli occhi è di un mare di monoliti in pochi chilometri quadrati, circa duecento pilastri in tutto. Impressionante.
Sulla loro superficie sono scavati a rilievo animali di ogni tipo, uno simile a un leone, con le sue costole bene in evidenza e l’aria smunta, dettagli anatomici incredibili, un altro con una serie di serpenti che strisciano così realisticamente da sembrare vivi (non a caso Schmidt ci tiene a specificare che no, sono solo scolpiti) e poi disegni incisi in bassorilievo, un toro, una volpe, una gru (o secondo Schmidt, forse non è una gru, ma un uomo travestito?). E poi, nel circolo B, due pilastri con due volpette furbette che si guardano e sembrano assalire il visitatore con un salto. E nel circolo C, un predatore a tutto tondo, evidentissimo e prominente, pronto ad assaltare un cinghiale sommesso e arrendevole (Figura 40).

 

 

 

 

E' di nuovo un cinghiale (il circolo C è infatti detto anche “casa dei verri”), e un altro riverso sulla schiena e zampe all'aria, tre cani, forse un leopardo, una schiera di anatre catturate in una rete, e un leone con le fauci spalancate.
La lista è lunga e ve la presento alla rinfusa, perché, più che Disney, qui sono tutti un po' aggressivi, non c’è granché di rassicurante, a dir la verità. Come dice Klaus Schmidt con il suo rigore aristotelico, “possono essere inquadrati senza indugi nella categoria "manifestazioni pericolose”. Molte belve sembrano in movimento, pronte all’assalto e al balzo ferino per staccare la testa al primo malcapitato. Sono maschili, testosteroniche, alcune falliche. Di femmine, fertilità e cose tranquille, nemmeno un'eco lontana. Ci dovrà pur essere una spiegazione.
Intanto, mentre mi pongo queste domande esistenziali e un po’"gender", in questo posto stranissimo e antelucano, sotto il sole che batte opaco e maligno sul costato sporgente di tutte queste belve, un brivido mi corre lungo la schiena. Mi sento davvero una spia, sacrilega, surrettizia, sotto sfida. Se lo scopo è creare un deterrente, GT ha colto nel segno. Lasciate ogni speranza voi che osate venir qui, turisti italici impiccioni.

 

 

 

 

Mr.T.
Infatti. Non possiamo avvicinarci troppo, ma si può immaginare che cosa si potesse provare dodicimila anni fa a camminare lì, in mezzo a questi esseri con i denti di fuori e gli occhi accesi. Magari la sera, con la luna come guida, gli animalacci che ci guardano dall’alto, i nostri occhi puntati in su, a cercar di non farci azzannare.
Forse si ammirava anche il cielo stellato, e infatti c'è chi ha proposto interpretazioni astronomiche e anche astrologiche, con tanto di lettura di costellazioni e decifrazione del cosmo. Si va a parare nella cantonata però (anche perché forse GT aveva un tetto sopra la testa). Tutta colpa del pilastro 43, conosciuto ormai come il pilastro dell'avvoltoio, decorato con una sequenza fitta di immagini: avvoltoi appunto, quadrupedi, serpenti, uno scorpione enorme, e un uomo senza testa (Figura 41).

 

 

 

 


Qui alcuni studiosi si sono fatti un vero e proprio trip. E’ vero che questo pilastro è particolare, sembra quasi narrare una favola arcigna che finisce male, ma l’interpretazione è notevole: queste icone sarebbero la commemorazione di un evento devastante, il crash di una cometa con conseguente disastro climatico, perché sarebbero associabili a costellazioni e simboli astronomici presenti nel cielo dell'anno 10.950 avanti Cristo. Fate voi.
Andiamo al sodo, perché c'è molto di più, il sito è pieno di simboli molto più interessanti. In primis, perché i monoliti sembrano umani, cioè potrebbero rappresentare esseri di sesso solo maschile (ovviamente). Se viste di profilo, alcune silhouette mostrano proprio gli arti e le braccia lungo il lato largo, e le manine -si fa per dire- conserte (con tutte e cinque le dita!) che convergono sul lato corto, così, in posa di tre quarti, di taglio. All'altezza giusta, una cintura e un perizoma, incredibilmente realistici. Sembra un modello haute couture. Non è un caso che sia stato eretto in posizione prominente in mezzo al circolo D. Sotto il monolito, un podio di roccia intarsiato con un simpatico coretto di papere ripetute (forse l'unica scena bucolica). E poi simboli astratti, non vi dico che spettacolo per me che penso sempre all'incipit della scrittura.
Comunque, questi sono proprio uomini fatti e finiti, “antropo” e anche “morfici”. Direte che potrebbero essere divinità, e forse non sbagliate nemmeno un po', ma Schmidt non è così sicuro. Non possiamo escludere che siano semplicemente umani. I due più grandi e gemelli sono al centro di ognuno dei quattro circoli. La sezione a croce della parte superiore della T indica sicuramente la testa di questo Mr. T, si fa un pò) fatica a capirlo, ma non c'è altra spiegazione: il minimalismo è intenzionale, anche perché la maestria espressa nei bassorilievi è prova da sola di quanto fossero abili gli scultori göbeklitepesi. È un’essenzialità voluta.
Come se la bestia feroce alla fine fosse un dettaglio importante, sì, ma subordinato, un attributo cadetto, un supplemento strumentale a questi super-uomini che, invece, fieri, nobili, imponenti, tengono su tutto, forse anche un tetto che non c'è più (Figura 42).

 

 

 

 

Dio però sta nei dettagli, e la presenza di tutti questi bassorilievi feroci, ci mette ansia e anche una certa confusione, perché se è vero che la funzione è protettiva, non è chiaro che cosa dovesse essere protetto a GT. Forse tutte queste bestie minacciose servono a tenere a bada gli influssi maligni, il malocchio, con tutti quei denti che intonano all’unisono “non entrate qui”, come amuleti scaramantici. Sono cose apotropaiche, insomma. E su questi Mr. T sovrastanti sembra davvero aleggiare il senso della nostra finalità, della morte.
Certo è che tutti questi dettagli, senza una legenda, danno alla testa. Le icone su alcuni Mr. T sembrano avere quasi un senso logico, una narrazione di eventi o situazioni, quasi ci narrassero delle storie. C'è una logica, e seppur insondabile e tutto neolitico (non saprei come altro descriverlo), c’è. In più, i segni schematici, uno a forma di H, che si ripete qui e lì, quasi fosse una iterazione araldica, forse un emblema, una specie di logo göbeklitepico. E poi mezzelune, dischetti, e altre cose non identificabili.
Non è un caso che in qualche articolo scientifico (e di tutto rispetto) vengano presi per segni veri e propri di scrittura. Qui di sicuro c'è un principio di ordine di icone e simboli, un sistema di comunicazione convenzionale, un codice stabilito e per loro comprensibile. Qui si parlava di iene, e di cinghiali, di serpenti, ragni, volpi, leoni e draghi. E di uomini, e forse di dei. Potete chiamarli anche miti, se volete.
Qualunque cosa fossero, sono storie da leggere. Che gran trabocchetto, l’ennesimo. Perché anche a me vien voglia di decifrare, ma è un'insidia, tesa quasi per scherzo. Ci casco sempre. Animali digrignanti che si divertono pure a prendermi in giro.

 

 

 

 

Robespierre.
Eppure, GT è un posto molto serio, decisamente solenne, non solo perché è enorme, ma anche perché richiede uno studio sistematico e non proclami urlati. Tra queste strutture circolari si veniva con un proposito generale, un po’ come si va in chiesa per la messa o allo stadio per il calcio: un centro di convergenza funzionale. Ma non necessariamente Si deve parlare di religione.
Due punti sono fondamentali. Il primo è che non è facile dire quale fosse la funzione precisa di questi edifici. Il secondo è che gli scavi più recenti ammorbidiscono l'idea che questa monumentalità fosse isolata. L`archeologo Lee Clare, che sta continuando il lavoro di Klaus Schmidt, ha portato alla luce strutture residenziali tutt’intorno e non ci stupirebbe che ci fosse un abbozzo urbano in mezzo ai circoli. La domanda è ovvia: fino a che punto le strutture monumentali precedono le fasi in cui la società si inurba? Siamo ancora al periodo in cui il nomadismo era la norma, con individui mobili, che si spostano alla ricerca di cibo e di rifugio? Siamo alla fase “prima” di tutto quello che chiamiamo stanzialità?
Queste sono domande per il futuro. Per il momento possiamo dire che questo sito era dove ci si raccoglieva anche in preghiera (o in contemplazione o in memoria dei morti), ma forse c’era molto di più. In ogni caso, se così fosse, questi sarebbero dunque i primi templi mai trovati al mondo. Il punto zero della comunità che inizia a fermarsi. E forse il punto zero di una lingua visibile che si fa simbolo e codice, forse una proto-scrittura già impacchettata. Questo ultimo punto è ardito, ma a me solo l'idea fa impazzire.
Che cosa ci fanno quei simboli astratti in mezzo al mare di animali in bassorilievo, oltre diecimila anni fa?
Insomma, siamo di fronte all'inizio di tutto. Prima anche delle strutture giganti di Malta, di cui leggerete tra poco, che fino agli anni Novanta del secolo scorso avevano tenuto orgogliosamente il primato di “primi templi”, anche se non è del tutto chiaro se si possa azzardare a definirli tali. Almeno per ora, GT batte tutti. Perché prima del suo scavo, i santuari e il culto istituzionalizzato erano visti dagli archeologi come un effetto, una conseguenza, un vero e proprio risultato della comunità stanziale: in breve, prima ci si ferma e poi si costruisce il luogo dove si prega, pensando agli antenati o immaginandosi gli dei. Poi invece arriva GT e siamo costretti ad invertire gli addendi con un dubbio che sorge imperioso: non è che l’idea di riunirsi per celebrare (o per riunirsi e basta) è in realtà la causa del fermarsi? Non è che raccogliersi suggerisce, invita, incentiva a fermarsi?
Gli scavi ci diranno se questo è vero. I dubbi ci sono, ma per ora GT sovverte e scompiglia il rapporto causa-effetto, e si presenta come un anello inimmaginabile, in una catena che ci sembrava sistemata. Pensatelo come a un punto fermo intorno a cui si muovono le persone, una forza centripeta e permanente che attira a sé un gruppo (o una serie di gruppi) con gli stessi valori, gli stessi modi di comunicare, gli stessi simboli in cui credere. Qui si inizia lentamente a fermarsi, si cominciano ad addomesticare gli animali e alcune piante, ci si raccoglie in piccoli villaggi, e tutto senza usare metalli, senza lavorare la ceramica, solo per riunirsi.
GT è un sito immobile in un mondo che forse, in gran parte, è ancora intento a spostarsi. Uno spartiacque ribelle, pionieristico, avant-garde. Un Robespierre dell'archeologia neolitica. Almeno per ora.