Desember 2022. "Ohèi giovinòtti, fii ben attenzion".

 

 

 

 

“El mestée del mes” lo dedico alla canzone popolare milanese della tradizione, ovvero la cosiddetta "bosinada" o "bosinata". La maggior parte delle canzoni è riferita al periodo dal Risorgimento alla Prima guerra mondiale con qualche eccezione.
Naturalmente non è stato possibile trovarne per alcune di loro l’audio/video sul web, data la estrema peculiarità.

Per reperire canzoni, aneddoti, testi e foto, mi sono avvalso del web, libri e richiesto contributi ad amici e parenti milanesi per genesi e di adozione. Ringrazio Manuela, nonni paterni di Vicolo Calusca, per avermi fatto “scoprire” l’origine caravaggesca erotico-passionale di “Crapa pelada”.
Un “mestèe” di nicchia dedicato a chi sa ancora apprezzare la “milanesità” di scorci di vita, di emozioni, di luoghi riconducibili ad essa. Fondamentale, purtroppo, per l’audizione delle canzoni è la comprensione del dialetto, dato che ne limita sostanzialmente la piena fruizione dei testi.
Ringrazio i miei genitori che, parlando in dialetto tra loro, con sorella, nonni e zie, nonché facendomi frequentare sin da infante la gloriosa bocciofila e sala da ballo “Stella Alpina” (dove il dialetto regnava sovrano e mi chiamavano “el Ruschetin”) mi hanno inconsapevolmente consentito di imparare a parlare e capire il milanese. E di questo ne sono sempre stato felice.
Il problema è trovare ancora qualcuno che lo parli, e quando lo si trova è un vero piacere. L’ultimo che ho trovato è un cardiologo del Monzino che, avendo saputo il mio cognome, durante la visita intervallava l’italiano con incisi in dialetto. Ma l’ho sgamato, perché sentendolo gli ho detto: “Ma chel lì le no milanes”, obbligandolo a confessare le origini, seppur di confine, pavesi.
Tra una canzone e l’altra, interpretate dai "bosin" Nanni Svampa (per un p.s. a lui titolato clicca Nanni) e I Gufi (indimenticabili: Nanni Svampa, Gianni Magni, Lino Patruno, Roberto Brivio), qualche foto d’epoca e narrazioni aventi oggetto l'asse Porta Vercellina, il borgo Sala e il borgo La Maddalena con un ricordo dei vecchi mestieri milanesi.

Per concludere ti farò fare un salto all'Ortica, all'osteria Gatto Nero, per l'audizione di due canzoni non reperibili on line, previa breve introduzione all'osteria e alle canzoni stesse.

Infine, per chi volesse consultarlo per eventuali approfondimenti o ricerche linguistiche, ecco il vocabolario milanese-italiano e viceversa dell’Angiolini datato 1896.

Per un "mestée" dedicato sempre a Milano, ma con una disamina della città nel suo complesso riferita al XIII secolo clicca De magnalibus Mediolani.

 

 

 

 

Il primo brano è un collage di brevi canzoni, definiti nella tradizione “Risott”, “Risott d’osteria”, “Minestrun”, “Rustisciada”.

El Risott. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

Anche il secondo brano è un collage.

Caterina di coraj. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

Quattro mappe.

 

 

 

 

 

La prima mappa è una incisione su rame di Frans Hogenberg e Simon Novellanus, fatta a Colonia nel 1572.
Porta Vercellina è la porta cerchiata in rosso.

 

 

 

 

 

Mappa fine '800. Corso Vercelli allora non esisteva com'e adesso.

Come risulta dalla mappa corso Vercelli proseguiva nell'attuale via Belfiore e via Marghera sino a giungere al borgo La Maddalena.

 

 

Nella mappa appare ancora il cimitero di Porta Vercellina. Il cimitero di Porta Vercellina, prima foppone di San Giovannino alla Paglia o fopponino di Porta Vercellina e infine cimitero di Porta Magenta, era un cimitero situato, allora extra moenia, a Milano con l'entrata principale sul piazzale Aquileia. Era uno dei cinque cimiteri cittadini collocati fuori dalle porte di Milano e soppressi negli anni successivi alle aperture del Monumentale e di Musocco.
Costruito in piena epoca spagnola nel Ducato di Milano durante la terribile peste di San Carlo nel 1576 per accogliervi le sepolture dei primi appestati, fu chiuso alle nuove sepolture nel 1885 sotto la nuova amministrazione unitaria italiana e le ossa presenti traslate nel 1912 presso il Cimitero Maggiore. Deve il suo nome al sostantivo milanese "foppa" (buco, fossa e quindi per estensione cimitero) e alla sua posizione nel quartiere di Porta Vercellina, appena fuori dalle mura spagnole e sull'attuale piazzale Aquileia.
Nella seconda grande pestilenza di Milano del 1630 il cimitero venne trasformato in lazzaretto con la costruzione di 730 capanne per appestati ma, a differenza di quanto accaduto con molti altri lazzaretti della città, il lazzaretto del Fopponino rimase attivo fino al 1895. Durante la peste del 1630 la donazione Crivelli mise a disposizione il denaro per la costruzione di una chiesa, tuttora esistente, che venne poi edificata nel 1662 e dedicata ai santi Giovanni Battista e Carlo Borromeo e a cui si faceva riferimento con il nome di chiesa di San Giovannino alla Paglia. Dal 1638, il cimitero copriva una piccola area fra il piazzale Aquileia e via San Michele del Carso, un'area ancora oggi ricordata semplicemente come Cimitero primitivo.
È invece circa del 1640 la cappellina dei Morti che è ancora oggi ben visibile sull'angolo fra il piazzale Aquileia ed il viale San Michele del Carso e che risulta interessante per la tipica impostazione secentesca del culto dei morti: la cappella è infatti decorata da tre teschi (di cui uno andato perso) e provvista, oltre la grata che la chiude, di un piccolo ossario a terra contenente alcuni teschi appartenuti ai defunti della peste.
Nell'anno 1786, stando a quanto raccolto dal bibliotecario e storico cavalier Vincenzo Forcella nel suo Iscrizioni delle chiese e degli altri edifici di Milano dal secolo VIII ai giorni nostri del 1893, la chiesetta di San Giovannino alla Paglia, con riferimento alla paglia utilizzata per i giacigli su cui venivano ricoverati gli appestati, di fronte alla quale si estendeva il Fopponino, acquistò alcuni terreni retrostanti il cimitero primitivo al fine di ampliarlo; ampliamento effettuato nel 1787 e che arrivò a coprire parte delle odierne via Paolo Giovio e via Andrea Verga. Il nuovo cimitero venne ingrandito nella parte retrostante la chiesa, verso la campagna, e misurava 1,8 pertiche milanesi, ovvero circa 12 000 metri quadrati. Nonostante tutto, le nuove dimensioni non arrivavano a soddisfare le ulteriori sepolture, non più adatte alla aumentata popolazione locale; nel 1825 fu deliberato un nuovo ampliamento che venne portato a termine attraverso l'acquisto di nuovi terreni nel 1827 e che raddoppiò l'area del foppone ad ovest, coprendo ulteriormente l'attuale via Andrea Verga e via Ercole Ferrario. Fra il 1808 ed il 1828, venne realizzato lungo la via San Michele del Carso un piccolo campo santo, annesso al cimitero medesimo, per l'inumazione dei cittadini milanesi di fede ebraica.
Il nuovo cimitero del 1830 aveva aggiunto un nuovo viale di ingresso lungo 42 metri che si dipartiva dalla destra della Cappelletta dei Morti (realizzata nel 1640) ancora visibile in loco, che andava a distanziarsi a 113 metri dalla più vicina lunetta dei Bastioni (area oggi occupata dal piazzale Aquileia che ha infatti mantenuto la forma geometrica della fortificazione spagnola), ben più lontano degli originali 38 metri che separavano l'ingresso della struttura del 1787. Così riposizionato e ampliato, il cimitero rimase in servizio fino al 1868, anno in cui fu chiuso all'inumazione dei morti provenienti dalla città e disponibile solamente per i cadaveri provenienti dall'extra moenia, ovvero dai Corpi Santi di Milano, l'unione amministrativa delle cascine e dei borghi agricoli che si trovavano attorno alla città di Milano, appena oltre i suoi Bastioni. Tuttavia nel 1875 il foppone venne riaperto anche al servizio della città e nel 1882 appare citato nella "Guida di Milano" di quell'anno come "cimitero sussidiario" del Mandamento di Porta Magenta con la dicitura "Cimitero di San Giovannino" e una superficie di 34.100 metri quadrati. Il Cimitero di San Giovannino di Porta Magenta venne definitivamente soppresso il 30 novembre 1895 e dal giorno successivo i cadaveri lì destinati vennero trasferiti al nuovo Cimitero Maggiore, concludendo una storia durata più di 300 anni.

 

 

 

 

 

Mappa fine '800-primi '900. Dettaglio ove all'epoca denominata corso Vercelli è l'attuale via Marghera.

 

 

 

 

 

Mappa del 1904. Risulta in progetto (tratteggiato) il prolungamento rettilineo di corso Vercelli sino alla futura piazza Piemonte.

 

 

 

 

Mamma mia mi sont stuffa. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

El minestrun. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

Porta Vercellina, poi Porta Magenta. Il piazzale.

 

Porta Vercellina, che mutò il nome in Porta Magenta nel 1859, si spostò in modo asincrono rispetto ai cambi di toponimi dei borghi e delle strade: infatti con la costruzione delle mura spagnole nel XVI secolo la porta sul Naviglio di San Girolamo venne demolita e spostata oltre la chiesa delle Grazie, proprio nell’attuale piazzale Francesco Baracca, in origine piazzale Magenta.
La porta venne quindi costruita nel piazzale indicativamente all’intersezione con la via Enrico Toti, all’epoca senza toponimo in quanto parte integrante dei Bastioni di Porta Sempione.
L’arco dell’ultima Porta Vercellina esistita fu un rifacimento di quella spagnola, pianificato nel periodo napoleonico e realizzato da Luigi Canonica (autore tra l’altro anche dell’Arena civica) nel 1805, appositamente per celebrare l’ingresso di Napoleone in Milano

 

 

 

Porta Vercellina o Magenta ante 1897.

 

 

 

 

 

La demolizione di porta Magenta, 1897.

 

 

 

 

Mi, lu e lee. Nanni Svampa. Sulla musica di "Come pioveva".

 

 

 

 

 

 

Piazzale Magenta, ora Baracca, lato via Ariosto, 1910.

 

 

 

 

 

Piazzale Magenta, ora Baracca, 1905.

 

 

 

 

Camerer porta mezz liter. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

 

Piazzale Baracca, prima Magenta, a seguire corso Vercelli.

 

 

 

 

 

Piazzale Baracca, prima Magenta, 1930.

 

 

 

 

 

Piazza Magenta, ora Baracca, 1925.

 

 

 

 

Martino e Marianna. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

 

Piazzale Magenta, ora Baracca, lato via Ariosto.

 

 

 

 

 

Piazzale Magenta, ora Baracca, a seguire corso Vercelli.

 

 

 

 

El gir del mund. I Gufi.

Nota: de "El gir del mund" esistone molteplici versioni. Io ne propongo tre. Questa è la prima.

 

 

 

 

 

La moglie di Cecco Beppe. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

La Maddalena.


Il borgo de La Maddalena oggi la si identifica più facilmente con l’area piazza De Angeli, via Marghera, la Baggina e piazza Piemonte/via Washington. La Maddalena era un insieme di casupole di campagna dove la strada per Vercelli attraversava con un bel ponticello il fiume Olona. Al bivio per la strada che portava a Baggio si trovava e si trova tuttora una colonna votiva sopravvissuta miracolosamente in una Milano che divora e consuma tutto. La colonna è dedicata a Santa Maddalena, era una delle crocette fatte erigere da San Carlo Borromeo a ringraziamento per la cessazione della peste del 1576-1577. Il piccolo borgo si trovava a breve distanza da San Pietro in Sala, borgo assai più importante fuori dalla mura di porta Vercellina.
Con l’industrializzazione, Milano si ingrandisce, e qui nel 1872 venne fondata l’industria dei tessuti stampati di Ernesto De Angeli, che utilizzava le vicine acque del fiume Olona. Poi nel 1896 Ernesto De Angeli si unisce a Giuseppe Frua e danno inizio ad una grande fabbrica di tessuti. Il borgo si ingrandisce e diventa pian piano un quartiere della grande Milano.
Negli anni Venti venne posizionata una fontana oggi scomparsa al centro della piazza che nel frattempo si era creata con la costruzione delle nuove case. Il fiume Olona venne deviato e così perse ogni traccia o quasi del suo passaggio in questo luogo. Così come la grande fabbrica della Frua, che dalla fine degli anni Cinquanta lasciò il posto ad un quartiere moderno.

 

 

 

La Maddalena. La fabbrica De Angeli-Frua, via Marghera e il ponte sull'Olona.

 

 

 

 

 

La Maddalena. La fabbrica De Angeli-Frua (ora quartiere Frua).

 

 

 

 

La rustisciada. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

 

La Maddalena. Piazza De Angeli, la fontana e lo stabilimento De Angeli-Frua, 1921.

 


Il 21 luglio 1920 la Società De Angeli-Frua si accorda col Comune per cedergli aree di sua proprietà, nel quartiere della Maddalena attraversato dal fiume Olona. Unica richiesta fu quella di lasciare alla società uno spazio di 240 mq. sul quale innalzare la fontana monumentale; all’articolo 5 di detto contratto si precisa che le spese di costruzione saranno a carico della De Angeli mentre per la manutenzione se ne dovrà occupare il Comune.
Intanto lo scultore Egidio Buoninsegna realizza la fontana (e la statua del lavoratore lì vicino, all’ingresso della demolita scuola materna), che viene inaugurata il 23 luglio 1921.
Non succede nulla per quarant’anni, finché, nel 1962, viene deciso il passaggio della metropolitana e quindi che la fontana sarà spostata temporaneamente altrove. Lo smontaggio e la numerazione dei componenti è affidato all’impresa Brugnatelli-Lanfranconi che, pare, li trasportino presso dei magazzini comunali in via Zamagna. Il mistero comincia quasi subito, giacché all’istanza presentata dalla DeAngeli-Frua nel settembre ’62 per conoscere nel dettaglio i tempi di ripristino del monumento, il Comune non risponderà mai. Nella richiesta viene inoltre precisata l’intenzione di volervi apporre il terzo medaglione di bronzo, raffigurante Giuseppe Frua, insieme a quelli già presenti di De Angeli e Cantoni.
Segue oblio quarantennale, senza che nessuno sappia o dica nulla della sparita.
Nel 2004 un cittadino interessato, Eddo Confortini, interpella l’allora Vice Sindaco De Corato sulla faccenda, e questi attiva tale Dr. Cazzani dell’Ufficio Pianificazione Urbana perchè tenti di capirci qualcosa. Non si approda a nulla, se non appurare che l’area sulla quale i pezzi erano stoccati in via Zamagna sarebbe poi stata occupata dal cantiere dell’asilo nido e che quindi qualcuno li avrebbe spostati altrove per liberare l’area. Da allora, nonostante l’interessamento del figlio dell’artista, Pierluigi Boninsegna, supportato da una serie di articoli pubblicati dal mensile “Il diciotto”, non s’è potuto saperne più nulla.

 

 

 

 

 

La Maddalena. Via Marghera, 1910-1915.

 

 

 

 

 

La Maddalena. Via Marghera.

 

 

 

 

Crapa pelada. Nanni Svampa.

 

 

 

A “Crapa pelada” è doveroso dedicare una narrazione particolare, perché la filastrocca attraversa trionfalmente oltre 400 anni di storia per, incredibilmente, finire su Netflix.
Ce la racconta Alessandro Robecchi.

 


Cosa diavolo può legare il Caravaggio, la cristallina idiozia della censura fascista, la serie americana più cool di sempre, la Milano del ‘600 (pre peste), il jazz? Seguire il filo, risalire alle fonti, alle origini, alle leggende, fino al salto sulla sedia quando uno, vedendo Breaking Bad, la serie di Vince Gilligan, una delle più famose e popolari su Netflix, pilastro contemporaneo della fiction mondiale, sente quella musica, la riconosce (e come non riconoscerla?). Maddai, possibile?
La canticchia Gale, per la precisione, chimico specializzato che “cucina” cristalli di metanfetamine, e la canticchia con il sottofondo dell’originale -un disco- mentre si prepara la cena. Il disco sta ancora girando che lo ammazzano malamente (III stagione, episodio 13).
Ma che musica? Ecco, giusto, prima le fonti.
“Crapa pelada l’ha fa i turtei
Ghe ne dà minga ai so’ fradei
I so’ fradei fan la fritada
Ghe ne dan minga a crapa pelada”.
Filastrocca scemetta, per bambini, una solfa, una tiritera divertente. Chi lo direbbe che è una cosa che parte dal Caravaggio, arriva a Rabagliati, viene combattuta dal fascismo, trionfa alla Liberazione e sbarca nella super-fiction americana?
Non facciamola lunga: piccola storia di una grande canzone.
Prima la leggenda, la genesi. Il Caravaggio, era ancora “soltanto” Michelangelo Merisi, viveva a Milano, più o meno il 1590. Testa calda, lo sappiamo, ma capace di innamorarsi. “Lei” si chiama Peppa Muccia, prostituta, lui la rapisce (ah, l’amore!), i fratelli di lei (tre, dice la leggenda) non possono perdonare, recuperano la ragazza, danno una sonora mazzolata al pittore e a lei, punizione umiliante, rasano i capelli a zero. Ecco “Crapa pelada” viene da lì, tradizione orale, storia di dispetti e di ripicche: lei fa i tortelli ma ai fratelli non li dà, li darebbe solo al suo amore, che però chissà dov’è (ve lo dico io: a Roma, dove di lì a qualche anno diventerà “Il Caravaggio”).
Un passaparola di generazioni. Per trovarla in forma di canzone -e che canzone!- bisogna aspettare secoli, il 1936, quando Giovanni (Tata) Giacobetti, cantante, contrabbassista, futuro fondatore del Quartetto Cetra, si ricorda della filastrocca popolare, la riscrive insieme a Gorni Kramer (Francesco Kramer Gorni, inarrivabile maestro di fisarmonica, precursore del jazz in Italia, re del varietà).
La musica viene da uno standard americano, precisamente da “It Don’t Mean a Thing”, che Duke Ellington scrive nel 1932, tutto è saltellante e sincopato, le parole in dialetto lombardo rimbalzano su quella tessitura che è un piacere, c’è ironia, forse sarcasmo, jazz, swing, accidenti!
Funziona. La canta Alberto Rabagliati. Funziona pure troppo. E poi la stupidità della censura fa il resto.
Basta leggere il “Radiocorriere” di quegli anni si capisce perché: “Musica negroide”, espressamente vietata dal ’37, ma sottotraccia si suona ancora, la Resistenza è anche un po’ swing. E dopotutto cosa regala Milton a Fulvia in “Una questione privata” di Fenoglio? Over the rainbow…
C’è di peggio (non ridete) il jazz è anche “musica afro-demo-pluto-giudo-masso-epilettoide”. Insomma, contrabbassi e orchestrine al posto di chitarre e mandolini? Non scherziamo, dove andremo a finire? Non c’è molto da ridere, se pensate che Giorgia Meloni se la prende con “Imagine” di John Lennon… Il lupo, il vizio, ecc. ecc..
Dunque la canzone non si sente, non passa all’Eiar, la radio, ma la canticchia mezza Italia, divertita, di nascosto, l’infantile “Crapa pelada” ritmata con curvature vocalese nel ritornello, così americana, esotica, divertente; nei locali da ballo la si canta alla fine, quando un po’ di gente se n’è andata, anche le guardie: carboneria jazz degli anni Trenta.
Il fatto è che nel 1936, in Italia, quando la canzone conquista tutti, “Crapa Pelada” è uno solo. Lui, il mascellone volitivo, il duce dell’Impero, la macchietta solenne del fascismo, l’assassino di Palazzo Venezia. Ridere del potere, ammiccare, fischiettare, alludere, sono tutte cose che i regimi temono come la peste nera. Canticchiare “Crapa pelada” ti può costare la galera: un grande successo semiclandestino.
La storia delle censure fasciste alle canzonette è vasta e in certi casi anche esilarante. Quando Italo Balbo si schianta in aereo, per dire, diventerà un problema anche cantare “Maramao perché sei morto” (Consiglio-Panzeri, 1939, esecuzione del Trio Lescano), con quel verso meraviglioso e italianissimo, “Pan e vin non ti mancava”, e quindi che cazzo andavi a schiantarti nei cieli di Tobruk? Malumori nel regime, canzonette divertenti, fischiettate come segnali, una resistenza piccola, passiva, fatta di minimi gesti, segni di riconoscimento, bastava una strofa e si sapeva come la pensavi.
Poi, il regime finiva come si sa, “Crapa pelada”, quello vero, pure, e nel 1945 il Quartetto Cetra ne incideva -sembra un festeggiamento- una versione portentosa, prima melodica e poi (mi scuso) swinghissima, vorticosa, che diceva sì, certo, usiamo lo swing per cantare filastrocche assurde, cretinate, frittate e tortelli, ma anche per dire che si può, finalmente. Si liberava tutto, si liberava anche una canzone. Grande successo.
Che “Crapa pelada” sia poi finita nella raffinatissima colonna sonora di “Breaking Bad”, e quindi definitivamente consegnata al culto pop dei nostri anni, può essere un caso, ma ne fa in qualche modo uno standard del jazz mondiale, con milioni di visualizzazioni, una cosa che non morirà, andrà avanti ancora, da quando tre fratelli di Milano diedero una manica di botte al Caravaggio.

 

 

 

 

 

La Maddalena. Via Marghera.

 

 

 

 

 

La Maddalena. Via Marghera.

 

 

 

 

La cervelera. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

L'esondazione dell'Olona del 31 maggio 1917.

 

 

 

La Maddalena. Il Gamba de Legn' in via Marghera, 31 maggio 1917.

 

 

 

 

 

La Maddalena. Piazza De Angeli, 31 maggio 1917.

 

 

 

 

La Maddalena. Piazza De Angeli, 31 maggio 1917.

 

 

 

 

La bella Gigogin. Nanni Svampa.

 

 

 

E' la canzone patriottica più popolare del Risorgimento. "Gigogin" in piemontese è un diminuitivo di Teresa, e la sua presenza in questa canzone sta a significare che il testo è un insieme di strofe non tutte milanesi. La musica composta dal milanese Paolo Giorza, venne seguita per la prima volta al teatro Carcano la sera di San Silvestro del 1858. In quella circostanza piacque tanto al pubblico milanese, che la Banda Civica del maestro Rossari la ripetè per otto volte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bell'uselin del bosch. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

Varda Giulaj. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

Ed ora un inserto dedicato ai "Vecc mestée de Milan" .

 

Per il testo contributo fondamentale è dovuto a Gianni Zacevini.
I mestieri che ho elencato sono quelli non più praticati ed essenzialmente “ambulanti”. Probabilmente ne manca qualcuno che non ho trovato nelle ricerche effettuate, e solo di alcuni ho foto d’epoca.
Una nota particolare è dedicata alle “piscinine” (che non erano lavoratrici ambulanti), con cui inizio l’elenco, alle loro condizioni di lavoro che portarono allo sciopero del 23 giugno 1902.

 

Le piscinine.
Le “piscinine” erano le bambine che imparavano il mestiere della sarta, della modista, della lavorante in biancheria e della stiratrice. Di età compresa tra i 6 e i 13 anni, erano apprendiste presso le sartorie della Milano dei primi ‘900. Nonostante fossero piccoline, la storia che le riguarda è notevole e vale davvero la pena di essere raccontata.
Lavoravano anche per 14 ore di fila, il tutto per 25-30 centesimi al giorno. Passavano molte ore all’interno dei laboratori di sartoria ma il compito più pesante che spettava loro, era la consegna dei vestiti nelle case dei clienti. Questo voleva dire portare sulle spalle scatoloni pesanti anche 10 kg per diverse ore al giorno. Il loro apprendistato naturalmente non prevedeva ferie, gli straordinari erano all’ordine del giorno e nessun loro diritto era tutelato.
La mattina del 23 giugno 1902, la città fu colta di sorpresa da uno sciopero che non si sarebbe mai aspettata: quello delle “piscinine”! La notizia, naturalmente riportata dai giornali, venne data quasi fosse lo scherzo di un gruppetto di bambine capricciose di 10 anni. Ma i giornalisti si accorsero ben presto che non era affatto così. Le “piscinine” scioperavano davvero per far valere i loro diritti e a ragione! Capeggiate da una quattordicenne, la più anziana fra loro, decisero che non sarebbero tornare al lavoro senza aver prima ottenuto la riduzione dell’orario di lavoro richiesta, la possibilità di usufruire di un’ora di riposo nell’arco della giornata, la riduzione del peso dei pacchi da consegnare, e l’aumento del salario a 50 centesimi.
Alla protesta aderirono più di 400 bambine e dopo una settimana di sciopero totale, riuscirono ad ottenere soddisfazione alle loro richieste.

 

 

Da “La Domenica del Corriere”, 29 giugno 1902.

 

Lo sciopero delle piscinine è un fatto compiuto. Le piscinine, per chi lo ignora, sono quelle ragazzine che imparano il mestiere della sarta, della modista, della lavorante in biancheria e delle stiratrici. […] Le piscinine domandano: un salario minimo di 50 centesimi, riduzione di orario, non essere adibite a lavori di famiglia e non portar lo scatolone; doppia paga alle domeniche e compenso proporzionato per ore straordinarie di lavoro. […] La grande sala della Camera del lavoro, invecchiata fra le adunanze di tutti i generi, non ricorderà certo d’aver mai veduto fra le sue pareti nulla di simile a quanto vi si è svolto ieri. Una nidiata di bambine – saranno state un centinaio – sedute in buon ordine, contornavano il palco delle Commissioni. Un cinguettio di voci infantili, allegro ed irrequieto echeggiava fra le nere muraglie, sotto al lucernario polveroso, che finora avevano rimbombate delle grida minacciose di tumultuose assemblee operaie.

 

 

 

Dall’Archivio Unione femminile italiana.

 

 

 

El cadreghée.
Era il riparatore di cadreghe, cioè delle sedie impagliate. Proveniva soprattutto dai paesi del Veneto attorno a Belluno e dal Friuli. Girava per le strade in bicicletta portando con sé, in un sacco, gli attrezzi del mestiere come la pialla, il martello, i chiodi, la sega e la paglia. Si fermava su richiesta e si dedicava alla riparazione delle sedie usurate o rotte.

 

 

El cadreghee.

 

 

El cafettee del cafè del genoeucc.
Tra i venditori più curiosi della Milano di ieri, c’era “el cafettee del cafè del genoeucc”. La tradizione risale all’Ottocento ed è proseguita fino a poco dopo la conclusione della prima Guerra Mondiale. Soprattutto in centro, non mancavano allora, bar e locali rinomati, eppure, proprio in piazza del Duomo e lungo le strade che portavano alle porte della città, si poteva vedere una specie di trespolo su ruote gestito da un ambulante, che vendeva soprattutto nelle ore notturne e fino all’alba, del caffè caldo destinato agli operai che rientravano a casa tardi alla sera o che andavano presto al lavoro al mattino e non potevano permettersi il lusso di gustare quello “vero” dei pochi bar ancora aperti a quelle ore.
La bevanda che vendeva l’ambulante, costava certamente meno che al bar, ma poco anche valeva e, nonostante ciò, andava a ruba. Era ricavata dai fondi di caffé recuperati dall’ambulante stesso nei bar limitrofi, scaldata in un recipiente di rame e spillata alla base da un apposito rubinetto.
Perché lo chiamavano “café del genoeucc”? Per alcuni, l’avventore, per spillare da solo la bevanda dal recipiente, a volte doveva persino inginocchiarsi, tanto era sistemato in basso il rubinetto della cuccuma; per altri, tale nomignolo deriva invece dal fatto che per gustare meglio il caffè, i clienti, seduti su un qualunque gradino, poggiavano la tazzina direttamente sul ginocchio.
A puro titolo di cronaca, pare che l’ultimo cafettee del genoeucc in Piazza Duomo, fosse una donna, che tutti chiamavano affettuosamente Mammetta. Prima del 1915, al posto suo, “el scior Liber e la sciora Nazzarela”, assieme al caffé del “genoeucc” vendevano, nello stesso posto, pure la “staffètta”, cioè dei grappini corroboranti molto apprezzati.

 

 

El cafettee del cafè del genoeucc, 1915.

 

 

El fironàtt.
Per chi non conosca il dialetto milanese, il mestiere del “fironàtt o firunàtt”, non è molto intuitivo. Il nome deriva da “firon” (filo) e quindi fironi (collane di castagne infilate su più fili). Fare “el fironatt”, significava lavorare per le strade in autunno, vendendo le collane di castagne.
Da non confondere i “fironàtt” con i “maronatt”, che, provenienti dal Lago Maggiore erano i venditori di “scotti caldi”, le castagne arrosto che vengono ancora oggi servite in imbuti di carta.
A Milano i “fironàtt” si riconoscevano facilmente perchè, portando le collane di castagne appese al collo, giravano dalle parti di Piazza Duomo particolarmente il sabato, la domenica e nei giorni di festa, girando fra la gente a caccia di possibili clienti.
Particolarità dei “fironàtt”, era quella di andare in giro con un sacchetto nel quale erano contenuti i 90 numeri della tombola, numeri che loro usavano per fare una specie di lotteria, per attirare la gente. A chi aveva già acquistato una loro collana, facevano scegliere un gruppo di numeri (da 1 a 30, da 31 a 60 e da 61 a 90): estraevano quindi un numero. Se questo era compreso nella serie indicata, il fortunato compratore vinceva un’altra fila di castagne! A chi viceversa, non aveva acquistato ancora nulla, per cinque soldi, loro offrivano la possibilità di estrarre tre numeri. Se il fortunato indovinava il numero della collana, quella diventava sua. Infatti il loro grido di battaglia era: “Ghemm i cuni de Cuneo! Cinqu ghei trii numer! Trii ballett cinqu ghej! Bèi fironni!” (Abbiamo le castagne di Cuneo! Cinque soldi tre numeri! Tre palline cinque soldi! Belle collane!).

 

 

El fironatt, 1915.

 

 

 

El maronatt, 1890.

 

 

El gamberee.
Si annunciava al grido “L’e’ quell di gamber salad e boni “oppure “L’è quell di gamber pescaa in del Lamber.“ Andava a catturarli direttamente nel Lambro, e finché il fiume non era inquinato come oggi, ne raccoglieva in poco tempo, grandi quantità. Bastava infilare una mano in ogni cavità dell’argine per tirarne fuori alcuni esemplari. Poteva capitare però che all’interno, invece del gambero si trovasse qualche topo d’acqua, oppure peggio, delle bisce d’acqua, che rendevano sgradevolissima l’esplorazione e, per questo, era prerogativa solo dei più coraggiosi. Se si era fortunati, e capaci di catturarla con le sole mani, poteva pure capitare d’incappare in qualche anguilla, molto più combattiva della biscia, che avrebbe reso prezioso il bottino.

 

Quel del luster e string di scarp.

Il venditore di lucido e stringhe per le scarpe.

 

 

Quel del luster e string di scarp, 1915.

 

 

El giazzee.
Arrivava con un carretto di legno trainato a mano e colmo di lunghi e grossi blocchi di ghiaccio protetti da tela di juta. Acquistato un pezzo di ghiaccio le donne vi tenevano in fresco un pezzo di carne o, per il piacere dei figli facevano le granite, per i piu' agiati che possedevano una ghiacciaia.

 

 

El giazzee.

 

 

El lattee.
Prima dell’avvento dei frigoriferi e del latte a lunga conservazione, il latte andava consegnato fresco, alla porta del cliente. Al grido di “Lattèe! Lattèe! El lacc pènna mongiuu!” (Lattaio! Lattaio! Il latte appena munto!), quell’omone, con tanto di caratteristico cappello, richiamava l’attenzione delle massaie, passando di cortile in cortile, e di strada in strada nei quartieri di competenza, fino all’esaurimento del suo prezioso carico. Era tutto un accorrere nei cortili delle donne che scendevano con i loro bricchi per accaparrarsi “el latt”.
Dopo aver munto all’alba le mucche nelle stalle dai cascinali dei Corpi Santi, arrivava a piedi a Milano, fin dalle prime ore del mattino, portando con sé in spalla, due contenitori di alluminio pieni di latte, appesi alle estremità di un bastone (per bilanciare il carico), oppure trainando un carretto, su cui era sistemato un grosso tino di alluminio pieno di latte fresco, appena munto.

 

 

El lattee, 1915.

 

 

El magnàn.
Fino a mezzo secolo fa, era molto comune sentire il suo grido per le strade ed i cortili delle case di ringhiera milanesi: “donne gh’è chì el magnàn”, simbolo di un tempo in cui le pentole di rame o di ferro si tramandavano di madre in figlia, continuamente rattoppate. Era lo stagnino (dal latino “manianus”) colui che, per pochi soldi, riparava le pentole con un po’ di stagno o ricopriva internamente i recipienti di rame con uno strato di stagno per evitare che ossidandosi, rendessero tossiche le pietanze. L’operazione doveva naturalmente ripetersi ogni qual volta lo stagno si consumava.
Tutti questi oggetti facevano parte del corredo domestico e le pentole si usavano appendere ai chiodi di una tavola di legno sistemata alla parete della cucina.

 

El tintor.
Girava per i cortili con i secchi sulle spalle, ma faceva pochi affari perché la gente era abituata a tingere in proprio i vestiti che usati per lungo tempo avevano bisogno di una rimessa a nuovo.

 

Quel di brugn morell.

Il venditore di prugne scure.

 

 

Quel di brugn morell, 1915.

 


Quell di pigott.
Di pezza o cartapesta verniciata, con il grembiule, la vestina o anche nude sopra il banchetto o per strada con la cesta, l'ambulante che vendeva le bambole, tutti prezzi e misure, per accontentare le bimbe.

 

El polentatt.
Il “polentatt”, ovvero il venditore di polenta era un mestiere diffusissimo fino alla prima meta'dell'Ottocento. In tutte o quasi le zone del centro cittadino si poteva trovare un polentatt, ma all'incirca verso metà del secolo questa figura andò via via scomparendo.

 

Quel di magioster.

Il venditore di fragole.

 

 

Quel di magioster, 1915.

 

 

El strascee (el Borella).
Lo strascee era lo straccivendolo che girava nei rioni per procurarsi la "merce". Uno noto strascee milanese si chiamava Borella ed era un personaggio grassoccio e buffo che divenne talmente famoso tra i milanesi che il suo nome venne usato nel dialetto meneghino come sinonimo di straccivendolo sia nel parlare corrente sia in nel detto "Daghel al Borella" (ossia "Daglielo allo straccivendolo") usato riferendosi a qualcosa che non vale niente.

 

 

El strascee.


 
El castragaj.
Ovvero colui che castrava i galli. Potrebbe oggi sembrare buffo ma ai tempi il castragalli era molto richiesto, non essendo un lavoro piacevole pochi infatti vi si dedicavano. Il “castragaj” girava per le cascine barattando il proprio lavoro con prodotti stagionali della cascina o con dei capponi.

 

Quell dej nos.
In autunno, arrivava puntualmente dalla Brianza il venditore di noci. Di solito i venditori erano sempre in coppia, si sistemavano vicino ad un forno o ad un'osteria in modo che il cliente potesse procurarsi il pane ed il vino da accompagnare alle noci. Uno richiamava l'attenzione della gente gridando sulle molteplici qualità delle noci che teneva nel cesto, l'altro armato di un sasso, rompeva il guscio delle noci e invitava i passanti.

 

El sibrétee.

Il venditore di ciabatte e pantofole.

 

 

El sibrétee, 1915.

 

 

El scoinatt.

Il venditore di scope.

 

 

El scoinatt, 195.

 

 

El menafrecc.
Normalmente circolavano in coppia, “tutt e du, negher de fuliggine”, come si diceva in dialetto; giravano per le strade dei quartieri, strillando “mena frecc!”. Nei mesi autunnali ed invernali calavano in città dalla Val d’Ossola, dalla Val d’Intragna e dalla Valtellina, andando ad alloggiare in città, in qualche gelida stamberga di periferia. Erano lo spazzacamino e il suo aiutante che, muniti di spazzole di ferro, ganci e corde, facevano sapere a tutti quelli che avevano bisogno di pulire il camino o la stufa, che loro erano pronti a intervenire. Un mestiere, questo, che all’epoca, era assolutamente indispensabile per la pulizia delle canne fumarie.
Spontanea la domanda, ma perché i milanesi li chiamavano “menafrecc“? Perché in dialetto, “mena frecc” significa letteralmente “porta freddo”. Arrivavano infatti d’inverno, quando il freddo pungente cominciava a penetrare nelle ossa, quasi fossero loro a costringere la gente a infagottarsi.
E, stando a quanto si diceva in giro, facevano una vita davvero grama, pagati com’erano a volte, con un bicchiere di acquarello, vino annacquato. Dormivano al gelo su pagliericci in freddissimi locali della periferia e ricevevano premure soltanto dalle suore del Cenacolo del Monte di Pietà, oltre che da alcune persone pie che allestivano per loro un pasto caldo e il 25 dicembre, anche il pranzo di Natale.
Lo stesso termine viene ancora oggi utilizzato, con significato diverso: è un “mena frecc” colui il cui sola comparire in pubblico, è sufficiente a raggelare l’ambiente più accogliente ed entusiasta.

 

 

El menafrecc, 1915.

 

 

El molètta.
Il termine “molètta” deriva da “moeula” cioè la mola (generalmente disco rotante a superficie abrasiva, usato per operazioni di rettifica e affilatura). Al suo grido: “Oh, donn, gh’è chi el moletta”, con quel suo tipico accento valtellinese tutte le massaie che avevano bisogno del suo intervento, facevano capannello intorno a lui con lame da molare. Era un soggetto molto affabile e paziente, benvoluto da tutti: “Dandegh de moviment con la gambetta el fa girà roenda e moeula el molètta, fasendo el fil e tirand luster e bej seguritt, foresett e cortéj.”, (dando movimento con la gambetta, fa girare ruota e mola l’arrotino, facendo il filo e tirando lucidi e belli, accette, falcetti, forbici e coltelli).

 

 

El molétta, 1915.

 

 

El navascee o Quel de la bonza.
Fino a tutto il ‘700, ce lo racconta anche il Parini nelle sue Odi, gli scarichi urbani venivano versati sulla pubblica via e quando Giove Pluvio lavava le strade, tutto finiva nei canali a cielo aperto.
Con l’editto napoleonico, che imponeva la canalizzazione stradale (la creazione delle fognature) per la raccolta delle acque nere, sorse il problema dello svuotamento dei pozzi neri a cui queste venivano avviate, poiché non era più ammesso lo scarico nei Navigli. Come risolvere la questione? Vennero ideati dei carri che montavano una botte di forma allungata: la cosiddetta bonza. “El navascee”, aveva un compito piuttosto ingrato: era colui che, per professione, doveva svuotare i pozzi neri, usando dei secchi per travasare le acque nere nella botte. La bonza (detta anche “navàscia o navazza”), una volta piena, veniva poi portata fuori città. Il suo prezioso contenuto veniva venduto al miglior offerente che, accertata la “bontà” del prodotto, provvedeva a metterlo in vasche, per essere poi impiegato nella concimazione dei campi. Le esalazioni dei pozzi neri aperti e la puzza dei carri con la bonza scomparvero solo a partire dalla fine dell’800 con la costruzione della rete fognaria. E insieme alla bonza, anche “quel de la bonza” dovette cambiar mestiere.

 

 

El navascee.

 

 

El ranee.
“Fée risott coi rann, ò donn, stasera! Ciappà stanott in de la risera!”, era questo il modo, indubbiamente folcloristico, con cui annunciava la sua presenza alle donne del quartiere il “ranee”, cioè colui che viveva catturando le rane con le proprie mani, nei fossi e nei corsi d’acqua attorno a Milano. Con tanto di cappello, panciotto e due cesti in mano, girava per i cortili dei quartieri per rivenderle, ancora vive, alle “sciure” milanesi per convincerle a preparare per cena un buon “risott coi rann“, piatto questo, considerato a Milano, una vera prelibatezza.

 

 

El ranee, 1915.

 

 

El rizzadin.
Il nome di questo mestiere deriva da “rizzada” (acciottolato). Si tratta di un tipo di pavimentazione ottocentesca creata con ciottoli di fiume arrotondati, posati in piedi su un letto di sabbia fine, ben stretti fra loro, e battuti uno ad uno, da provetti selciatori. Mestiere indubbiamente duro questo: “EI rizzadin ghe tocca de stà in genoggion tutta la vitta” (al selciatore tocca stare in ginocchio tutta la vita).

 

 

El rizzadin, 1915.

 

 

El sonador ambulant.
Altro antico mestiere milanese, ormai scomparso, era quello del “sonador ambulant”, cioè colui che viveva di accattonaggio, girando per le strade ed i cortili dei quartieri della città, sperando di allietare la gente al suono di piccoli brani musicali prodotti da un organetto a manovella (di Barberia), su carretto trainato da un vecchio ronzino. Professione questa sicuramente redditizia, prevalentemente appannaggio di zoppi o storpi, tutta gente che, non sapendo (o non volendo) fare altro, trovava conveniente sbarcare il lunario col soldino che le massaie gli lanciavano dalle finestre, non si sa se per generosità, o perché se ne andasse. 

 

 

El sonador ambulant, 1915.

 

 

El tenga.
Era chiamato “tenga”, l’ambulante che di professione faceva il “venditore di santini” alle fiere rionali, alle sagre ed alle feste patronali sia in città, che nei suoi dintorni.
Spassosa la giustificazione del perché questo mestiere si chiamasse così! Era dovuto al fatto che lui non offriva la sua merce con le grida di battaglia di chi vende pomodori o patate, ma si accostava sommessamente all’ astante designato, dicendogli confidenzialmente, “tenga“, mentre gli porgeva l’immagine! Da qui, il soprannome.

 

El brumista.
ll nome derivava da tale lord Brougham, l’ideatore inglese che, per primo, fece costruire a proprio uso personale una carrozza chiusa (a quattro ruote), molleggiata e trainata da un solo cavallo. I milanesi, poco avvezzi all’inglese, storpiarono Brougham in “Brum“, nome questo che, guarda caso, era anche quello del lume posizionato sopra le carrozze per illuminare la strada, e chiamarono quindi “Brumista” il suo conducente. Era, in generale, il cocchiere seduto a cassetta, che conduceva sia gli eleganti calessi scoperti degli aristocratici sui quali le dame famavano farsi notare sfoggiando i loro abiti migliori, che le carrozze nere pubbliche che iniziarono a circolare dal 1830 circa, con funzione di taxi. Il servizio veniva originariamente pagato a tempo. Solo a partire dal 1876 fu introdotta la tariffa a chilometraggio con tassametro in grado di garantire alla clientela un preciso costo della corsa. Le carrozze vennero ribattezzate subito col termine “ragionatt”, termine attribuito dai milanesi a chi usava tenere la contabilità.
Il cocchiere, per regolamento, aveva una sua divisa tipica, molto elegante: giacca di tessuto pesante orlato di un nastro colorato, un panciotto rosso e un cilindro lucido basso. Aspettava i clienti che potevano permettersi il lusso di pagare la corsa. Era questo il primo taxi dell’era moderna! Non sempre le sue giornate erano fortunate quanto a numero di corse e di passeggeri: in quelle di “magra”, ci pensava il cavallo stesso, con i suoi bisogni fisiologici, ad essere fonte di guadagno per il brumista. Doveva essere spassoso vedere Il distintissimo vetturino in cilindro, dotato di paletta, a raccogliere i “doni” lasciati in terra dal suo fido ronzino, per andare a rivenderli a qualche contadino, come concime per i campi.

 

 

El brumista, 1915.

 

 

El ciapparatt..
E’ sicuramente questa, una delle professioni che, meglio di ogni altra, ha resistito al tempo, da un lato, grazie alla proverbiale prolificità dei ratti, dall’altro, grazie pure al fatto che il suo nome viene ancora oggi utilizzato in modi di dire davvero memorabili.
“Va a ciappà i ratt“, in dialetto milanese, significa: togliti dai piedi e, se proprio non sai cosa fare, vai a cacciare i topi!
Espressione questa che tornò particolarmente di moda nel 1929, nel periodo della grande Depressione, quando a Milano, evidentemente infestata dai topi, venne avviata un’importante e molto pubblicizzata operazione di derattizzazione. Il rischio di tifo murino per i milanesi morsi da questi “simpatici” roditori era talmente alto, che vennero messi addirittura in palio dei premi in denaro per incoraggiare la gente a catturare i “ratt”.

 

 

I ciaparatt dell'Ortica.

 

 

El lampedee.
Per tutto il Settecento, a Milano, l’illuminazione stradale era quasi unicamente quella dei ceri accesi di fronte a tabernacoli e alle immagini sacre, poste agli angoli delle varie contrade. Si cominciarono a vedere i primissimi lampioni ad olio verso il 1784 quando, con un decreto dell’imperatore austriaco Giuseppe II, i proventi del gioco del lotto e delle imposte sui fabbricati, pagate dai milanesi all’amministrazione asburgica, furono dedicati a impiantare un servizio di illuminazione pubblica con lampioni ad olio. Dal 1787 in poi questo servizio fu affidato ad un apposito corpo di operai accenditori specializzati, i “lampedee”, che provvedevano all’accensione e spegnimento dei lampioni. Verso fine secolo, quando la dominazione austriaca fu costretta da Napoleone a cedere Milano ai francesi, sparsi per tutto il centro la città si contavano già ben 1200 lampioni di diversi tipi, dapprima lumi ad olio, in seguito a petrolio. Ad accenderli arrivavano verso l’imbrunire i “lampedee” che con la scala, la “perteghetta” (l’asta) e la scatola contenente il bricco dell’olio, accendevano i lampioni uno ad uno. Al mattino i “lampedee” tornavano di nuovo, in sella alla loro bicicletta, per spegnerli.
Le lampade ad olio rimasero poi in funzione fin oltre la metà dell’Ottocento, solo gradualmente soppiantate, a partire dal 1843, dalle lampade a gas gestite da una società belga che aveva il suo gasometro vicino l’attuale Università Bocconi. Anche in questo caso, erano sempre i “lampedee” ad andare in giro lungo la rete d’illuminazione pubblica ad aprire e regolare i rubinetti del gas, con l’intramontabile “perteghetta”.

 

 

El lampedee, 1915.

 

 

L’acquarolo.
Era colui che riforniva d’acqua le case non servite dall’acquedotto comunale.

 

Quel de l'armandolaa.

Colui che vendeva il torrone.

 

 

Quel de l'armandolaa, 1910.

 

 

L’alpador.
Era il pastore che vivendo in montagna col suo gregge, veniva d’inverno a vendere a Milano burro e formaggi.

 

Quel di anej per ciav e umbrej.

Il venditore di anelli per chiavi e ombrelli.

 

 

Quel di anej per ciav e umbrej, 1915.

 

 

Quell di peri cotti.
Era il venditore di pere cotte.

 

 

Quel di peri cotti, 1915.

 

 

El pomella.
Era il contadino che portava in citta mele, frutta e verdura del proprio orto.

 

L'ombrèlee.

Colui che riparava gli ombrelli.

 

 

L'ombrélee, 1930.

 

 

L’ancioatt.
Termine derivante dal francese "anchois" (acciuga), “ancioatt” significa acciugaio. Era il personaggio che girava per strade, piazze e cortili urlando e promuovendo la sua merce: acciughe e salacche, ancora presente nei mercati rionali itineranti, vende olive, acciughe, tonno, alici e capperi.

 

 

L'ancioatt, 1800.

 

 

La lavandera.

Per scrivere della “lavandera”, trasferiamoci al “Vicol de Bugandee”.
Il Vicolo dei Lavandai a Milano originariamente chiamato in dialetto Milanese “Vicol de Bugandee” (da “bugada”, bucato) era utilizzato in buona parte dagli uomini della Confraternita Lavandai di Milano. Essa aveva persino un Santo Patrono ovvero “Sant’ Antonio da Padova”; ad esso è dedicato un altare nella chiesa di Santa Maria delle Grazie al Naviglio.
Confraternita dei Lavandai.
La Confraternita dei Lavandai costituitasi nel XVIII secolo deve il suo nome -lavandai- al fatto che ad occuparsi del lavaggio, in origine, erano alcuni addetti di sesso maschile, si occupava del ritiro e del lavaggio di biancheria e indumenti delle famiglie abbienti. Il bucato raccolto nelle “gerle” veniva portato sino al Vicolo dei Lavandai per il lavaggio.
I “brellìn”.
I lavandai inginocchiati sui “brellìn” di legno posti sotto la caratteristica tettoia, sciacquavano i panni nel piccolo ruscello detto “El fossett”; Esso era alimentato dalle acque del Naviglio Grande; successivamente venivano strofinati sulle basi di pietra.
I detersivi.
All’epoca non esistevano sofisticati detersivi, i materiali utilizzati erano i più diversi. Ad esempio il “palton” era una pasta di cenere con l’aggiunta di soda e sapone; si utilizzavano anche impasti a base di letame vaccino e liscivia. Spesso si usava solo acqua bollente miscelata a cenere imbevuti in un panno chiamato “ceneracciolo”.
Vicolo dei Lavandai e la piazzetta scarico merci
Al termine di una delle due estremità del Vicolo dei Lavandai c’è una piazzetta. Allorquando i Navigli avevano ancora la funzione originaria di rotta commerciale, era il luogo di scarico delle merci portate con i barconi in darsena. Ancora oggi in un cortile adiacente al vicolo, è visibile una centrifuga dell’inizio del secolo XX, usata per asciugare i panni.

 

 

La lavandera.

 

 

 

 

Il funerale di Giuseppe Verdi.

Perchè nel "mestèe" ho inserito un appunto riferirto al funerale di Giuseppe Verdi? Guarda le foto dopo il breve testo e capirai...

 

Non tutti sanno che Giuseppe Verdi ebbe addirittura due funerali.
Verdi morì il 27 gennaio 1901 al Grand Hotel et De Milan, che dal 1872 al 1901 divenne la sua residenza milanese, per via della vicinanza al Teatro alla Scala. Qui compose l’“Otello” e il “Falstaff” e seguì i lavori della casa di riposo per musicisti che fece costruire in Piazza Buonarroti.
Verdi aveva chiesto che i suoi funerali fossero modesti e che, dopo la sua morte, ai poveri di Sant’Agata venissero date mille lire al giorno. Tuttavia l’amore degli Italiani per il compositore era tale che entrambi i funerali furono tutt’altro che modesti.
Il primo avrebbe dovuto svolgersi in forma privata. La bara doveva essere portata al Cimitero Monumentale di Milano la mattina presto, ma sin dalle prime ore dell’alba da ogni parte della città accorsero decine di migliaia di persone per dare l’ultimo saluto a Verdi.
Un mese dopo il corpo fu spostato nella casa di riposo per musicisti voluta da Verdi. Oltre 300.000 persone si unirono al corteo, guidato da un coro di 820 voci dirette da Arturo Toscanini che intonavano il “Va pensiero”. Il corteo era così imponente che ci vollero undici ore per arrivare la casa di riposo in Piazza Buonarroti, dove Verdi è tuttora sepolto accanto alla seconda moglie Giuseppina Strepponi.

 

 

 

Il corteo funebre in corso Vercelli, 1901.

 

 

 

 

 

Il corteo funebre in piazza Wagner, 1901.

 

 

 

 

El sindich de Precott. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

 

Il corteo funebre in piazza Wagner, 1901.

 

 

 

 

 

Il corteo funebre in piazza Wagner, 1901.

 

 

 

 

A l'era sabet sera. I Gufi.

 

 

 

 

 

De tant piscinin che l'era. I Gufi.

 

 

 

 

 

Il borgo di Sala e la chiesa San Pietro in Sala.

 

Le prime attestazioni del borgo di Sala (un tempo separato dal nucleo della città) risalgono alla fine del X secolo (atto di vendita di fondi da Ferlinda, vedova di Benedetto Ronzone, nel luogo detto Sala e Felegazo, 29 agosto 970; in documenti successivi la località è detta Sala Rozonis e poi semplicemente Sala.
Fondazione della chiesa.
Nel settembre del1028 si registra la nascita di San Pietro e Michele in Sala per disposizione del canonico Ottone da Bezo, su un terreno di 3 jugiae (= 36 pertiche) di cui era usufruttuaria Raidruda o Raitruda, vedova di Gandolfo. Quest'ultima cedette la chiesa da lei stessa fatta costruire, e consacrata dal vescovo Ariberto da Intimiano, all'abate del monastero di Sant'Ambrogio insieme ai terreni circostanti, comprendenti anche una cascina ed un pozzo. Circa i motivi dell'intitolazione poco si sa, a parte il fatto che il padre di Gandolfo si chiamava Pietro.
È intorno al 1100 che nascono le “vicinantiae” che presto evolveranno in "parrocchie", e San Pietro in Sala viene citata come parrocchia già in una bolla del papa Pasquale II del 14 febbraio 1102 ("Ecclesia sancti Petri, ubi dicitur a Sala, cum parochia sua"). In seguito la parrocchia sarà sempre così denominata, abbandonando l'altra intitolazione all'arcangelo Michele.
Uno dei primi curati di San Pietro in Sala (se non il primo in assoluto) fu Teusprando noto da un documento del 1043. Sembra che la chiesa originale sorgesse sul lato della piazza opposto a quello dell'attuale edificio (nei documenti si dice che confinava, a ponente, con "la strada", ma non è chiaro se si parli della strada Vercellina, odierno corso Vercelli, o un'altra strada secondaria).
La prima ricostruzione.
Si trattava comunque di un piccolo edificio, destinato a servire gli abitanti delle case della Baitana -oggi via Belfiore- e delle Cassine de Biffis all'inizio dell'attuale via San Siro. Già nel 1141 essa venne riedificata, ad opera di Eriberto da Pasilvano, per contenere l'accresciuto numero di fedeli.
Col passare del tempo, il borgo di Porta Vercellina si sviluppò portando alla nascita di numerose chiese e cappelle. Nel XV secolo tutte le chiese minori dipendenti dal monastero di Sant'Ambrogio (e tra esse anche San Pietro in Sala) vennero riunite come sussidiarie in un'unica parrocchia (di Sant'Agostino).
Nel 1567 monsignor Ludovico Moneta compie una visita pastorale a San Pietro in Sala, su delega dell'arcivescovo, Carlo Borromeo. Dai documenti relativi a quella visita si apprende che all'epoca la chiesa serviva "16 focolari e circa 80 anime", e che il curato era don Bernardino de Bono.
Il 1º aprile 1581, a seguito di reiterate istanze di abitanti della zona, San Pietro in Sala ridiventa parrocchia, con una giurisdizione su tutto il territorio all'esterno di Porta Vercellina. Per l'occasione viene avviata la costruzione di una nuova chiesa, più ampia (22 braccia per 14, con tre altari e un battistero), terminata nel giro di pochi anni. Dal 1582 ne fu parroco l'oblato don Gerolamo Broggi.
La seconda e terza ricostruzione.
Nel 1838 la chiesa fu ricostruita, perché diventata insufficiente per la popolazione. Nella seconda parte dell’Ottocento si registrò un fortissimo incremento della popolazione con il sorgere della prime industrie. Un documento del 1857 parla di 55.000 anime. 
Incoraggiato dall’arcivescovo card. Ferrari, il prevosto Giuseppe Magnaghi, che resse la parrocchia per cinquant’anni, promosse la costruzione della nuova chiesa e delle opere parrocchiali. La nuova chiesa, costruita in due tempi, su progetto dell’ing. Antonio Casati e dell’arch. Oreste Benedetti, fu consacrata il 28 giugno 1924. L’edificio è in stile neoromanico, la pianta a croce latina a tre navate, con due cappelle alle estremità del transetto.

In piazza Wagner, nel 1929, venne costruito il mercato rionale.

 

 

 

San Pietro in Sala, 1910.

 

 

 

 

 

San Pietro in Sala, prima dell'arrivo del corteo funebre G.Verdi, 1901.

 

 

 

 

 

Piazza Wagner, 1901.

 

 

 

 

 

Piazza Wagner, 1901.

 

 

 

 

 

San Pietro in Sala, anni '10.

 

 

 

 

Pepp va pian. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

 

Piazza Wagner, mercato rionale, anni '30.

 

 

 

 

 

Piazza Wagner, mercato rionale, anni '30.

 

 

 

 

Sala. Il mercato di piazza Wagner, 1930.

 

 

 

 

Della canzone "Porta Romana" ne sono state fatte molteplici versioni.

Questa è de I Gufi.

 

 

 

 

 

E mi la dona biunda. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

Dopo la Porta e i due borghi storici ch'erano siti a est e ovest di corso Vercelli, ecco le foto d'epoca riguardanti il corso e vie/piazze confluenti.

 

La denominazione di corso Vercelli, dapprima Strada Vercellina, avvenne nel 1878, quando il Comune istituì ufficialmente i nuovi corsi oltre le Mura: Corso Loreto (poi Buenos Aires), Corso XXII Marzo, Corso Lodi, Corso Sempione, Corso Como, Corso San Gottardo e, appunto, Corso Vercelli.

 

 

 

 

 

 

El portafoej. I Gufi.

 

 

 

 

 

Nel 1932 Mario Camerini girò "Gli uomini che mascalzoni", una pellicola che vide protagonista Vittorio De Sica, fino ad allora conosciuto solo in teatro. Il film fu uno dei primi ad essere girato in esterni, anzichè, com'era abitudine, nei teatri di posa.
E poichè la storia di svolge per lo più (salvo qualche puntatina sul lago Maggiore, sponda piemontese) nell'operosa Milano degli anni trenta, ecco che per la prima volta la nostra città appare in un lungometraggio, mostrando nel corso della pellicola molti suoi scorci e luoghi caratteristici.
Il critico cinematografico Filippo Sacchi, dopo aver visionato il film, scrisse sul Corriere della Sera: "È la prima volta che vediamo Milano sullo schermo. Ebbene, chi poteva supporre che fosse tanto fotogenica? Camerini ha saputo cogliere con una finezza estrema certi inconfondibili momenti del volto e del movimento di Milano ed è riuscito a darcene, senza sforzo, il colore tutto lombardo, l'operosa vitalità".
La foto che qui ti propongo, è un fotogramma della scena girata in corso Vercelli.

 

 

 

 

 

 

1898.

 

 

 

 

El frate capuccino. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

 

 

1890.

 

 

 

 

 

Corso Vercelli.

 

 

 

 

 

Il ponte ferroviario. Frontalmente appare il nr.38 di corso Vercelli, edificato 1885-1889, chiamato "Casa Rotta" e progettata dall'arch. G.B. Bossi.

 

 

 

 

El polliroeu. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

 

Il ponte ferroviario, 1930-1935.

 

 

 

 

 

Anni '20.

 

 

 

 

 

Corso Vercelli, civico 56 o 62, 1935.

 

 

 

 

Toj on muradur. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

Vie e piazze confluenti al corso.

 

 

 

Via Belfiore angolo via Cherubini.

 

 

 

 

 

Via Belfiore.

 

 

 

 

 

Via Belfiore 15. Negozio di Capella Giuseppe, vetraio. 1898-1903.

 

 

 

 

Lasciar la morosa. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

 

Via Belfiore da piazza Wagner, 1923.

 

 

 

 

 

Via Belfiore verso scalo Sempione.

 

 

 

 

Via Belfiore civico 4.

 

 

 

 

La violetta. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

Via Cherubini, demolizione della massicciata ponte ferroviario.

 

 

 

 

 

Via Cherubini da corso Vercelli, 1930-1933.

 

 

 

 

Via Cherubini sullo sfondo.

 

 

 

 

 

Via Giovio, 1910.

 

 

 

 

El moletta. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

Piazza Piemonte, 1925.

 

 

 

 

 

Piazza Piemonte, 1920.

 

 

 

 

El gir del mund. Roberto Brivio.

Seconda versione.

 

 

 

 

 

 

Piazza Piemonte, 1933.

 

 

 

 

Piazza Piemonte, distributore di benzina, anni '20.

 

 

 

 

Piazza Piemonte, distributore di benzina, anni '20.

 

 

 

 

El magnano. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

El Gamba de Legn'

 

La storia del Gamba de Legn' (questa sarebbe la corretta ortografia milanese) inizia il 9 settembre 1878, con l'atto di concessione per la costruzione di una tramvia a vapore tra Milano e Magenta, di circa 23 km di lunghezza, con una diramazione da Sedriano a Càstano Primo. Un anno più tardi venne inaugurato il primo tratto della linea da Milano a Sedriano, cui seguì in breve tempo il completamento del percorso.
Per l'epoca si trattava di un mezzo di trasporto tecnologicamente molto avanzato, se confrontato con i tram a cavalli milanesi gestiti della SAO, in grado di trasportare una decina di persone, o con lo stesso tram di Monza, che restò ippovia per altri vent'anni, fino al 1900. Il Gamba de Legn', invece, poteva trasportare molti più passeggeri in diverse carrozze, ad una velocità commerciale di una decina di chilometri all'ora.
Le motrici originali erano prodotte dalla Lokomotivenfabrik Krauß e avevano una struttura completamente diversa da quelle ferroviarie: caldaia e apparato motore dovevano essere completamente avvolti da una carrozzeria per questioni di sicurezza ed il posto di manovra doveva essere situato nella parte anteriore della motrice per consentire al conducente una migliore visibilità. Da ultimo, pare che nella scelta delle motrici tedesche abbia pesato il fatto che emettessero un fumo meno denso delle locomotive di altri costruttori.
Il capolinea milanese fu situato inizialmente nell'odierna piazza Baracca e fu spostato all'interno del deposito carrozze di corso Vercelli 33 solo nel 1911.
La velocità massima del convoglio fu stabilita dal consiglio provinciale di Milano in:
- 15 km/h in campagna
- 10 km/h entro i confini di Milano
- 5 km/h in caso di nebbia, traffico o per motivi straordinari di ordine pubblico
- in caso di nebbia (fenomeno frequentissimo da queste parti - NdR) il convoglio doveva essere preceduto da un uomo a piedi con fischietto "che avvertisse del pericolo imminente"
Il prezzo dei biglietti all'inaugurazione del servizio era di 5-7 centesimi di lira per chilometro in prima classe e di 4 centesimi di lira per chilometro in seconda.
Partito da corso Vercelli, il Gamba de Legn' faceva la prima fermata nel sobborgo di San Pietro in Sala (l'odierna piazza Wagner, fermata della linea 1 della metropolitana), limite estremo dell'abitato di Milano, quindi proseguiva per la Maddalena, l'Isola Europa e il Molinazzo fino ad arrivare all'abitato di Trenno (M1 Lampugnano!). Il Gamba de Legn' proseguiva quindi per Bagggio, Cascina Olona, San Pietro all'Olmo e Sedriano, ove era situato lo "scambio", ossia la diramazione per Càstano. Il ramo principale della linea proseguiva per Vittuone (paese con ben due fermate), Corbetta e Magenta. Ben più interessante, a detta di alcune fonti dell'epoca, era invece il ramo diretto a Inveruno e Càstano, che attraversava le zone di coltivazione del gelso per l'alimentazione dei bachi da seta.
I passeggeri del Gamba de Legn' furono soprattutto i pendolari, anche se durante la seconda guerra mondiale non furono pochi gli sfollati che tornavano a Milano durante il giorno per il lavoro, tant'è che vennero recuperati tutti i carri merci disponibili per trasportare le persone e, nonostante questo, molto spesso di doveva viaggiare sul tetto delle vetture.
Negli anni immediatamente prima della guerra, il servizio era gestito dalla "Società del Tramvai Milano Castano" e venivano effettuate cinque corse al giorno, nel 1950 le corse erano salite a 6 per Magenta e Càstano e 5 ulteriori solo per Magenta, l'ultima delle quali alle 0.40, dopo l'orario di chiusura di cinema e teatri. Nel 1954 le corse furono ridotte a 5 per Magenta, solo nelle ore di punta, con il servizio sostitutivo di autobus e con la chiusura del ramo per Càstano avvenuta nel 1952. Il destino del tram a vapore era segnato: gli abitanti delle zone attraversate dal Gamba de Legn' si opposero all'elettrificazione della linea, il servizio fu limitato a Corbetta, poi a Vittuone e, il 30 agosto 1957 soppresso completamente per essere sostituito da autobus articolati.
Per finire, una curiosità: il Gamba de Legn' (che è già un soprannome) a porta Magenta era chiamato con il nomignolo "S'gic" (pronuncia s-gick), di etimologia incerta, ma di probabile significato "stantuffo".

 

 

 

Deposito capolinea di corso Vercelli 33.

 

 

 

 

 

Deposito capolinea di corso Vercelli 33.

 

 

 

 

 

Portone deposito capolinea corso Vercelli 33.

 

 

 

 

 

Uscita del Gamba de Legn' da corso Vercelli 33.

 

 

 

 

La balilla. I Gufi.

 

 

 

 

 

 

Il Gamba de Legn' alla partenza dal deposito capolinea.

 

 

 

 

 

Il Gamba de Legn' sempre alla partenza.

 

 

 

 

 

Il Gamba de Legn' passa da corso Vercelli 38.

 

 

 

 

 

El Gamba de legn' in corso Vercelli verso piazza Piemonte. Probabilmente durante la II guerra con il treno pieno di sfollati.

 

 

 

 

E con la cicca in bocca. Nanni Svampa.

 

 

 

 

La mensa coletiva. Nanni Svampa.

 

 

 

 

 

E ora trasferiamoci all’Ortica.


Quelle che propongo sono due chicche “rubate” all’osteria Gatto Nero dell’Ortica il 31.01.2003, durante una cena conviviale.
Ricordo Attilio “El Tiglìn” Rusconi, oste del Gatto Nero (l’originale non quello che ancor oggi mantiene lo stesso nome) quando nell’intervallo di lavoro bigiavamo dalla mensa per andare a mangiare la polenta nella sua osteria.
Prima delle “chicche”, una breve intervista del 2014 a El Tiglìn.

 

 

 

El Tiglìn

 

 

“Certo, nel 1968 l'Ortiga l'era tuta na zona di balordi e la scighera, la burdiga, la nebbia insomma, ghe n'è minga ades”. A parlare è l'Attilio Rusconi (76 anni), e l'articolo davanti al nome in questo caso è una regola: siamo alla periferia Est di Milano, nel quartiere raccontato da Jannacci, “in cui fare il palo l'era un mestè” conferma Attilio, che nel 1968 aprì l'Osteria del Gatto Nero, in via Ortica: “vivevo lì, nel ristorante. Avevo anche 10/15 cavalli, pecore, maiali, e un babbuino”. Alpino, allevatore e ristoratore, Attilio da poco più di un anno ha lasciato l'Ortiga e il vecchio Gatto Nero “perché ora l'affitto è diventato troppo alto”. Certo, è finita l'epoca in cui gli operai che lavoravano alla Richard Ginori passavano al Gatto Nero anche prima di entrare in azienda “per un caffè o un grappin” (ora dall'ex fabbrica sono stati ricavati dei loft). È finita l'epoca in cui Jannacci, Bobo Craxi, Nanni Svampa e Tognoli “venivano da me appena avevano qualcosa da festeggiare” continua l'Attilio. “Celentano no, quello non si vedeva, ma Vallanzasca sì, è venuto a mangiare qui. Era una persona per bene”. Davvero? “Certo, ma guarda che qui passavan tutti: ladri, puttane. La polizia mai. Eppure c'era un equilibrio: mai nessuno ha rotto le palle”.

L’audizione della versione integrale de “El gir del mond” (terza versione) è vivamente sconsigliata ai timorati di dio, pudici e anime belle. E’ la versione “pirata” che potevi trovare su un disco 45 giri negli anni ‘60/70 solo sulle bancarelle della fiera di Sinigaglia. Per entrambe le "chicche" la qualità audio è mediocre.
 

 

El gir del mond. Alla chitarra Antonio Mastino, canta il notaio Pier Achille.

 

 

 

 

 

El toreador. Alla chitarra Antonio Mastino, canta il notaio Pier Achille.

 

 

 

 

 

 

 

Ecco il dizionario milanese-italiano e viceversa dell'Angiolini, 1896.

 

Clicca sulla copertina per scaricare il pdf.

 

 

 

 

 

La povera Rosetta. Nanni Svampa.

 

 

 

“La povera Rosetta” è una canzone della “ligera” (la malavita milanese di un tempo) ispirata dalla storia vera di una giovane prostituta (Elvira Andrezzi, ma i giornalisti la chiameranno quasi sempre Andressi) morta a Milano nel 1913 in circostanze poco chiare e pianta al funerale da parenti, amici e "non poca gente del quartiere ove abita la famiglia".
Riporto l’articolo pubblicato dall’”Avanti!” il 28 agosto 1913 sull’accadimento dei fatti, interessante esempio di controinformazione.

 

Come e perché è morta una giovane canzonettista.
Può una pastiglia di sublimato uccidere una donna in poche ore?
Narrammo ieri (secondo la versione che all’ultima ora, quando non ci era più possibile di controllare l’autenticità, venne dalla questura comunicata ai giornali) la colluttazione avvenuta al Largo Carrobbio fra un gruppo di giovanotti ed alcuni agenti di pubblica sicurezza. Dicemmo che la ragazza Elvira Andressi di anni 19, tratta in arresto, non appena montata in vettura per essere tradotta a S. Fedele, aveva tentato di suicidarsi, ingoiando tre pastiglie di sublimato, due delle quali però sputò subito.
Un tragico punto interrogativo.
All’Ospedale Maggiore, dove le fu immediatamente praticata la lavatura gastrica, si riscontrò che la Andressi aveva soltanto simulato il suicidio; ma poichè gli agenti Musti e Leoni, che ve l’avevano accompagnata, insistevano nel voler far credere che la disgraziata avesse ingoiate chi sa quante pastiglie di sublimato, sul registro del posto di guardia dell’Ospedale venne scritto: “Ore 1,30 [probabile, parzialmente illeggibile, n.d.r.] -Elvira Andressi di anni 19, abitante in via Gaudenzio Ferrari 7, a scopo suicida ingoiava 3 pastiglie di sublimato corrosivo (?). Lei dice perché arrestata. Accompagnata dalle guardie Musti e Leone.”
Il punto interrogativo che c’era sul registro, stava a significare che delle tre pastiglie di sublimato -due delle quali già dall'Andressi sputate- nessuna traccia era stata rinvenuta in seguito alla lavatura gastrica. Tale interpretazione trova esatto riscontro nelle informazioni fornite ieri mattina dall’Ospedale Maggiore, ai cronisti del “Secolo”, che riportando i particolari del suicidio scriveva: “Come la donna fu in carrozza ingoiò alcune pastiglie di sublimato. Ma come fu arrivata alla casa di salute si poté stabilire che la ragazza aveva simulato il suicidio: infatti, aveva sì cercato di ingoiare alcune pastiglie di sublimato, ma le aveva subito sputate, non appena sentitone il sapore… velenoso.”
Sullo stesso registro, più tardi, veniva scritto, lateralmente al brano riportato, questa semplice frase: “Morta alle ore 11.30.”
Ecco che il punto interrogativo acquista un significato tragico: rimane lì non più a testimoniare soltanto che la disgraziata Andressi, aveva simulato il suicidio: ma, segnato lì per caso, esso sembra ingigantire e chiedere la chiave del mistero della morte -dopo dieci ore di sofferenze, dopo una agonia atrocissima- di una giovane donna.
La morte impreveduta di Elvira Andressi ha mutato il tono delle informazioni che si danno in questura, ed il posto di guardia dell’Ospedale. Ora si dice che le pastiglie di sublimato sono state parecchie e si dipinge con i colori più foschi la vittima. E si crede di gettare chi sa quale luce infamante sulla sciagurata, dichiarando che ella era amica della Mazzagalia, di colei che fu assassinata in via Revere senza che la polizia potesse riuscire a scoprirne l’assassino. La Andressi era amica della Mazzagalia? Ebbene noi non potremmo trarre da tale indicazione che una amara considerazione: ella è caduta vittima di uno stesso tragico destino.
La vittima.
Elvira Andressi era una povera ragazza del popolo, troppo presto vinta dalle tentazioni del lusso e, forse, del vizio. Ma, tuttavia, giovanissima e molto bella, ella volle tentare di sottrarsi al mondo equivoco nel quale era caduta: non forse, per redimersi, ma certo per non precipitare, ogni giorno di più, nella voragine dei bassifondi.
Molta grazia, molta verve, una graziosa voce: le parvero le qualità necessarie per migliorare la sua sorte e studiò per debuttare come canzonettista. Col nome di Rosetta ella era conosciutissima: aveva cantato al San Martino, raccogliendo molti ammiratori se non un grande successo. Poi aveva ottenuto delle scritture per i teatri di varietà di altre città d’Italia.
Così le era stato possibile di prendere in fitto un quartierino di quattro stanze in via Gaudenzio Ferrari sette (e non sei, come si era detto) dove riceveva i suoi ammiratori.
La sua carriera di canzonettista era a questo punto: lunedì scorso aveva terminato una breve scrittura al San Martino, ma avrebbe dovuto far parte dello spettacolo di tale ritrovo anche questa sera giovedì, e domani sera. Per il primo settembre era scritturata in un caffè-concerto di Genova.
Tutto questo la questura lo sapeva: ella -a quanto ci è stato riferito- si era provvista di una tessera per gli artisti che la questura rilascia per le riduzioni ferroviarie. Poche sere or sono, mentre la Andressi si recava in via S. Giovanni in Conca 2 -dove abita un suo fratello per nome Luigi- la squadra del buon costume la fermò per trascinarla in guardina: ma la Rosetta mostrò la tessera di riconoscimento e potè così dimostrare che, ormai, la sua condizione era, in certo modo, mutata. Fu lasciata libera di proseguire, poiché ne aveva il diritto: ella tornava dal San Martino e si recava a casa senza compiere alcuna opera di adescamento. Tuttavia gli agenti si mostrarono delusi: la graziosa preda sfuggiva ora, come era sfuggita quando avendola accusata di complicità con uno dei responsabili del famoso furto in danno dal gioielliere Archenti, dovettero rilasciarla, nulla essendo risultato a suo carico.
Il prologo.
Narriamolo. Al largo Carrobbio, martedì notte, verso il tocco, [la una di notte n.d.r.] la Andressi era ferma con altre due donne e con quattro giovanotti. Forse cantavano -questa affermazione della questura è smentita da parecchi abitanti di piazza Carrobbio che, dalle finestre assistettero al fatto- certo che la Andressi era diretta a casa di sua sorella maritata che abita in via Vetraschi 22. Due agenti in divisa della III sezione di P.S. si avvicinarono alle donne ed ai quattro uomini, intimando loro di circolare. Ma il gruppo non si arrese all'invito. I due agenti, dopo aver parlamentato vivacemente, con gli uomini, si allontanarono. Poco dopo, da via Torino, sopraggiunse un pattuglione della squadra mobile composto di oltre venti agenti parte in divisa e parte in borghese: gli agenti della III Sezione si unirono al pattuglione, muovendo così all’assalto dei giovanotti, e delle donne. Essi furono invitati nuovamente ad allontanarsi: ma ancora si rifiutarono affermando che di nulla si erano resi responsabili.
Il rifiuto inasprì gli agenti che, forti anche del numero si scagliarono velocemente sui malcapitati: le guardie in divisa estrassero le daghe e distribuirono piattonate all’impazzata. Le grida avevano richiamato delle persone dalle varie strade adiacenti persone che restarono in distanza, come semplici testimoni: e molta gente era, svegliatasi, accorsa alle finestre.
E' così che ci risulta, che quando le guardie in divisa estrassero le daghe, la prima piattonata colpì al petto la Andressi con tanta violenza che la disgraziata ebbe un grido di spasimo e cadde al suolo svenuta.
Ben presto, però, i numerosissimi agenti tratti in arresto i quattro uomini si disposero per accompagnarli a San Fedele.
Intanto, fra la gente che era accorsa, vi era anche un fratello della Rosetta. Arturo Andressi, facchino del Verziere il quale -a quanto ci è stato da tutti i suoi conoscenti assicurato- è incensurato. Egli attendeva -era già il tocco- l’ora di recarsi al mercato.
L’Arturo è un povero zoppo, debole e deforme. Quando si accorse che la sorella era caduta semi svenuta, si rivolse a due altri giovanotti del quartiere, anch’essi spettatori, pregandoli di aiutarlo a soccorrere la Rosetta.
Infatti i due giovanotti e l’Arturo si affrettarono a rialzare la disgraziata: e quando si fu riavuta si incamminarono con lei verso piazza Vetra. Gli agenti, con i quattro arrestati si erano già allontanati.
La vigliacca aggressione.
Giunti che furono in piazza Vetra i tre uomini e la Rosetta si fermarono: la donna era ancora sotto l’impressione della scenata svoltasi poco prima e tremante e dolorante per la piattonata ricevuta.
Prima di procedere per via Vetraschi e recarsi in casa della sorella, ella si era soffermata a parlare ancora con i due giovani e col fratello, appoggiandosi alla ringhiera di ferro che divide l’antica piazzetta del mercato della via Vetraschi, sottostante di circa due metri. Lo zoppo, rimproverava alla sorella di non essersi subito allontanata alle intimidazioni dei poliziotti.
Improvvisamente irruppero otto o dieci agenti del pattuglione di poco prima, i quali separatasi dagli altri agenti che accompagnavano gli arrestati, avevano seguita la Rosetta e il fratello. E fu contro l’Arturo, questo sciagurato zoppo, debole e deforme, che gli agenti si scagliarono, afferrandolo brutalmente e percuotendolo. Così malmenato lo zoppo, che invano gridava di non essersi trovato al Largo Carrobbio che per soccorrere la sorella, cadde al suolo e fu tempestato di calci, mentre gli altri due, che avevano tentato di intervenire in difesa del disgraziato, erano già stati dichiarati in arresto e ammanettati.
“Ammazzatela, è una prostituta.”
Quando la Andressi vide l’innocente innocuo e malaticcio fratello così brutalmente aggredito non potè fare a meno di gridare: “Lasciatelo! Vigliacchi! E' un povero zoppo! Non vedete che è uno zoppo!”
Le grida della donna non fecero che inasprire maggiormente gli eroici poliziotti, i quali abbandonata per un momento la preda, si scagliarono ormai accecati da una brutalità cieca e bestiale, sulla Rosetta.
Uno degli agenti aveva estratta la rivoltella e col calcio di essa colpì al petto la povera donna che barcollò, tramortita e cadde riversa con la testa sul selciato: un colpo sordo, che sembra le abbia prodotto una ferita alla nuca.
A questo punto, mentre i tre arrestati fremevano di sdegno sopraggiunsero altri agenti, uno dei quali gridò: “Ammazzatela: è una prostituta!”
Gli aggressori ascoltarono il bieco incitamento: la donna fu colpita da violentissimi calci, uno dei quali alle parti genitali, che le fece emettere un acuto grido di spasimo: poi, la povera vittima, pianse, scongiurò di risparmiarla. Ma invano: la poliziottaglia ormai non aveva più alcun ritegno. Dalle finestre si udirono animati e ostili commenti: gli agenti, con le rivoltelle in pugno, intimarono a tutti di rientrare e chiudere le finestre; non volevano testimoni. E si udì un frastuono di vetrate chiuse in fretta…
Il tentato suicidio?!
Poi la Rosetta fu sollevata di peso e trasportata in piazza Carrobbio. L’infelice gemeva, più morta che viva: i segni della violenza erano impressi sul debole corpo.
Gli agenti dovettero avere un attimo di indecisione e di perplessità: quella disgraziata non poteva essere trasportata a San Fedele.
Ella era ridotta in uno stato pietoso. Si volle, allora, simulare un tentativo di suicidio? Si pensò di dire che la donna aveva ingoiato delle pastiglie di sublimato? Certo è che, adagiata in una vettura, gli agenti la fecero trasportare in una vettura direttamente all’Ospedale Maggiore -e non alla più vicina guardia medica di via Cappellari: perchè?- dove dichiararono che la Rosetta aveva ingoiato delle pastiglie di sublimato.
Quante? Tre: ma due la aveva subito sputate!
Ci è stato assicurato che la povera Andressi portava, è vero, spesso con sè alcune pastiglie di sublimato: ma teneva il tubetto nascosto sotto la sottoveste; appare dunque molto strano che, presa stretta fra gli agenti, abbia potuto liberamente slacciarsi, per venire in possesso del veleno.
La morte.
Ieri mattina Luigi Andressi si recò invano all’Ospedale Maggiore: non vollero fargli vedere la Rosetta. Solo più tardi permisero ad una sorella della disgraziata di assistere l’infelice, ormai in condizioni gravissime.
Abbiamo parlato anche con la sorella, che si chiama Maria, e che l’altra notte dalla finestra aveva assistito alla selvaggia scena. Ella ci ha dichiarato che la Elvira, ormai sfinita, altro non diceva che: “Mi hanno ammazzata! Mi hanno ammazzata!”
Senza far parola del tentativo di suicidio ed accusando atroci dolori alle parti genitali, al basso ventre e alla nuca. La Maria vide su un braccio della infelice una larga echimosi.
Alle ore 11.30 Elvira Andressi spirò. La sorella chiese invano il permesso di visitare il corpo della disgraziata.
Per una perizia necrologica.
La morte di questa giovane donna non può giustificarsi col tentativo di avvelenamento: di tre pastiglie di sublimato ella -pure accogliendo l’ipotesi del suicidio- non ne avrebbe ritenuta che una. E non si è mai dato il caso di una morte così rapida, per una tanto esigua quantità di veleno. Noi chiediamo, che sia ordinata dall'autorità giudiziaria, una perizia necroscopica, per accertare le cause di questa repentina morte, che non si può con tanta leggerezza, attribuire all'azione venefica di una o due pastiglie di sublimato. Che la Rosetta sia stata una povera creatura del vizio, non conta.

 

 

 

 

El ridicul matrimoni. Nanni Svampa.