Genar 2023. Zoo umani.
Congo belga, 1955.
"El mestée" riporta l'intro e un capitolo del volume "Uomini in gabbia". Libro che narra eventi sconcertanti e rivoltanti, dovuti alla arroganza razziale, culturale e religiosa dei "bianchi".
Il disprezzo per la mia "razza" non avrà mai fine.
L’ultima assurda esposizione fu allestita nel 1958 in Belgio, a Bruxelles, durante una fiera mondiale. Nella capitale belga fu ricostruito un villaggio del Congo.
Vi sono immagini incredibili, purtroppo non trovate nel web, che conducono sul sentiero del vomito: si distinguono chiaramente attempate e sorridenti signore di mezza età lanciare banane ad una bimba, proveniente dal Congo, che cammina sorridente verso di loro. Ho trovato solo questa: la bimba non cammina verso le vecchie megere bianche, ma rinchiusa in un recinto riceve qualcosa da una vecchia megera.
Intro.
Dal 1870 al 1940 l'Europa e gli Stati Uniti celebrarono le magnifiche sorti del mondo occidentale sul palcoscenico delle Esposizioni universali. Poco distante, nei villaggi etnici ricreati accanto ai padiglioni, andava in scena uno spettacolo angosciante: neri armati di lance, donne con i bambini al collo, pigmei, eschimesi, indios, tutti esposti perché i bianchi, i colonizzatori, potessero ammirarli o schernirli, sicuri come erano -come, forse, ancora siamo- del primato della razza bianca, del suo diritto a conquistare e dominare le altre razze.
C’è Sarah, l'ottentotta dalle forme inusualmente pronunciate, esibita come una pruriginosa eccentricità biologica e poi studiata e sezionata come una cavia da laboratorio.
C’è il pigmeo Ota Benga che, nel recinto degli animali, non può sorridere a meno che i visitatori non paghino qualche dollaro per vederne i denti aguzzi.
C'è capo Geronimo, mostrato vinto e sconfitto perché nessuno dimentichi mai l'inferiorità de gli indiani d'America.
E ci sono le altre migliaia di esseri umani i cui nomi non sono mai stati registrati, tanta era la considerazione riservata alla loro dignità personale.
A una prima, superficiale analisi può sembrare un fenomeno lontano nel tempo, da cui la nostra società ha ormai preso le doverose distanze, ma l'ultimo zoo umano risale al 2005, e il turismo della povertà che tanto successo riscuote in questi ultimi anni ripropone la medesima logica. La stessa che traspare dalle fotografie dei soldati americani che ridicolizzano e abusano dei prigionieri di guerra, e da programmi come “Lo Show dei Record”, dove l'alterità è oggetto di compiacente paternalismo, quando non di curiosità morbosa.
Senza mai ritrarsi davanti agli aspetti più sgradevoli e spietati di queste pratiche, e anzi affrontandoli con acuminata lucidità, Viviano Domenici racconta il lato oscuro delle Esposizioni universali, dell'epoca che le produsse -quella fin de siede che fu si l'era del Positivismo e della fiducia nel futuro radioso dell'umanità, ma anche dei freak show- e di una mentalità, precipuamente occidentale e tutt'oggi radicata, che da sempre vede gli Altri come animali da ammaestrare, barbari da civilizzare, sudditi da conquistare.
Josè fuegino esposto come cannibale.
La storia di José è riassunta in un’immagine in cui si vedono nove indios coperti di pelli e un signore con giacca, bombetta e frustino che ricorda un domatore orgoglioso dei suoi animali addomesticati. Tutti in posa per la foto di scena. Il protagonista di questa vicenda, in piedi accanto all’uomo, è José Calafate, un bimbo di otto-nove anni del popolo “selk'nam” (noto anche come “ona”), rapito con la sua famiglia nel Canale di Magellano, imbarcato su una baleniera e portato in Europa per essere esibito all’Esposizione universale di Parigi del 1889. Chiuso insieme ad altri in una gabbia con il cartello: CANNIBALI.
Una vicenda drammatica che lasciò tracce in Francia, Belgio, Inghilterra e soprattutto in Italia, grazie agli scritti dei missionari salesiani impegnati in quegli anni a salvare anime nella Terra del Fuoco ed esporre in patria i risultati del loro lavoro; anche a costo di portare per la seconda volta José nel Vecchio Mondo, per esibirlo come selvaggio cristianizzato e civilizzato all’Esposizione delle missioni cattoliche di Genova, del 1892, e accompagnarlo poi a Roma per il bacio della pantofola di papa Leone XIII, prima di rimpatriarlo.
Nella Terra del Fuoco, il prelievo di individui da mostrare agli europei aveva già una lunga storia, ma il caso più noto risale al 1828, quando l’inglese Robert FitzRoy, comandante del brigantino Beagle, impegnato in rilevamenti idrografici nell'intrico dei canali della Terra del Fuoco, sequestrò quattro indios delle etnie “alacaluf” e “yamana” -“battezzati” York Minster, Boat Memory, Jemmy Button (un quattordicenne) e Fuegia Basket (una bambina di nove anni)- per trasferirli in Inghilterra, civilizzarli, evangelizzarli e quindi ricondurli in quelle lande ghiacciate affinché diffondessero il Verbo tra i selvaggi loro conterranei.
Una sperimentazione in vivo che durò un paio di anni, durante i quali i tre indios (Boat Memory morì quasi subito di vaiolo) furono esibiti, studiati e invitati nei salotti bene di Londra, fino a essere ricevuti a corte, dove il re Guglielmo IV e la regina Adelaide li accolsero con curiosità e qualche regaletto. Finché arrivò il giorno di ripartire per la Terra del Fuoco e sul brigantino di FitzRoy, oltre agli indios “civilizzati”, s'imbarcò anche l'allora giovane naturalista Charles Darwin. Quando la nave si fermò all'Isola Navarino –nell’attuale Canale di Beagle- e lo scienziato vide un gruppo di fuegini allo stato originario, li descrisse dicendo che avevano “un aspetto e un'espressione diffidente, stupita e spaventata”, notando poi come il regalo di un pezzetto di stoffa rossa li trasformasse rapidamente in “buoni amici”; altri indios incontrati successivamente gli sembrarono invece “le creature più miserevoli della Terra”. Insomma, non gli fecero una buona impressione.
L’esperimento di FitzRoy era entrato nella seconda fase e, sbarcati i tre fuegini, il Beagle risalì la costa sudamericana del Pacifico fino a raggiungere l’arcipelago delle Galapagos, dove iniziò il viaggio di ritorno. Un anno e un mese dopo aver lasciato l’Isola Navarino, FitzRoy attraccò nuovamente in prossimità del villaggio per rivedere i suoi indios civilizzati, constatando però che due erano scappati chissà dove e Jemmy Button, il più anglicizzato dei tre, aveva ripreso il vecchio stile di vita, e persino nell’aspetto sembrava il selvaggio di un tempo. Visto il fallimento del suo sogno civilizzatore, il capitano propose a Jemmy di tornare in Inghilterra, ma lui rifiutò, decisione che Darwin attribuì al fatto che ormai viveva con Lassaweea, una “giovane e affascinante moglie”.
Di Jemmy Button non si sentì più parlare fino al 1855, quando un fuegino grasso e trasandato si avvicinò a un'imbarcazione della Società missionaria della Patagonia chiedendo a gran voce, in inglese, di abbassare la scaletta per poter salire. Era Jemmy che, appena arrivato a bordo, volle indossare abiti occidentali e mangiare seduto a tavola con forchetta e coltello, con grande soddisfazione dei missionari, che intravidero subito la possibilità di utilizzarlo come mediatore tra loro e i fuegini ancora allo stato selvaggio. Grazie alla conoscenza di un po' di inglese, Jemmy divenne anche un punto di riferimento per tutti i naviganti di passaggio, ai quali bastava gridare il suo nome tra isole e canali per vederlo apparire, pronto a collaborare in cambio di qualche regalo. Sembrava proprio che Jemmy stesse lentamente rientrando nella civiltà, tanto che accettò l’invito dei missionari a trasferirsi con la famiglia e altri indios sull’isola di Keppel, a nord delle Falkland, dove era in costruzione la sede della missione. Qui Jemmy e i suoi furono costretti a lavorare sodo per un po’ di cibo e vecchi vestiti, un trattamento che suscitò scontento e ripetute richieste, sempre ignorate, di essere riportati nel loro territorio. Finché le proteste sfociarono in una violenta rivolta e otto missionari ci lasciarono la pelle. Era il 1859. Le successive indagini dei religiosi non chiarirono chi fossero gli autori del massacro, ma uno dei testimoni disse che il capo della sommossa era proprio Jemmy Button, il quale morì cinque anni più tardi, libero ma deluso dal mondo dei bianchi.
Dopo FitzRoy, la Terra del Fuoco vide passare altre navi e altri viaggiatori, i quali ebbero sporadici e non sempre amichevoli contatti con gli indios (7000-9000 individui appartenenti a cinque etnie) che da diverse migliaia di anni vivevano a sud dello Stretto di Magellano, un ambiente difficile al quale si erano comunque ben adattati. Per loro le cose si fecero più complicate a partire dal 1877, quando un inglese dette inizio all’importazione di pecore: nel giro di pochi anni la creazione di grandi allevamenti richiamò sempre più coloni e mandriani. Il fenomeno provocò un immediato conflitto tra due mondi profondamente diversi: da un lato indios nomadi abituati da sempre a prelevare dal loro ambiente quanto serviva per sopravvivere senza dover chiedere il permesso a nessuno, dall'altro coloni profondamente legati all'idea della proprietà privata, appena conquistata, e decisi a difenderla a suon di fucilate. Cosa che fecero appena gli indios scoprirono che le pecore erano più saporite dei guanachi e iniziarono a rubarne qualcuna, anche perché il lama australe -loro tradizionale fonte di cibo oltre alle foche e alle otarie- era ormai diventato il bersaglio dei nuovi arrivati attratti dalla sua lana, più pregiata di quella dell'alpaca.
La caccia all’indio era cominciata e divenne ancora più spietata quando, nel 1883, qualcuno si accorse che le sabbie di quelle spiagge gelide erano ricche di polvere d’oro. La notizia fece rapidamente il giro del mondo e richiamò cercatori, trafficanti e avventurieri di ogni risma, tutti determinati ad arricchirsi a ogni costo, anche togliendo di mezzo quegli ostacoli naturali chiamati indios.
Un personaggio che si distinse subito per ferocia e capacità imprenditoriali fu Julius Popper, un ingegnere di origine rumena che, con tutti i permessi in regola e l'aiuto concreto del governo di Buenos Aires, tra il 1885 e il 1887 installò nell’Isola Grande i suoi impianti per l’estrazione dell’oro, che lavavano le sabbie aurifere sfruttando l'azione alternata delle maree.
Questa idea geniale arrivò ad assicurargli fino a mezzo chilo d'oro al giorno. Tanta ricchezza gli permise di crearsi un regno personale, El Paramo, di cui si proclamò sovrano emettendo francobolli e battendo moneta, d’oro, naturalmente. Il governo argentino, oltre all'appoggio politico ed economico, gli assegnò un plotone di militari che formò il nucleo principale del suo piccolo esercito in divisa “asburgica”, al comando dell’ex-generale tedesco Fritz Novak, con il quale tenne a bada a fucilate altri cercatori d’oro e dette la caccia agli indios “selk'nam”, facendosi fotografare accanto ai loro cadaveri distesi tra le sterpaglie della brughiera. Immagini che poi riunì in un elegante album rilegato in pelle da donare al presidente della Repubblica, a testimonianza della sua campagna di civilizzazione nelle terre infestate da indigeni con “allarmanti tendenze comunarde”, come dichiarò a Buenos Aires davanti a un'assemblea di finanziatori. Finché morì, nel 1893, probabilmente ammazzato da uno dei suoi scherani.
Ma la carneficina non si interruppe, anzi. I grandi allevatori -estanceros- capirono che per togliere di mezzo gli indios, recidivi ladri di pecore e difficili da assoggettare, occorrevano veri professionisti e una diversa strategia. Alcuni decisero di pagare 5 sterline a chi riusciva a catturare un indio e consegnarlo ai missionari, ormai insediati nella Terra del Fuoco, ben felici di trattenerlo e cristianizzarlo; altri, con meno scrupoli, offrirono una sterlina per ogni indigeno ucciso (dimostrando così che era più semplice ammazzarli che costringerli a vivere nelle missioni). Taglie che attirarono pistoleri da tutta l’Argentina, dal Cile e da diversi paesi europei, Italia compresa.
Per riscuotere la suddetta ricompensa, il cacciatore di indios doveva dimostrare di avere ucciso l'indio consegnando un paio di orecchie; dopo qualche tempo, però, i mandanti si accorsero che in circolazione si vedevano indios senza orecchie e capirono che qualcuno bluffava limitandosi al piccolo prelievo, per incassare il premio senza ammazzare nessuno. Da allora i killer dovettero certificare le uccisioni con la consegna della testa delle vittime, oppure dei testicoli o dei seni.
Alla morte del rumeno Julius Popper, il suo “regno” passò nelle mani dello spagnolo José Menendez, che vi creò due grandi estancias affidandone la conduzione ad Alexander McLennan, detto Chancho Colorado ovvero Porco Rosso, un ubriacone scozzese dai capelli rossi e dai lineamenti marcati che si distinse per l'assoluta mancanza di scrupoli morali, tanto da sostenere che sterminare gli indios era una buona azione nei loro confronti, dato che erano comunque destinati a crepare di morte lenta nelle missioni. Un assassino che Esteban Lucas Bridges, figlio di un missionario anglicano, nato e vissuto molti anni nella Terra del Fuoco accanto agli indios, conobbe personalmente e descrisse nel libro “Ultimo confine del mondo”:
“Armati di fucili a ripetizione, impazienti ed eccitati, il signor Mclnch (cosi lo chiama Bridges, N.d.A.) e una banda di uomini bianchi a cavallo circondarono il promontorio, tagliando così la strada agli sfortunati (indios) cacciatori di foche i quali, quando salì la marea, furono sospinti dal loro riparo ai piedi della scogliera tra le braccia degli smaniosi cacciatori di uomini. Non so quanti nativi morirono quel giorno. Mclnch affermò più tardi che ne avevano ammazzati quattordici. Egli sosteneva che ucciderli era un atto assai umanitario, se uno aveva lo stomaco per farlo. Ragionava che quella gente non avrebbe mai potuto vivere insieme all'uomo bianco; che era crudele tenerli prigionieri in una missione dove avrebbero tristemente languito o sarebbero morti di qualche malattia forestiera; e che prima venivano sterminati, meglio era.”
Un punto di vista sconcertante, che nasceva, oltre che dall’abietto cinismo dello scozzese, anche dalle reali condizioni degli indios sotto la tutela dei missionari. Certamente i salesiani operavano con le migliori intenzioni, convinti di dover portare la vera fede e la civiltà tra i selvaggi -un antico vizio tutt'oggi vivo non solo tra i religiosi-, ma di fatto la loro azione contribuì a sterminare i fuegini con la stessa efficacia degli assassini armati di fucile. I loro strumenti di morte furono vestiti e coperte, nuovi cibi, navi e rifornimenti, arrivi di personale da paesi lontani: tutti agenti portatori di malattie e infezioni che si propagavano all'interno delle missioni dove gli indios erano riuniti a centinaia. A questo vanno aggiunti i danni, tutt’altro che secondari, prodotti dall'aver irreggimentato e rinchiuso un popolo fino ad allora vissuto libero in piccoli gruppi familiari dispersi in un territorio vastissimo. Insomma, una distruzione fisica, psicologica e culturale di proporzioni tali da aver contributo in maniera determinante alla scomparsa dei fuegini. “Non vi resta che assisterli nell'agonia” suggerì profeticamente papa Leone XIII ai salesiani impegnati nella Terra del Fuoco.
Ma sia i missionari sia gli assassini di professione erano convinti della bontà della propria opera. Come l'inglese Sam Hyslop, che si definiva “il più grande cacciatore di indios della Patagonia” e affermava di utilizzare per il suo cavallo, e per altri impieghi, strisce di cuoio realizzate con la pelle degli indios che aveva personalmente ucciso. Di molti altri killer si sono dimenticati i nomi ma si ricordano le stragi compiute avvelenando la carne di balene spiaggiate e aspettando che gli indios la mangiassero; lo stesso metodo era utilizzato con carcasse di pecore che poi venivano abbandonate nelle vicinanze degli accampamenti. Il risultato era uguale: morti a decine.
Lo denunciò con forza anche José María Borrero, noto avvocato e politico spagnolo che per anni lavorò in Patagonia occupandosi anche delle lotte operaie e del genocidio degli indios fuegini. Protagonista di uno degli episodi più drammatici da lui riportati è un cercatore d'oro italiano che, mentre inseguiva a cavallo un guanaco ferito trai cespugli della brughiera, sentì un odore nauseabondo scoprendo il cadavere in decomposizione di un indio orribilmente mutilato; guardandosi attorno ne trovo un altro e poi un altro ancora, arrivando a contare un'ottantina di corpi nelle stesse condizioni. Sconvolto, l'italiano si rifugiò a Punta Arenas dove, dice Borrero, “tremante di terrore e come cercando di allontanare da sé l'orribile visione che lo perseguitava, raccontava a chiunque lo volesse ascoltare il raccapricciante episodio”.
E. Lucas Bridges descrisse molto bene la mentalità di questi cacciatori di uomini, ma non risparmio critiche all'azione dei missionari salesiani, pur senza citarli: “Per loro [i cacciatori, N.d.A.] i fuegini non erano persone, individui da trattare come nostri simili oltre che secondo i rispettivi meriti, ma un'indistinta orda di indigeni pericolosi e selvaggi, da spazzare via il più rapidamente possibile o, se si volevano usare espedienti meno violenti, da spogliare degli ornamenti tradizionali, infilare in vestiti smessi dall’uomo bianco e costringere a lavorare per guadagnarsi il pane, sempre che non morissero di nostalgia per la libertà perduta, come un'aquila in gabbia”.
Mentre si dibatteva se ne uccidesse di più la feroce bramosia di denaro o la pietosa e devastante opera dei missionari, riprendeva la cattura di fuegini da esposizione, e anche in questo settore si alternarono spesso motivazioni laiche e religiose. Nel 1881 furono biechi scopi commerciali a spingere Johann Wilhelm Wahlen, un marinaio tedesco collaboratore di Carl Hagenbeck, a catturare undici indios nelle isole Hermite, vicino a Capo Horn, e portarli in Francia per esporli nello zoo del Jardin Zoologique d'Acclimatation. Tutto col permesso del governo cileno, che pretese solo il deposito di una cauzione di 12-15 000 franchi, e l'impegno a rimpatriare il gruppo dopo una tournée nelle capitali europee.
Si trattava di quattro uomini, quattro donne e tre bambini, che furono esibiti al pubblico e tormentati dagli specialisti della Società antropologica, impegnati a osservarli e misurarli in tutti i modi. Questi arrivarono a concludere che gli indios erano sempre imbronciati, abulici, spaventati dalle pustole causate dalla vaccinazione antivaiolosa, febbricitanti, refrattari alle attenzioni del fotografo che li voleva mettere in posa, privi di qualsiasi curiosità, disinteressati a nastri e collanine che il pubblico lanciava loro, ma attratti da cose pratiche come coltelli, recipienti e pettini, indifferenti al denaro, abituati a bere lappando come fanno i cani e, soprattutto, decisamente contrari a farsi ispezionare e palpare i genitali.
Queste furono le informazioni “scientifiche” che gli antropologi ricavarono dalle loro osservazioni, sentenziando che si trattava di rappresentanti di una forma di società “inferiore a quella dei castori”. Ma non si chiesero quale atteggiamento avrebbero avuto loro stessi se si fossero trovati in un mondo sconosciuto, attorniati da uomini che parlavano una lingua incomprensibile e interessati solo a misurarli e palparli, anche tra le gambe. Intanto, una delle bambine, di circa due anni e mezzo, moriva senza alcun clamore.
Terminata l’esposizione a Parigi, gli indios furono trasferiti a Berlino, dove per tre settimane vissero allo zoo, dividendo il recinto con gli struzzi. Li subirono le stesse attenzioni “scientifiche”, mentre due donne cominciavano a star male. Le esibizioni continuarono per un anno a Lipsia, Monaco, Stoccarda, Norimberga e Zurigo, lasciando sul terreno i corpi di sei disgraziati. A quel punto intervenne l’impresario Hagenbeck, che interruppe le esibizioni in Svizzera e rispedì in fretta e furia i quattro superstiti a Punta Arenas, in Cile, per non perdere del tutto la cauzione che il suo emissario aveva dovuto versare al governo cileno. Ma due dei quattro superstiti morirono durante il viaggio di ritorno e i sopravvissuti fecero la stessa fine poco dopo, a causa del contagio. A centotrent’anni di distanza, nel 2011, i resti di alcuni degli indios morti in Europa sono stati ritrovati presso l’Università di Zurigo, grazie all'indagine condotta da giornalisti e ricercatori cileni, e riportati in Cile per essere consegnati a discendenti degli alakaluf che, dopo averli trattati secondo gli antichi rituali indigeni, li hanno riposti in cesti di vimini e sistemati in una grotta di un'isola vicina a quella dove furono catturati.
Nel 1889 iniziò una nuova trasferta di fuegini a scopo espositivo, quella in cui fu coinvolto il nostro Jose' fuegino. Quell'anno la Francia celebrava il centenario della Rivoluzione sbandierando Liberté, Égalité, Fraternité, e a Parigi l'ingegner Gustave Eiffel alzava la sua torre di ferro, simbolo della Grande esposizione universale che si sarebbe inaugurata i primi di maggio attirando trentacinque paesi espositori e 32 milioni di visitatori. L’imponente dimostrazione muscolare dell'Occidente tecnologico e colonialista fu affiancata dall'ormai consueta esibizione di popoli “esotici”, per sottolineare la superiorità della civiltà dei bianchi.
Maurice Maître, un avventuriero francese già collaboratore del famigerato Chancho Colorado, si preparava da tempo per partecipare all’evento. Dopo lunghi e laboriosi appostamenti era riuscito a catturare nel Canale di Magellano un’intera famiglia di indios fuegini dell'etnia selk’nam, tra cui il piccolo José -ovvero Luis Miguel Angel Calafate, come poi lo battezzarono i salesiani-, il bambino di otto-nove anni protagonista di questa storia.
Con l'aiuto di alcuni complici, il francese riuscì a imbarcarsi con gli indios catturati su una baleniera diretta a Le Havre. La traversata fu difficile e durante il viaggio due indios morirono, ma gli altri nove finirono a Parigi, dove furono chiusi in una gabbia sistemata all'interno di un tendone imbandierato, sul quale campeggiava la scritta CANNIBALI: una definizione dei fuegini che circolava da tempo negli scritti degli antropologi, rimbalzando amplificata sulla Stampa popolare. Maître non fece altro che rafforzare l’immagine dei suoi antropofagi, coperti solo di pelli di animali, con un’adeguata scenografia fatta di sporcizia e di qualche chilo di carne cruda gettata loro in pasto con gesti teatrali, davanti a visitatori inorriditi al punto giusto. Tutto filava liscio e per settimane l'ex cacciatore di indios si godette le gioie dell’imprenditore di successo, anche se due fuegini morirono di chissà cosa tra un’esibizione e l'altra.
Una brutta perdita, ma lo spettacolo continuo a richiamare un gran pubblico, fino a quando accadde un fatto che cambiò tutto, e che i documenti dell'epoca riferiscono in modi diversi: la verità va cercata intrecciando almeno tre versioni dell'accaduto.
La variante riferita da José María Borrero ha come protagonista fin dall'inizio il padre salesiano torinese Giuseppe Maria Beauvoir, che visse a lungo nelle missioni argentine in Terra del Fuoco. Secondo Borrero il religioso si trovava in visita all’Esposizione universale quando notò l'annuncio dei cannibali fuegini e, sconcertato da quella definizione, entro nel tendone riconoscendo il gruppo esibito come indios selk'nam, con i quali riuscì a scambiare qualche parola, scoprendo che erano stati catturati e imprigionati con la forza. Poiché all'epoca l'Argentina non aveva una rappresentanza diplomatica a Parigi, il missionario si mise in contatto con Gonzalo Bulnes, plenipotenziario del Cile in Francia, che allertò la polizia francese.
Quando però gli agenti intervennero poterono solo constatate che Maître era fuggito lasciando liberi gli indios, che infatti furono ritrovati ore dopo mentre girovagavano disorientati nei viali dell'Esposizione. Tutti “con l’eccezione di uno degli indios chiamato Calafate” scrisse Borrero, “il quale, sveglio e intraprendente, fuggì e vagò per due anni in Francia, Inghilterra e in altri paesi, finché fu provvidenzialmente ritrovato a Montevideo dallo stesso padre Beauvoir, che lo portò con sé a Punta Arenas [...] i restanti sei furono consegnati al dottor Gonzalo Bulnes, il quale immediatamente li imbarcò per il loro paese d'origine. Di questi sei, due morirono nel corso del viaggio di ritorno e solo quattro giunsero alla terra del pietoso ministro e furono accolti nella missione salesiana di Punta Arenas, dove tutt'ora credo che ne vivano due”.
L'altra versione dei fatti è quella data dallo stesso don Giuseppe Maria Beauvoir, che nelle lettere indirizzate ai suoi superiori non dice d'avere visitato l’Esposizione parigina, né tantomeno di avere avuto un ruolo nella liberazione degli indios, che attribuisce esclusivamente all’intervento di Gonzalo Bulnes. In quanto a José, afferma di averlo conosciuto casualmente, parecchi mesi dopo l'episodio dell'Esposizione. “Il primo incontro che io ebbi con questo fueghino fu nel giugno” scrive il missionario in una lettera dell’autunno del 1890 “mentre ritornavo da Montevideo [...]. Vistolo a bordo del vapore, me gli avvicinai, gli regalai qualche cosuccia e cominciai a farmelo amico. Intanto seppi del suo rapimento, del suo trasporto in Francia, della mostra che dovette fare di sé nella mondiale Esposizione, e finalmente che era stato imbarcato a Liverpool senza guida ne' proprietario. M'informai se, ritornando nella sua terra, avesse saputo ritrovare i suoi genitori, e mi parve di no. Pensai allora di farmelo mio per dargli il battesimo e salvarlo [...]. Egli si chiama Luis Miguel Angel Kalafacte […]. L’età sua è di circa dodici anni”.
Un racconto molto diverso da quello di Borrero, eppure anche il missionario cita Gonzalo Bulnes attribuendogli tutto il merito della liberazione degli indios, senza comunque spiegare come il piccolo José fosse riuscito a raccontargli con tanta precisione quella storia così articolata citando persino il nome del diplomatico cileno.
Una terza versione, dedotta da fonti differenti -principalmente da indagini effettuate nel 2007 da ricercatori cileni-, complica maggiormente la vicenda, aggiungendo pero un capitolo finora ignoto all'avventura europea di José e dei suoi compagni di viaggio. Secondo queste fonti, Maurice Maître fuggì da Parigi in tutta fretta e riparò in Belgio con i suoi cannibali, che esibì al Museo delle cere di Leopold Park, dove si tenevano anche spettacoli con attori nani. In quei giorni, il piccolo José fu fermato dalla polizia belga con l'accusa di accattonaggio. Fu probabilmente in questa occasione che a Maître venne imposto di interrompere la sua attività e firmare un documento in cui si impegnava a non esibire più i fuegini e comunque a non farli più lavorare per lui. Divieto che avrebbe indotto il francese a cedere gli indios al Grande Farini, pseudonimo del celebre funambolo e imprenditore circense canadese William Leonard Hunt, il quale li portò a Londra e li esibì al Royal Aquarium di Westminster.
Quest'ultima esibizione sembra trovare conferma in un articolo pubblicato dal Times il 30 settembre 1889 (cinque mesi dopo la fuga da Parigi), nel quale si dice che per l'occasione fu allestito un apposito padiglione e che dei sette indios selk'nam (un uomo, due donne, due ragazze e due ragazzi) “solo uno, un ragazzo, mostra qualche segno di vivacità, gli altri mantengono un atteggiamento imbronciato. La loro statura è piccola, ma gli arti sono ben sviluppati e dotati di considerevole forza muscolare. L’abbigliamento è costituito unicamente da una pelle di animale e si dice che preferiscano la carne cruda. Non riescono a comprendere altro che alcuni gesti e la loro lingua dev'essere assai limitata, visto che, a quanto sembra, comunicano quasi soltanto con poche, rauche interiezioni [...]. In questo momento sono seduti intorno a una grande stufa, raggomitolati nelle loro pelli, visibilmente contenti del tepore. Resteranno in mostra all’Acquario ancora per qualche tempo”.
L’esibizione suscitò le proteste di alcune organizzazioni religiose inglesi che portarono a un conflitto diplomatico-umanitario tra la Società missionaria sudamericana, l'Ambasciata del Cile in Francia e il Consolato cileno a Londra. Questo determinò la sospensione degli spettacoli e, grazie all'aiuto delle organizzazioni e istituzioni che s'erano occupate del caso, gli indios furono imbarcati su una nave diretta in Sudamerica. Nonostante varie lacune e incertezze sull’esatta successione degli avvenimenti, secondo quest'ultima ricostruzione prima di tornare nella Terra del Fuoco il gruppo di selk’nam fu quindi esibito in altri paesi europei. Si riempirebbe così quel vuoto in cui sembrava finito José nei mesi che intercorsero tra la fuga da Parigi e l’incontro col missionario sulla nave. Rimane senza spiegazione il fatto che don Beauvoir -che peraltro è l’unico testimone direttamente coinvolto nella vicenda- non dica di aver visitato l'Esposizione parigina e sostenga che il suo incontro con José sia avvenuto in modo del tutto casuale alcuni mesi dopo la fuga del bambino da Parigi.
Parte di questi dubbi potrebbero essere chiariti ipotizzando che José sia ripartito dall’Inghilterra insieme agli altri quattro indios superstiti, dei quali il missionario salesiano trascurò di parlare quando descrisse l'incontro sulla nave, ma che invece citò in un altro scritto relativo all’episodio, affermando che “degli altri dieci fuegini portati a Parigi solo cinque rividero la terra natia, tre morirono in Europa e due soccombettero prima di arrivare allo Stretto di Magellano. I cinque superstiti capitarono tutti tra le braccia dei Missionari salesiani, ai quali furono affidati dallo stesso governatore del luogo. Tre adulti li inviammo alla missione Dawson al fine di famigliarizzarli cogli indigeni dei canali, dei quali sono acerrimi nemici i Fuegini. Pero una bella notte, temendo forse le ire di quegli isolani, coll'unica scialuppa che là avevamo se la svignarono, né più abbiam potuto rivederli. I due ragazzini [uno era José, N.d.A.] tenuti nella nostra Casa di Puntarenas vivono allegri e contenti, e ora sono cristiani”.
La drammatica esperienza vissuta da José in Europa sembrava così consegnata al passato e il ragazzetto pareva destinato a passare il resto della vita nella sua terra. Ma non andò cosi, perché, con l’avvicinarsi del 1892, i salesiani decisero di organizzare una mostra delle missioni cattoliche in occasione dell'Esposizione italoamericana, prevista a Genova per le celebrazioni colombiane del quarto centenario della scoperta dell'America. A questo scopo stabilirono di far arrivare in Italia un gruppetto di otto indigeni della regione magellanica e, ancora una Volta, troviamo José e don Beauvoir protagonisti della trasferta.
La notizia dell’imminente arrivo a Genova degli indios suscitò grande attesa nel pubblico e i giornali locali (La Rivista, Corriere Mercantile, Cittadino) seguirono tutta la vicenda con articoli e notizie che Piero Boragina ha pazientemente riunito nel libro “Storia del fuegino José”. Alla partenza dall’America del Sud il gruppo di indios, accompagnati da don Giuseppe Maria Beauvoir e altri religiosi, era composto da tre araucani della Patagonia: Santiago Melipan Yancuche, “un giovanotto di 17 anni, di statura media, svelto nel portamento, intelligente, buon calzolaio e valente musico [...] e due indie sue cugine, Zeverina e Josepha, anch’esse molto giovani d'età, avvenenti nella persona e nello stesso tempo modeste”. Oltre a questi tre patagoni sarebbero arrivati cinque indios della Terra del Fuoco: José Calafate che ormai da un paio d'anni viveva nella missione, Silvestro Canale di undici anni, Daniel, un uomo di circa trent'anni, sua moglie Margarita (che pero morì durante il viaggio “lasciando in mani caritatevoli Lucia, una bambina lattante di quattro mesi”), il loro figlio Marcos di circa cinque anni e “il suo fedele Schauk, ossia un pelluto bianco di faccia volpina, valente cacciatore di nutrie in quelle gelide acque”. Tutti dell'etnia alakaluf, a eccezione di José che era un selk’nam.
I sette superstiti imbarcati sul vapore Matteo Bruzzo arrivarono i primi di agosto e furono alloggiati a Sampierdarena fino al 21, giorno dell’inaugurazione dell'Esposizione missionaria, che occupava “un'estensione di 1700 metri quadrati con annesso giardino, sulla spianata di Bisagno”. Su quest'area era stato realizzato, su precise indicazioni di don Beauvoir, un villaggio fuegino e patagone dove furono ospitati gli indios, formato da cinque capanne realizzate su modello di quelle originali, attorno a un laghetto artificiale che avrebbe dovuto ricordare i canali dove i fuegini pescavano i pesci e i molluschi di cui si nutrivano. Una sistemazione apprezzata dalla stampa, che non manco di sottolineare come ai patagoni, normalmente, “serviva di capanna qualche grosso albero, di letto o la nuda terra, o una pelle di guanaco, e di guanciale la sella del proprio cavallo”. La capanna dei fuegini nel villaggio genovese era “formata anch'essa di frasche e ricoperta con pelle di foca. Un po' di paglia stesa per terra, l'arco, le frecce, gli arpioni, qualche cestino di giunchi, qualche recipiente fatto di scorza d'alberi ne costituiscono l'arredo”.
Il giorno dell’inaugurazione il presidente dell'Esposizione declamò il suo discorso e, per ribadire un concetto già espresso dai missionari per fronteggiare certe critiche dei liberali, si rivolse agli indios con parole evidentemente indirizzate ad altre orecchie: “Non vi chiamammo perché foste spettacolo dell'altrui vana curiosità. Questo mercato sarebbe stato indegno di noi e di voi [...]. Entrate pure con animo tranquillo nelle capanne che vi abbiamo preparate”. Obiettivo dichiarato dei salesiani era infatti di allontanare il sospetto dell'esibizione etnico-commerciale ribadendo la loro volontà “di far conoscere lo stato materiale e morale delle popolazioni selvagge e idolatre dell’America e la salutare efficacia delle missioni”, dichiarazione di intenti con cui gli organizzatori cercarono con diversi scritti -senza riuscirci del tutto- di nobilitare l'iniziativa sostenendo che non veniva messa in mostra la barbarie dei selvaggi, ma piuttosto che si esponevano selvaggi che con la loro stessa presenza dimostravano la bontà dell'azione missionaria. Insomma, non “un indegno mercato” ma autocelebrazione dei religiosi. Al modico costo del biglietto d’ingresso di lire 1.
Il pubblico, avvertito del nobile intento ma attratto dall'ambigua fama degli ospiti, sciamo nei viali dell'Esposizione e “durante tutta la giornata grande fu l’affluenza dei visitatori avidi di vedere i selvaggi vestiti coi loro costumi”, cioè con addosso pelli di foca e di guanaco (era il 21 agosto) e armati di archi e frecce. Naturalmente José e gli altri due bambini furono le star dell'esposizione e l’inviato della Rivista dedicò loro un articolo che ci permette di conoscerli più da vicino. José Calafate, circa nove anni, era orfano di entrambi i genitori e aveva imparato a parlare, leggere e scrivere in spagnolo; aveva un fisico ben proporzionato, spalle larghe, occhi obliqui e “faccia paffutella, il che indica che i Salesiani pensano abbastanza a soddisfargli l’appetito”. L’altro fuegino doveva avere circa undici anni, si chiamava Silvestro Canale, senza genitori, ed era stato prelevato due anni prima nell'isola di Dawson e portato alla missione con altri della sua etnia. Aveva più o meno la stessa struttura di José, “abbastanza simpatico, e diremo anche che è un bel ragazzo; dalle sue fattezze si può con molta certezza argomentare che la sua razza già andò soggetta a qualche incrociamento [...] imparò con facilità tutte le laudi e canzoni che usano cantare i Salesiani”. Il più piccolo si chiamava Marcos, un bel bambino particolarmente vivace, sempre in movimento, comunicativo e molto carino: “specialmente quando ride sembra un angioletto”.
I tre patagoni presenti erano vestiti con abiti che “ricordavano quelli dei sardi” e per questo attirarono meno attenzione dei quattro fuegini, che per abbigliamento e stile di vita rispondevano meglio all'immagine del selvaggio, quella più amata dai visitatori.
Il 31 ottobre l'esibizione genovese fu interrotta per preparare il clou della trasferta: portare i selvaggi a Roma e mostrarli a papa Leone XIII, affinché vedesse coi suoi occhi il frutto del lavoro dei salesiani ai confini del mondo. L'evento fu seguito col solito impegno dai giornali genovesi. “Martedi 15, il Santo Padre ha ammesso alla sua augusta presenza i selvaggi dell’America australe condotti dai loro missionari” scrisse un giornalista del “Cittadino”, che poi elencò nomi e provenienza del gruppetto dei sette e descrisse come erano vestiti: “Salvo Santiago, che indossava il fantastico costume dei gauchos, tutti gli altri, secondo il desiderio del Santo Padre, erano vestiti all'europea, comprese le scarpe, per le quali i fuegini hanno un odio irreconciliabile […]. Appena venuti alla presenza del Santo Padre, tutti si sono inginocchiati, ed il Santo Padre, nel dar loro a baciare il piede e la mano ha detto che considerava quest’udienza [...] come inaugurazione del suo Giubileo”. Quindi il patagone Santiago lesse in italiano un lungo testo di ringraziamento che il papa commentò sottolineando quanto fossero fortunati a ricevere le cure dei salesiani, che tanto apprezzava. L’incontro terminò con una benedizione generale.
La cerimonia fu commentata con sarcasmo da un giornale anticlericale romano, il quale immagino che, dopo il bacio della sacra pantofola, i missionari avessero offerto ai selvaggi un pasto a base di carne cruda. Un'insinuazione respinta con sdegno dai religiosi e dal giornale genovese, che si sentì in dovere di sottolineare come “i lettori pure ricordano il trattamento civilissimo che loro si usava, al punto che ogni giorno avevano sulla tavola imbandita ottimi cibi, serviti da camerieri in livrea del ristorante Aquila”.
Il 30 ottobre gli indios tornarono a Genova, dove furono nuovamente esposti al pubblico. Il “Corriere Mercantile” richiamo l’attenzione dei cittadini annunciando che domenica 23 novembre i selvaggi avrebbero lasciato l'Esposizione per tornare nei loro paesi: “Restano perciò avvisati coloro che finora non li hanno veduti, a volerlo fare durante questa settimana, essendo essa termine irremissibilmente fissato. Per facilitare poi l'accesso a coloro che finora se ne erano astenuti per la troppa elevatezza del prezzo, il detto Comitato [delle missioni, N.d.A.] ha stabilito che, a partire da quest’oggi il prezzo venga ridotto a cent. 50”. Selvaggi in saldo.
Il 9 dicembre José e gli altri si imbarcarono a Bordeaux diretti alla Terra del Fuoco, accompagnati da don Beauvoir. Da allora solo silenzio sul bambino che attraverso due volte l’Atlantico per far vedere agli europei com’erano i selvaggi che vivevano alla Fine del Mondo. Di lui, ormai adulto, ci rimane solo una foto a cavallo, vestito da ranchero, scattata nei pressi della missione poco prima che i selvaggi morissero tutti, sterminati dalla ferocia e dalla pietà dei civilizzatori.
Expo universale di Liegi, 1905.
Fiera universale di St.Louis, 1904.
Coney Island freak show, 1906.