Mag 2023. Ora e sempre Intifā’ḍah.

 

 

 

 

 

 

 

 

Non poteva mancare nei “mestée” una dedica al popolo palestinese e alla sua lotta contro l’occupazione per tre quarti di secolo del suo territorio da parte di Israele. Occupazione illegittima, fatta di violenze inaudite, massacri, stragi, operazioni di pulizia e sostituzione etnica, deportazioni, apartheid legalizzato, politica genocidiaria, aberrante costrizione economica, effettuati pervicacemente nell’indifferenza più o meno generale, se non nella connivenza USA ed europea.
Un popolo, quello palestinese, dimenticato dall’opinione pubblica internazionale, un popolo sacrificato dall’occidente per lavarsi la coscienza dal genocidio nazista degli ebrei.
Non mi sfuggono certo alcune ambiguità dei partiti, organizzazioni che di volta in volta hanno rappresentato le istanze del popolo palestinese, ma sono indubbie le originarie responsabilità delle potenze occidentali che ridisegnarono la Palestina e di Israele che gestì e gestisce tuttora ferocemente tali disegni esibendo crimini contro l’umanità con arrogante impunità.
Come non ho mai messo e metterò mai piede, se non per transitare, negli USA, ugualmente ho fatto e farò con Israele: due stati criminali da evitare eticamente.
“El mestée” riporta un breve excursus storico dagli inizi del ‘900 alla guerra dei 6 giorni del 1967 e brani tratti dal libro di Ilan Pappé, famoso storico israeliano, “La prigione più grande del mondo. Storia dei Territori Occupati”. Il testo esamina la condizione palestinese dal 1967 al 2017, ed è stato incomprensibilmente tradotto in italiano solo nel 2022. Per un focus sulla situazione attuale un documento di Amnesty International del 1 febbraio 2023.
Le foto che intervallano il testo sono di bambini palestinesi ritratti nella loro tragica realtà quotidiana, talvolta feriti e uccisi, ricordando che, dato del DCIP (Defence for Children International Palestine), solo nel periodo dal 2000 al 2017, oltre 2.000 bambini palestinesi hanno perso la vita per mano delle forze di occupazione israeliana, e che nello stesso periodo oltre 8.500 bambini palestinesi sono stati arrestati con l’accusa più ricorrente del lancio di sassi, quindi processati davanti a tribunali militari ed incarcerati, sottoposti anche a torture e maltrattamenti. Save the Children (sezione svedese) ha stimato che nei primi due anni dell'Intifada (1988-1989) tra i 23.600 e i 29.900 bambini, un terzo dei quali sotto i 10 anni, dovettero ricorrere alle cure mediche per ferite riportate in seguito a percosse.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Excursus storico inizi 1900-1967.
 

Israele, stato indipendente dichiarato il 14 maggio 1948, si costituisce al termine di una contraddittoria politica di decolonizzazione attuata con gravissime responsabilità da Francia e Gran Bretagna.
La Palestina non è mai stata una nazione indipendente. Fino al 1914 era parte dell’impero Ottomano; una regione scarsamente popolata, arretrata e con un sistema semifeudale. Gli abitanti erano in grandissima maggioranza poveri braccianti al servizio di proprietari terrieri. Nel 1880 la zona contava circa 24 mila ebrei e 150 mila arabi. Nel 1945 gli arabi erano saliti a 1 milione e 240 mila, mentre gli ebrei erano 553 mila. Solo Gerusalemme era un centro urbano di una qualche importanza.
La prima guerra mondiale segnò la fine dell’impero Ottomano; l’area mediorientale passò sotto il controllo (protettorato) franco-inglese. Le diplomazie dei due stati avviarono un triplice gioco:
A) fu promessa l’indipendenza ai grandi proprietari arabi in cambio del loro appoggio in guerra (1915).
B) Balfour (responsabile Affari Esteri britannico) rispose alla pressione del movimento sionista dichiarando di vedere con favore la creazione di uno stato ebraico indipendente in Palestina (1917).
C) l’accordo Sykes-Picot, siglato nel maggio 1916, e tenuto a lungo segreto, fissò la spartizione dell’intero Medio Oriente in aree di influenza.
La creazione dello stato di Israele.
I Trattati di Versailles assegnarono la Palestina al protettorato britannico. Sia ebrei che arabi si aspettavano una qualche forma di indipendenza; la Gran Bretagna non va oltre a qualche proposta di spartizione territoriale; la conflittualità tra le popolazioni -sempre più numerose- cresce continuamente. Il vento di guerra, e i rischi di una penetrazione tedesca nell’area, indussero il ministro Eden a favorire una strategia di accordo tra i paesi arabi e a proporre (1939) la costituzione di uno stato indipendente, basato sulla coesistenza etnica. Per limitare la supremazia ebraica e per non rompere l’alleanza con i paesi islamici, fu fortemente limitata l’immigrazione ebraica, fissata a quota 75.000. Con l’inizio in grande scala della persecuzione nazista, è facile immaginare quale ripercussione drammatica abbia comportato questa scelta.
Non mancarono scontri tra terrorismo ebraico e autorità britanniche, considerate ostili al sionismo. Terminata la guerra, forse anche in seguito all’ondata emotiva dell’olocausto, l’immigrazione verso la Palestina non fu più ostacolata dal controllo britannico. Nell’immediato dopoguerra la zona era teatro di scontri tra ebrei e britannici, e tra ebrei e arabi. Nel maggio 1947 la Gran Bretagna annunciò all’ONU che si sarebbe ritirata dalla regione. Nel novembre dello stesso anno dalla stessa assemblea delle Nazioni Unite venne la proposta di dividere la regione in due parti: agli ebrei sarebbe andata la zona del Negev (permetteva una notevole espansione e capacità di accoglienza di nuovi immigrati). Usa, Urss e Francia si dichiararono a favore; la Gran Bretagna si astenne; stati arabi, India, Grecia e Pakistan votarono contro. Quando le truppe inglesi lasciarono il Medio Oriente, nel maggio 1948, fu immediatamente proclamato lo stato di Israele.
Gli stati arabi considerarono la creazione dello stato ebraico -fondato su basi religiose e razziali- un atto di forza intollerabile: un esercito di palestinesi e truppe dei paesi arabi circostanti attaccò il nuovo stato iniziando la lunga stagione delle sconfitte militari. Aggressioni dei paesi arabi e controffensive violentissime portarono i soldati di Israele ad occupare vaste zone interamente abitate dai palestinesi. I conflitti del 1956, 1967 e 1973 aprirono le porte alla tragedia dei “territori occupati”: le alture del Golan, la striscia di Gaza e la Cisgiordania diventarono campi di guerriglia permanente; con una popolazione a grandissima maggioranza palestinese (1,5 milioni gli arabi acquistati nei confini israeliani) discriminati e disprezzati da autorità e coloni. Soltanto nella controffensiva del 1949 e in seguito ai disordini dovuti alla proclamazione del nuovo stato ci furono quasi 1 milione di palestinesi espulsi dalla propria terra, accolti in miserabili campi profughi messi a disposizione dai paesi arabi e dall’UNRRA.
Le guerre e l’intifada.
Dal 1949 il conflitto ha assunto connotati sempre più drammatici. Nel 1956 i palestinesi costituiscono un movimento di liberazione (Al-Fatah) capace di collaborare con le forze armate degli stati arabi e di muovere azioni di guerriglia nel territorio israeliano. Nel 1967 -con fronti caldi come Siria e Egitto- scoppiò una crisi internazionale intorno al controllo del golfo di Aqaba, innescato principalmente da Nasser, presidente dell’Egitto. Forte dell’appoggio sovietico -se Usa e Francia erano filo-israeliani, ovviamente i sovietici erano filo-arabi- Nasser annunciò il blocco delle navi che attraversavano il golfo di Aqaba per rifornire Israele. Lo stato ebraico rispose con la forza: il 5 giugno 1967 l’aviazione bombardò gli aeroporti dei paesi arabi; le truppe di terra occuparono Gaza, Sharm el Sheikh, la Cisgiordania e Gerusalemme, le alture del Golan, l’Alta Galilea e il Sinai.
L’attacco passò alla storia come la guerra dei 6 giorni: il 10 giugno le offensive erano già terminate. Ma le ferite aperte risultarono gravissime: lo scontro all’interno del territorio palestinese si trasformò in guerriglia permanente, con una militarizzazione molto estesa del movimento di liberazione arabo e un ricorso alla rappresaglia indiscriminata e violentissima. (David Mugnai)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da “La prigione più grande del mondo. Storia dei Territori Occupati”.
Di Ilan Pappé, storico israeliano, professore di storia all’Istituto di studi arabi e islamici presso il College of Social Sciences and International Studies e direttore del Centro Europeo per gli Studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter.

 

Note di lettura: "el mestée" ha comportato una selezione di brani stralciati dai vari capitoli del testo di Pappé che mi auguro possa aver mantenuto una comprensibile consequenzialità, ma non essendo stata opera facile, potrebbe aver creato qualche mancanza di congiunzione narrativa. Titoli e frasi riportate in corsivo sono mie indicazioni per favorire il collocamento o collegamento narrativo del testo sottostante.

 

Questo libro è dedicato a coloro che hanno incessantemente cercato di riportare l'attenzione delle persone oneste sull’importanza di non rimanere ferme a guardare mentre milioni di individui vengono trattati in maniera tanto inumana e disumanizzante, solo perché non sono ebrei. Mossi da una reale virtù morale, questi soggetti hanno fornito resoconti e analisi che si sono scontrati con l’indifferenza, e spesso con una qual certa distorsione, dell'informazione fornita dai media ufficiali occidentali in merito a quella che dal 1967 a oggi è la vita in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Insieme alla resistenza palestinese essi continuano, finora con scarso successo, a mettere in discussione l'ampia immunità che l'Occidente ha accordato allo Stato di Israele per le sue politiche criminali nei confronti dei palestinesi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Prefazione.


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Il 1948 forni l'opportunità storica per realizzare entrambi questi obiettivi: conquistare gran parte del territorio e sbarazzarsi della maggior parte della popolazione locale. In quell'anno infatti diversi processi, tra loro distinti, si intrecciarono consentendo al movimento sionista di ripulire etnicamente la Palestina: la decisione britannica di ritirarsi da quei territori dopo trent'anni di dominazione; l’impatto dell'Olocausto sull’opinione pubblica occidentale; lo scompiglio nel mondo arabo e palestinese; e, infine, la cristallizzazione di una leadership sionista particolarmente determinata. Il risultato fu l'espulsione di metà della popolazione nativa del paese, la distruzione di metà dei suoi villaggi e città, mentre l'80 per cento della Palestina mandataria divenne lo Stato ebraico di Israele.
I rappresentanti della comunità internazionale assistettero da vicino a questa espropriazione: delegati della Croce Rossa internazionale, corrispondenti della stampa occidentale e personale delle Nazioni Unite. Tuttavia, il mondo occidentale non era interessato ad ascoltare i loro rapporti incriminanti; le élite politiche scelsero di ignorarli. Il messaggio da parte dell'Europa e degli Stati Uniti era chiaro: qualsiasi cosa fosse accaduta in Palestina sarebbe stata soltanto l’inevitabile atto finale della seconda guerra mondiale. Qualcosa andava fatto affinché l'Europa potesse espiare i crimini commessi sul proprio suolo contro il popolo ebraico; perciò si rese necessario un ultimo, massiccio esproprio a danno dei palestinesi, così che l'Occidente potesse approdare alla pace e alla riconciliazione del dopoguerra. Ovviamente, la situazione in Palestina non aveva nulla a che fare con la dislocazione delle popolazioni in Europa sulla scia della seconda guerra mondiale o con il genocidio degli ebrei europei; essa non rappresentava il culmine della guerra in Europa, bensì della colonizzazione sionista iniziata alla fine del XIX secolo. È stata l'atto conclusivo della creazione di un moderno Stato ebraico colonizzatore, in un momento in cui la comunità internazionale sembrava considerare la colonizzazione inaccettabile ed espressione di un’esecrabile ideologia del passato.
Così non è stato però nel caso della Palestina. Il messaggio inviato dal mondo illuminato fu inequivocabile: l’espropriazione israeliana a danno dei palestinesi e l'occupazione della maggior parte della Palestina erano legittime e accettabili.
(...)
Contesto anno1967.
(…)
In realtà, costoro non avevano scoperto nulla di nuovo. Già dal 1948 stavano affrontando una situazione analoga, quando essi stessi e i loro predecessori avevano dovuto decidere come trattare la minoranza palestinese all'interno di Israele. Le avevano imposto un dominio militare che fu revocato solo diciotto anni più tardi, sostituito da un nuovo tipo di regime di ispezione, controllo e coercizione. Con il tempo quest’ultimo si attenuò leggermente, divenendo però più subdolo e complesso. Tuttavia, la popolazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza era ormai cresciuta; perciò, mentre la cittadinanza limitata che era stata concessa alla minoranza palestinese dentro Israele sembrava collimare con l'obiettivo di mantenere una netta maggioranza ebraica all`interno dello Stato, lo stesso non sarebbe avvenuto se questa cittadinanza fosse stata estesa ai residenti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Da qui la necessità di conservare i Territori e di non espellere quanti vi abitavano, ma allo stesso tempo di non concedere loro la cittadinanza. Questi tre parametri o presupposti sono rimasti immutati fino a oggi. Rimangono l'empia trinità di una catechesi sionista condivisa.
Quando tre obiettivi del genere si traducono in politiche concrete non possono che produrre una realtà disumana e spietata. Non può esistere una versione benigna o illuminata di una politica volta a tenere le persone costrette in un limbo, prive di cittadinanza, per lunghi periodi. Esiste solo una cosa creata dall’uomo che operi in maniera tale da privare, temporaneamente o a lungo termine, un cittadino dei propri diritti umani e civili fondamentali: le moderne prigioni. Il carcere, il penitenziario e l'istituto correzionale sono delle istituzioni contemporanee che impongono esattamente questo, sia come strumento di una dittatura spietata sia come, nelle democrazie, conseguenza di un lungo processo legale.
Ufficialmente, alcuni cisgiordani erano in possesso della cittadinanza giordana; tuttavia, durante l'occupazione questa “cittadinanza” aveva perso ogni valore all'interno della Cisgiordania occupata, perciò dal giugno 1967 i suoi abitanti erano diventati a tutti gli effetti degli apolidi.
(…)
“Autonomia”, “autodeterminazione”, “indipendenza”: erano questi i termini usati, perlopiù a sproposito, per descrivere la prigione a cielo aperto nella sua versione migliore che gli israeliani erano pronti a offrire ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
(...)
Nel giugno 1967 il governo israeliano discusse sul destino di questi palestinesi e delle terre su cui vivevano. La decisione finale, raggiunta prima della fine del mese, fu di escludere a tutti gli effetti la Cisgiordania e la Striscia di Gaza da qualsiasi futuro negoziato di pace. Il desiderio era quello di assumere sui Territori una decisione unilaterale e di cercare l`avallo internazionale alla nuova politica, qualunque essa fosse.
(...)
Anche i più timidi tra i critici di tale decisione definiscono quella strategia, e la realtà che ne è scaturita, una “occupazione”. Le misure legali e militari descritte nella prefazione indicano come Israele si stesse ufficialmente preparando a governare le vite dei palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza nello stesso modo in cui controllava quelle dei palestinesi all'interno dello Stato ebraico propriamente detto. Quei palestinesi vivevano perlopiù in aree che nel 1947 le Nazioni Unite avevano assegnato a uno Stato palestinese, ma che adesso erano state annesse a Israele senza alcun dibattito o proteste internazionali. I soggetti coinvolti nei preparativi dei primi anni Sessanta, e la natura di quei passi preliminari, sono emblematici dei problemi legati all'uso del termine “occupazione” in riferimento alla storia della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sotto il dominio israeliano, dal 1967 fino ai giorni nostri.
(...)
Nel giugno 1967 il mega-carcere era stato approntato non come strumento per mantenere un`occupazione, bensì come risposta pratica ai presupposti ideologici del sionismo: la necessità di controllare quanto più possibile la Palestina storica e di creare al suo interno una assoluta -se possibile esclusiva- maggioranza ebraica. Queste spinte hanno portato alla pulizia etnica della Palestina nel 1948 e hanno ispirato la politica formulata nel giugno 1967, così come oggi alimentano le azioni israeliane. La mega-prigione era la conseguenza logica e inevitabile della storia e dell'ideologia sionista.
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La Grande Gerusalemme come progetto pilota.

 

Contesto: primo anno dopo la guerra del 1967. Determinazione dei “cunei colonizzati”.
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Le imprese principali da compiere erano due, una esterna e l'altra interna. Quella esterna era la partizione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza con l'inserimento di cunei colonizzati. Quella interna era una costante e incessante emissione di decreti, il cui scopo era sia di espropriare la terra palestinese per la futura colonizzazione, sia di limitare la crescita naturale e organica delle comunità palestinesi impedendo nuove costruzioni ed espansioni. Un metodo molto simile fu usato prima del 1967 e successivamente nei confronti della minoranza palestinese interna a Israele.
L’idea di base era chiara: alcuni dei Territori Occupati dovevano rimanere “palestinesi”; il resto doveva passare sotto il controllo diretto. A parte Gerusalemme, dove il controllo significava l’annessione “de jure”, in tutte le altre aree questo fu realizzato mediante l’ebraicizzazione, anzitutto con l’insediamento di ebrei, soldati o civili, sulle terre dei palestinesi.
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Al solito modo israeliano, la drastica trasformazione del paesaggio urbano e rurale di Gerusalemme e dintorni fu presentata come una pianificazione urbanistica. Tuttavia, quella che ha avuto inizio nel 1967 e continua tuttora è un’operazione di pulizia etnica fondata sull’esproprio delle terre. Nel 1967 e 1968, questa cosiddetta “pianificazione urbanistica” altro non era che un’operazione militare per antonomasia.
(...)
Per stabilire gli insediamenti nelle zone occupate, gli israeliani utilizzarono le stesse procedure legali che avevano impiegato all'interno di Israele dal 1948 al 1967. È quanto avvenuto in maniera assai diretta ed evidente a Gerusalemme Est, visto che l'area era stata ufficialmente annessa a Israele e pertanto qui le leggi israeliane erano entrate in vigore fin dal 1967. Inoltre, nel 1970 il governo israeliano riattivò una legge mandataria del 1943, che era già stata usata per espropriare terreni all'interno di Israele e che ora veniva applicata alla zona della Gerusalemme occupata che era stata annessa nel 1967'. Fu così che vennero confiscati 11.000 dunam in forza di un’ordinanza (l’acquisizione di terre per uso pubblico): tutti terreni appartenuti a dei privati palestinesi. Su questa terra, il governo sviluppò gli “shechunot (“quartieri”), un eufemismo utilizzato per descrivere le nuove colonie ebraiche costruite a Gerusalemme Est in modo che fossero riconosciute come parte del nuovo Israele post-1967. Fu grazie al furto delle terre perpetrato dallo Stato, e avallato da tutti i partiti sionisti, che vennero creati questi agglomerati urbani.
(...)
La massiccia espropriazione di terre a Gerusalemme fu avviata seriamente verso la fine del 1968. La maggior parte dei residenti non venne mai risarcita per la confisca, mentre quanti lo furono ricevettero un indennizzo ridicolmente irrisorio. I 17.000 dunam requisiti comprendevano edifici come scuole e ospedali. Nel dicembre 1967, quando ebbero inizio le confische, l'ufficio del primo ministro fu incaricato di pubblicare informazioni positive, come la presenza di pazienti palestinesi negli ospedali ebraici, così da distrarre l'attenzione e mettere a tacere le critiche. Tuttavia, mentre gli espropri prendevano piede, divenne chiaro che il mondo si era già rassegnato all'annessione di Gerusalemme Est a Israele.
I principali mezzi utilizzati per espandere il cuneo di Gerusalemme Est sono stati il furto sistematico di terreni, la colonizzazione, la designazione di alcune aree come spazi verdi, i polmoni ecologici della nuova metropoli, cioè zone vietate ai palestinesi, la demolizione di case e il reiterato rifiuto di consentire ai palestinesi di ampliare gli edifici già esistenti. Un altro strumento con cui allargare questo cuneo era la renitenza a investire in qualsivoglia infrastruttura destinata alle future abitazioni e agli habitat dei palestinesi, sebbene questi fossero cittadini che pagavano le stesse tasse dei coloni ebrei.
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Questo cuneo ha oggi un nome: “la Grande area municipale di Gerusalemme", un'ameba che cresce di giorno in giorno e che inghiotte intere zone, le de-arabizza e le colonizza. Via via che questa ameba si è andata sempre più ingrossando nel corso degli anni, i palestinesi sono stati costretti ad abbandonarla in maniera esponenziale finché alla fine, all'inizio di questo secolo, essa non ha tagliato in due la Cisgiordania.
A dieci anni dall’inizio dell’occupazione, il cuneo di Gerusalemme comprendeva fino a quindici enormi aree di nuova colonizzazione. La più significativa era il quartiere ebraico nella Città Vecchia, costruito dopo l’occupazione e cresciuto fino a diventare un quinto della Città Vecchia (116 su 668 dunam). Il giorno dell’occupazione, 6.000 palestinesi che vivevano in tre dei quattro quartieri antichi furono sommariamente espulsi dalla città verso la Giordania. Un tempo in quei quartieri sorgevano cinque moschee, quattro scuole, un mercato storico e una via commerciale risalente al periodo mamelucco. L'ebraicizzazione aveva spazzato via tutto.
L'enormità del cuneo e il suo impatto sulla vita dei palestinesi divenne evidente quando, nel 1993, furono ufficialmente tracciati i confini municipali della Grande Gerusalemme. Più tardi, venuto meno il processo di pace di Oslo negli anni Novanta, i successivi governi israeliani iniziarono ad affermare che la creazione di ogni nuovo insediamento, in Cisgiordania in generale e a Gerusalemme in particolare, era un atto ritorsivo nei confronti del “terrorismo palestinese” (principalmente gli attacchi suicidi). In realtà, questa politica di insediamento non aveva nulla a che fare con la “ritorsione”, era stata avviata ben prima che iniziassero gli attentati suicidi ed è proseguita per tutti gli anni del1'occupazione; semplicemente è stata presentata in questo modo, soprattutto per propinarla così sul fronte interno. Ancora una volta non c`era nulla di nuovo in questo tipo di argomentazione: era stato usato per giustificare le prime fasi della pulizia etnica del 1948 e dunque non per colonizzare la Palestina bensì per sradicarne il popolo.
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Infine, in aggiunta all'espropriazione di terre e alla costruzione di considerevoli quartieri nuovi in Cisgiordania, in particolare attorno a Gerusalemme, non va taciuto il crimine contro l'estetica compiuto nel corso degli anni in uno dei quartieri più belli della città, Mamilla, di fronte alla Porta di Giaffa (Bab al-Khalil). Tra il 1948 e il 1967, questa era divenuta una zona cuscinetto tra l'esercito israeliano e la legione araba giordana, tuttavia era riuscita a sopravvivere relativamente indenne alle scaramucce, agli scambi di artiglieria e alla guerra del 1967, ma nulla ha potuto di fronte allo zelo colonizzatore degli occupanti. Se, come me, conoscete la storia fotografica della città, avrete visto innumerevoli immagini di questo quartiere, che all’inizio del XX secolo ospitava alcuni dei migliori alberghi di Gerusalemme. Queste gemme sono state sostituite dall’ennesimo pugno in un occhio: un complesso indecifrabile di case con giardino e condomini in stile americano. I lavori per la sua realizzazione furono avviati nel 1970, su 130 dunam confiscati.
Ai crimini estetici contro la città di Gerusalemme si possono aggiungere quelli culturali e religiosi. Una delle parti più importanti della zona di Mamilla era il suo cimitero musulmano, risalente al VII secolo. Le tombe sono state rimosse di notte perché nessuno potesse assistere ai lavori e al posto loro la Fondazione Simon Wiesenthal ha eretto il Museo della Tolleranza! Per assicurarsi che i musulmani non potessero accedere a questo luogo sacro il sito venne circondato con una recinzione elettrica. C'è da dire che la sconsacrazione di un cimitero musulmano per edificarvi nuove costruzioni non era una novità: il vecchio cimitero di Caifa, al-Istiqlal, è stato profanato in maniera del tutto simile, per farvi passare un'autostrada che ha disseminato le lapidi su entrambi i lati della carreggiata.
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Ricompense economiche e rappresaglie punitive.

 

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La strategia israeliana per i Territori Occupati prevedeva un altro aspetto economico fondamentale. Già alla fine del luglio 1967, i primi regolamenti economici e finanziari lasciavano capire che le ambizioni di Israele per la Cisgiordania e la Striscia di Gaza erano a lungo termine. Per volere del governo, la sterlina israeliana (la lira e più tardi lo shekel) sarebbe divenuta l'unica valuta legale nei Territori Occupati dall'esercito. A questa decisione riguardo alla valuta fece prontamente seguito un'intensa campagna israeliana, portata avanti in tutto il mondo, per incentivare gli investimenti stranieri e israeliani nei Territori, e più tardi, sempre quel mese, le aziende ebraiche furono incoraggiare a usare le imprese locali in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza come fronti per l’esportazione di merci israeliane nel mondo arabo; un tentativo questo che serviva a rompere il boicottaggio commerciale arabo su Israele.
L’imperativo ideologico era mantenere il controllo sui Territori, laddove la valutazione economica era che farlo potesse essere troppo oneroso. Per ridurre al minimo le spese necessarie alla creazione della nuova realtà occorrevano degli aiuti stranieri, che alla fine sarebbero arrivati, soprattutto dalle tasche dei contribuenti americani e poi quasi esclusivamente dall'UE. Non meno importante era la necessità di assicurare dividendi economici attraverso un monopolio israeliano nei Territori e, in seguito, grazie al reclutamento di una forza lavoro a basso costo tra i palestinesi.
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Il bastone della punizione.
Se, da un lato, questa politica economica doveva fungere essenzialmente da “carota” dell’occupazione, ossia come incentivo affinché la popolazione locale cooperasse, l`uso del “bastone” non era invece di natura precipuarnente economica. Esso infliggeva un colpo complessivo alla dignità, alla libertà e, molto spesso, alla vita di una persona in risposta a qualsiasi atto individuale o collettivo che fosse effettivamente sovversivo o semplicemente ritenuto tale dai nuovi governanti di questa parte di Palestina.
(...)
Sharon fu il primo a adottare il metodo della punizione collettiva in risposta al nascere delle resistenze nella Striscia. La sua politica includeva la demolizione di abitazioni, arresti di massa senza processo, lunghe ore di coprifuoco e violente irruzioni nelle case e nelle baracche.
Nel 2008 è stata creata una pagina web ufficiale per commemorare la vita e le conquiste di Sharon, un sito in cui, anziché tacere del suo ruolo a Gaza in quei giorni, lo si elogiava con orgoglio:
“Sharon partecipa personalmente a queste perquisizioni. Ordina ai soldati di eseguire un'ispezione fisica completa di tutti i maschi e a volte, per poter condurre una perquisizione, impone il coprifuoco nei campi profughi. Il chiaro obiettivo della missione e trovare i terroristi e ucciderli. I soldati hanno ordine di non cercare di catturare i terroristi vivi. Sharon comanda loro di essere duri con la popolazione locale, di eseguire perquisizioni nelle strade e, se necessario, persino di spogliare i sospetti; di sparare per uccidere qualsiasi arabo in possesso di una pistola; di sparare per uccidere qualsiasi arabo che non obbedisca a un ordine di Stop! e di ridurre il rischio per la propria vita non esitando a fare fuoco massicciamente, sradicando gli alberi dai frutteti che rendono difficile la cattura dei terroristi, demolendo le case e cacciandone via i proprietari in altre abitazioni, così da approntare delle strade sicure”. Haidar Abdel-Shafi, un alto capo palestinese, ha dichiarato: “Per garantire la sicurezza, Sharon aveva deciso di aprire delle strade nel campo di Al Shateya e a Rafah. Ciò portò alla rimozione di case, le abitazioni dei profughi, il che non era un'azione da intraprendere alla leggera, tuttavia né Dayan né il governo israeliano fecero obiezioni. Lasciarono che Sharon realizzasse il suo obiettivo e così lui ha davvero distrutto le case di molti rifugiati”.
(…)
I metodi e i dettagli della rappresaglia si fondavano sulle misure militari contro-insurrezionali adottate dai britannici contro i palestinesi durante la rivolta araba degli anni Trenta; a quanto pare, i nuovi governanti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza erano rimasti fortemente impressionati da questa metodologia spietata. Sotto i britannici, questo modello di disumanità era rimasto in vigore per tre anni; per i palestinesi, invece, dura da oltre cinquant’anni.
(...)
Il termine “hashud” (sospetto) finì per riferirsi a qualunque palestinese non fosse gradito agli israeliani; identificava l’arabo Cattivo”. Già all'epoca, essere definito un “sospetto” significava essere colpevole fino a prova contraria, pertanto un “sospettato” era qualcuno che probabilmente sarebbe stato arrestato senza processo, per poi rimanere iscritto in una sorta di registro "criminale" che in seguito gli avrebbe impedito cli lavorare dentro Israele, di superare i posti di controllo, cli ottenere il permesso di aprire un`attività e così per tutti gli altri normali aspetti della vita. L’unico modo per evitarlo, o per essere cancellati dal registro, era diventare un informatore per il servizio cli sicurezza interno israeliano, lo Shabak.

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La pulizia etnica del giugno 1967.

 

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Il 19 giugno 1913, il capo dell'UNRWA in Giordania riferì che dalla Cisgiordania erano giunti 100.000 nuovi rifugiati, i quali erano per lo più esuli per la seconda volta. Lo erano già stati nel 1948 e adesso, nel 1967, venivano ancora una volta espulsi da Israele. La stessa sorte sarebbe toccata a molti altri, mentre al posto loro il governo iniziava a sistemare gli ebrei nell'area della Grande Gerusalemme.
Dayan riferì a “Haaretz” che ai 100.000 che se ne erano andati non sarebbe stato permesso di tornare in quanto -secondo le sue parole- nemici dello Stato di Israele.
È possibile dedurre la vastità delle espulsioni dai rapporti stilati dalla Giordania. Già il 19 giugno i giordani rimarcavano come il governo locale dovesse costruire nuovi campi profughi per far fronte all'afflusso dei palestinesi espulsi. Alla fine, nel giro di un anno, in Giordania furono eretti sette nuovi campi -Souf, Baqa’a, Husn, Irbid, Jerash, Marka e Taibeh- per ospitare sia i nuovi profughi che l’esubero di esuli del 1948 che viveva in tre campi più vecchi. Nei campi appena costruiti trovarono rifugio 250.000 nuovi rifugiati.
Al pari della Cisgiordania, sebbene su scala minore, anche nella Striscia di Gaza questa combinazione di spopolamento e colonizzazione fu la prima artefice di una nuova realtà geopolitica. Qui occorse un po' più di tempo perché il modello di colonizzazione israeliano prendesse forma, ma la costruzione cli un’infrastruttura di controllo sulla Striscia comportò l’esproprio di terre e il trasferimento di persone ancor prima che il 1967 giungesse al termine. Già a giugno, infatti, l`esercito israeliano aveva trasferito con la forza centinaia di persone in Egitto.
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Dai tesori d’archivio del governo e delle Nazioni Unite emergono cinque casi orribili: la massiccia demolizione di case a Qalqilya; la deportazione di un gran numero di persone da Tulkarern; la deportazione di massa di circa 50.000 persone dalla zona di Gerico; la distruzione di tre villaggi nella zona di Latrun; e, per finire, la demolizione di due villaggi nella zona di Hebron. Inoltre, furono sgomberati altri villaggi, come Beit Awa con i suoi 2.500 abitanti e Beit Mirsim con una popolazione di 500 persone. Queste e altre atrocità sono elencate in un raro rapporto delle Nazioni Unite redatto dall’Ufficio del segretario generale nell’ottobre 1971, frutto di un comitato speciale istituito per indagare sulle violazioni israeliane dei diritti umani, che includevano la deportazione, l’annessione, la colonizzazione, la demolizione di case e l'eliminazione dei villaggi.
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Il consolato americano a Gerusalemme riporto l'espulsione di 7.000 palestinesi da Tulkarem, mentre l’ONU riferì che, sotto gli ordini di Dayan, 850 delle 2.000 case di Qalqilya erano state intenzionalmente demolite.
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Se alla fine Qalqilya non si spopolò drasticamente, altri villaggi non furono altrettanto fortunati. Andò peggio ai tre borghi intorno a Latrun: Beit Nuba, Imwas e Yalo. Il 7 giugno, i residenti furono espulsi per eliminare ogni presenza palestinese nei pressi di una nuova via, l'autostrada 1, che da Tel Aviv porta a Gerusalemme. È possibile vedere un raro filmato che descrive la distruzione di Beit Nuba e offre testimonianze oculari da entrambe le parti. Oggi, quando si guida lungo questa autostrada che corre attraverso uno dei panorami più scenografici della Palestina, si può solo immaginare la bellezza dei villaggi che un tempo circondavano l'imponente monastero del Monaco Silenzioso, eretto alla fine dell’Ottocento e incastonato in questa antica valle tra le montagne e il mare. Più di 10.000 persone che vivevano in questi tre villaggi furono espulse il giorno dell’occupazione, e nei tre giorni successivi le loro case vennero distrutte.
Marie Thereze, una suora cattolica, nel giornale della sua chiesa aveva scritto: “Ecco quello che gli israeliani non vogliono farci vedere. Tre villaggi sistematicamente distrutti dal tritolo e dai bulldozer”, osservando che gli abitanti erano stati costretti ad andarsene in fretta e furia, senza poter portare nulla con sé. I loro campi erano rimasti deserti nel bel mezzo delle ore di lavoro, mentre lei poteva scorgere “i trattori dei vicini kibbutzim che si affrettavano a coltivare le terre dei villaggi”. Testimone dell’espulsione fu anche un giornalista israeliano, Amos Kenan, tuttavia il suo rapporto venne pubblicato solo trent'anni dopo su “Haaretz”. Kenan, uno dei soldati che presero parte alla demolizione di Beit Nuba, scrisse: “Ci fu detto che i tre villaggi dovevano essere distrutti per motivi strategici, e anche come vendetta, perché in passato erano stati una piattaforma di lancio per attacchi terroristici e potevano esserlo nuovamente in futuro”.
Nelle sue pagine, ben articolate (negli anni successivi Kenan sarebbe divenuto uno dei più importanti romanzieri israeliani), prende vita l’ultimo momento dell'esistenza di Beit Nuba: “Eleganti case in pietra, frutteti attorno a ogni dimora -olivi, peschi e viti- e accanto a essi alberi di cedro. Tutti frutteti ben tenuti e coltivati [...]. Al mattino arrivò il primo bulldozer e butto giù la prima abitazione. In dieci minuti, la casa, il frutteto e alberi erano spariti. La casa e tutto ciò che conteneva erano stati distrutti [...]. Quando anche la terza casa fu demolita, il convoglio di profughi partì alla volta di Ramallah."
Oggi i tre villaggi pittoreschi sono nascosti dal Canada Park, una foresta di pini analoga a quelle piantare all'indomani della pulizia etnica del 1948 per celare simili atrocità, e adesso parte della terra di Beit Nuba forma una nuova colonia chiamata Beit Horon.
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Divieto governativo alla Croce Rossa di intervenire.
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Egli (Moshe Dayan) infatti convinse il governo a vietare alla Croce Rossa Internazionale qualsiasi coinvolgimento negli affari della popolazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e ordinò che venisse allontanata dai ponti sul Giordano che collegavano la Cisgiordania alla Giordania e che costituivano i principali canali per l'allontanamento dei palestinesi dalla Cisgiordania.
Sotto la sua guida, il governo respinse le richieste avanzate dalla Croce Rossa, nel rispetto della Convenzione di Ginevra di cui Israele era un firmatario, di poter fornire cibo alla popolazione e protezione dall'espulsione, nonché la supervisione dell'applicazione delle leggi di pre-occupazione.
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La prima Intifada, 1987-1993.

 

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L’8 dicembre 1987 quattro abitanti del campo profughi di Jabalya, a Gaza, furono uccisi da un camion; fu questo l’evento che segnò l'inizio della prima rivolta, o Intifada. In seguito, gli storici indicheranno altri avvenimenti violenti, prima e intorno a quella data, come l'inizio “ufficiale” della ribellione. Con il senno di poi, oggi riusciamo a comprendere meglio che a essere così significativi non furono in sé questi singoli incidenti, quanto piuttosto la reazione locale e popolare che li seguì; una reazione che, per un certo periodo, trasformò radicalmente la realtà sul campo. La replica del popolo occupato all’incidente del dicembre 1987 scatenò una risposta senza precedenti per intensità e portata. Dal 1937, infatti, in Palestina non si era più assistito a una simile partecipazione in massa della popolazione contro gli espropri e l’oppressione.
Una settimana dopo, sei palestinesi erano già stati uccisi nella brutale rappresaglia israeliana contro il lancio di pietre, le manifestazioni e i blocchi stradali improvvisati. Nei primi mesi dell'Intifada il numero dei morti trai palestinesi, la maggior parte dei quali venne uccisa nei corso di manifestazioni non violente, salì drasticamente. Seguirono arresti di massa e una politica punitiva volta a paralizzare la vita nei Territori Occupati: le scuole furono costrette a chiudere, i negozi e le imprese vennero sbarrati e la gente fu costretta a rimanere in casa.
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È difficile definire cronologicamente l'Intifada, tuttavia essa durò all'incirca sei anni. 1.000 palestinesi rimasero uccisi per mano degli israeliani e oltre 120.000, molti dei quali non avevano neppure sedici anni, furono arrestati. Come accennato nel capitolo precedente, il modello della prigione aperta era andato crollando gradualmente.
A ciò avevano contribuito diverse cause. La letteratura accademica e popolare ha ben riassunto le ragioni che portarono all'avvio di quella che, nel complesso, fu una campagna di manifestazioni e di disobbedienza civile. La rivolta fu imputata anzitutto agli abusi finora descritti in questo libro. Altri fattori furono l’oppressione economica, la soppressione dei diritti nazionali, l'attacco frontale all’OLP condotto nel 1982 sia all'interno che all'esterno dei Territori, l'indifferenza del mondo arabo e un processo di pace che insisteva nel cercare un modo per spartire la Cisgiordania e la Striscia di Gaza tra il regno hashemita di Giordania e Israele.
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La rivolta ebbe inizio nel campo profughi di Jabalya, a Gaza, nel dicembre 1987. O almeno, questa è la versione accettata dalla storiografia ufficiale: in realtà, pare sia scoppiata simultaneamente in diversi luoghi. Fu un insieme di azioni civili e di resistenza: scioperi generali, boicottaggio delle merci israeliane, rifiuto di pagare le tasse israeliane, il famoso lancio di pietre contro le forze di occupazione e qua e là alcune bottiglie molotov. Purtroppo, vi fu anche un regolamento di conti con i collaborazionisti, una dolorosa reminiscenza del veleno che l’occupazione inietta nei corpi e nelle menti degli occupati.
Israele reagì con grande brutalità a questa rivolta essenzialmente non violenta. Fin dall'inizio, l'eIite politica e militare fu mossa da un impulso basilare -la rabbia- e perciò, nel primo anno dell'Intifada, la maggior parte delle azioni israeliane furono di natura punitiva. Nel caso da noi preso in esame, la metafora dei secondini che reagiscono contro l'insurrezione dei detenuti appare particolarmente indicata. Ciò fu esplicitamente chiarito da Yitzhak Rabin, allora ministro della Difesa, in occasione della sua visita al campo profughi di Jalazone, vicino a Ramallah. Egli infatti dichiarò: “La priorità delle forze di sicurezza è, in primis, impedire le manifestazioni violente ricorrendo alla forza, all'autorità e agli interventi. [...] Faremo capire chi ha in mano la gestione dei Territori”. In molti casi, questi interventi e la forza si tradussero in una vera e propria carneficina che ha prodotto un gran numero di vittime tra i manifestanti.
Il mondo all'esterno rimase a guardare in preda allo sconcerto, come se per la prima volta fossero gli israeliani, e non i palestinesi, a usare la forza. Coloro che si sentivano ancora in grado di mettere alla prova l'impunità di Israele aggiunsero un nuovo eufemismo al vocabolario di ambiguità e al politichese con cui gli occidentali discutevano della questione: le politiche degli israeliani divennero una “gestione manuale” dell'occupazione e dunque, per quanto scioccante si potesse ritenere il loro comportamento, ciò che facevano era semplicemente l’impiego di un “uso eccessivo” che poteva -questo sì- essere condannabile. Molto spesso infatti, l’espressione “uso eccessivo” sarebbe stata utilizzata per descrivere massacri, uccisioni di massa e bombardamenti aerei a tappeto.
Dapprincipio la comunità internazionale, anche coloro che solitamente erano filoisraeliani, non si lasciò convincere dal nuovo eufemismo. Difatti, la prima condanna dell'’”uso eccessivo della forza” giunse proprio dal Dipartimento di Stato americano. I funzionari statunitensi avevano riferito al proprio governo che, fin dall'insorgere della rivolta, le truppe israeliane avevano reagito in maniera esagerata di fronte alle manifestazioni disarmate seguite all'incidente nel campo di Jabalya. I palestinesi, questi i termini usati dagli americani, li ritenevano degli omicidi deliberati: “I soldati hanno spesso usato armi da fuoco in situazioni che non mettevano in serio pericolo la vita delle truppe, causando numerosi morti e feriti non necessari. [...] I soldati dell'IDF (Forze di difesa israeliane) hanno usato randelli per rompere gli arti e picchiare i palestinesi che non erano direttamente coinvolti nei disordini o che non opponevano resistenza all’arresto. [...] A quanto segnalato, sono almeno 13 i palestinesi deceduti in seguito alle percosse”. (Documento ufficiale del Dipartimento di Stato USA 1988-1991)
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Alcune delle azioni punitive condotte dagli israeliani ricordavano i metodi di incarcerazione e reclusione dell’età premoderna; pratiche da tempo bandite nel mondo civilizzato. Tra queste vi erano punizioni corporali prima e durante gli arresti, un metodo particolarmente utilizzato con i bambini e i giovani come parte dell'operazione punitiva. Con il procedere della rivolta, la comunità internazionale divenne sempre più consapevole della persecuzione che si stava perpetrando a danno dei più piccoli.
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La risposta internazionale andò in parte attenuandosi allorché, negli anni successivi, la ribellione fu vista pure come il frutto dell'iniziativa di una nuova forza politica scesa in campo: Hamas. Fintantoché il suo nemico era un gruppo islamico “fondamentalista”, l’islamofobia e l'aggravarsi della lotta tra le potenze occidentali e i vari gruppi politici islamici in tutto il mondo fornivano a Israele una immunità ancora maggiore.
Pertanto, se da un lato Hamas ha dato del filo da torcere agli israeliani, dall'altro li ha anche aiutati a bollare la lotta palestinese come parte di una forza islamica globale antioccidentale impegnata in uno scontro di civiltà. È per questo che molti degli esperti che hanno scritto sulle origini di Hamas hanno attribuito a Israele un ruolo importante nella sua nascita e progressiva affermazione.
Ufficialmente, il movimento fu fondato nel 1987 nella Striscia di Gaza da alcuni membri dei Fratelli musulmani, guidati dallo sceicco Ahmed Yassin, nato nel 1948 in Palestina, nel villaggio di Jura vicino ad Askelan (l’attuale Ascalona).
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Insieme ai compagni, riuscì a creare un movimento nuovo, soprattutto perché si era alla disperata ricerca di un'organizzazione nazionale inedita che fosse in grado di portare la salvezza lì dove quelle esistenti avevano miseramente fallito. Difatti, le organizzazioni laiche venivano ritenute ormai incapaci di trovare un modo per liberare la patria.
Essi divennero potenti anche perché Israele vide il loro emergere come un’utile controforza alle fazioni nazionali laiche, e in particolare a Fatah. La ricerca a sostegno di tale affermazione è ancora scarsa e probabilmente verrà rimandata a una fase più pacifica della storia della Palestina, se mai assisteremo a un evento del genere nel corso della nostra esistenza.
Il marchio dell’ideologia nazionale di Hamas, unito a un’agenda politica islamista, lo ha portato a fare proprie, non solo verso l’occupazione, bensì nei confronti dell'intero Stato ebraico, delle scelte politiche che Fatah stava lentamente abbandonando all'epoca in cui venne trascinato nel fallito e ingannevole “processo di pace”. Le nuove posizioni includevano un rifiuto totale di Israele e richieste nette sul diritto al ritorno dei palestinesi. Tuttavia, il linguaggio impiegato all'epoca era fortemente antisemita e anti-israeliano e, per quanto fosse chiaro che si trattava ancora cli un movimento di liberazione palestinese in lotta contro un secolo di espropri, colonizzazioni e occupazione, e che molto più di altre fazioni Hamas era effettivamente impegnato in opere di carità, assistenza sociale e di istruzione, tutto questo forniva all'Occidente un pretesto per smorzare le proprie critiche nei confronti di Israele.
Ciò sarebbe diventato ancora più ovvio dopo l’11 settembre e la cosiddetta guerra al terrore, allorché si tentò di associare il movimento, e la sua organizzazione sorella, la Jihad islamica, alla Jihad internazionale. Ma il pragmatismo di Hamas nel XXI secolo e la brutalità costante di Israele hanno reso irrilevante e marginale questo tipo di giustificazioni perle azioni degli israeliani.
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L'Amministrazione Civile.
(L’Amministrazione Civile venne istituita da Israele nel 1981, ufficialmente per gestire le questioni non riguardanti la sicurezza, in pratica non era altro che l’ennesima ramificazione dell’esercito.)
A incarnare quotidianamente ciò che significava essere sottoposti a un'azione punitiva collettiva e inflitta alla popolazione nel suo insieme non fu dunque solo l'esercito, ma anche l'Amministrazione Civile. La peggiore di tutte le pratiche era, probabilmente, la restrizione della libertà di movimento. Negli archivi della memoria, i resoconti più moderati di ciò che questa limitazione comportasse per la gente comune sono stati offerti dall’organizzazione israeliana peri diritti umani B’Tselem; quelli peggiori provengono invece dai ricordi dei palestinesi stessi, che li conservano ancora vividi nella mente a distanza di vent’anni.
Anche nella sua forma più cauta, la strategia del rendere quasi impossibile ogni movimento risulta difficile da comprendere per la maggior parte delle persone che vivono nel mondo libero. In quel particolare periodo, dal 1987 al 1993, ogni viaggio richiedeva il doppio del tempo necessario e doveva essere intrapreso su strade nuove, più pericolose e meno affidabili. All'epoca della prigione aperta, Gerusalemme era accessibile alla maggior parte dei palestinesi; ma smise di esserlo una volta introdotto il codice punitivo. Ai palestinesi fu vietato entrarvi e attraversarla, il che significava rendere loro irraggiungibile il proprio centro finanziario, sociale, commerciale e politico. Con il tempo, anche nei periodi più tranquilli, le autorità israeliane hanno continuato a mantenere il blocco; e sarà solo verso la fine del 2012 che il mondo occidentale riconoscerà come una simile restrizione di movimento non fosse in risposta a un'aggressione palestinese, bensì facesse parte di un piano più sistematico destinato al territorio della Grande Gerusalemme. Poiché queste restrizioni sono andate di pari passo con una massiccia colonizzazione ebraica in quell'area, ciò ha precluso qualsiasi possibilità di attuare una soluzione a due Stati, o qualsiasi altra soluzione politica di questo genere.
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 Infatti, l'Amministrazione Civile non solo regolava la libertà di movimento; essa aveva anche il potere di privare chiunque volesse del diritto di lavorare, studiare, edificare e commerciare. Ciascuna delle attività più elementari richiedeva un permesso che poteva essere sospeso o negato.
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Il calendario dell’occupazione.
Il coprifuoco imposto dall`esercito per alcuni giorni a città e villaggi, e durante le feste ebraiche in tutta la Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, costituiva una forma più ridotta di chiusura. Questa prassi fu avviata nel 1967, già nei primi giorni dell’occupazione, e proseguì quotidianamente. Ho scelto un anno in particolare, il 1993, proprio alla vigilia degli accordi di Oslo, per illustrare quale fosse la realtà promessa -e mai realizzata- da tale soluzione. Come rilevato da una ONG che monitorava la politica del coprifuoco, “ogni palestinese che vive nei Territori Occupati ha trascorso una media di dieci settimane in casa col coprifuoco”.
A parte i momenti successivi a un'operazione particolarmente audace o violenta compiuta da una delle fazioni palestinesi, il periodo peggiore nel calendario dell’occupazione erano state le tre giornate a ridosso del giorno dell’indipendenza di Israele (celebrato, secondo il calendario ebraico, nel 1993 in aprile).
Khan Yunis, una cittadina della Striscia di Gaza, fu messa sotto coprifuoco militare per tre giorni insieme a tutte le altre città e villaggi della Cisgiordania e della Striscia. Per quanto breve, il periodo fu sufficiente perché l’esercito mettesse in atto le consuete devastazioni. Muhammad Ahmad al-Astal, allora ventiquattrenne, ha ricordato come i soldati avessero fatto irruzione nella casa in cui era solito riunirsi con gli amici, una decina di palestinesi in tutto. I militari trasferirono quattro di loro in un'altra stanza. Lui rimase con altri tre membri della famiglia. I soldati misero due di loro in un angolo della stanza e li picchiarono con il calcio dei fucili; furono anche presi a schiaffi, pugni e calci. A lui e a un altro membro della famiglia fu ordinato di svuotare l'armadio, tirando fuori vestiti e altri oggetti di uso domestico.
Queste le sue parole: “I soldati mi chiamarono, mi diedero uno schiaffo e mi dissero: “Tu sei uno di Hamas”. Tornai a svuotare l’armadio, ma fui chiamato di nuovo. Questa volta mi dissero: “Sei della Iihad islamica”, e mi schiaffeggiarono ancora”. Segui un terzo giro di abusi in cui gli fu detto: “Sei uno dell'OLP”. Anche un altro uomo presente nella stanza subì un trattamento simile. Vennero chiamati entrambi ancora una volta: “Un soldato mi teneva per il collo e sbatteva le nostre teste una contro l'altra”.
Si scoprì che nella stanza accanto avvenivano gli stessi abusi, dopodiché furono messi vicino a due degli uomini rinchiusi nell’altra stanza e fu ordinato loro di stare in piedi faccia al muro e con le mani in alto: “I soldati ci restituirono le nostre carte d'identità perché le tenessimo in alto e ci dissero di rimanere fermi così”. Mezz'ora dopo, i membri più anziani della famiglia li avvisarono che i militari erano andati via.
Hassan Abd al-Sayidi Abu Labada, un ventinovenne sposato con due figli, anche lui residente a Khan Yunis, fu svegliato dai militari alle due del mattino con una botta in faccia infertagli col fucile da un soldato, a cui seguirono altre percosse. Suo fratello Mannar, ventitré anni, fu tirato via dal letto e scagliato contro la macchina di famiglia, parcheggiata nel cortile. I soldati gli chiesero dove fosse Jamal Abu Samhadana, un uomo che non conosceva. Fu preso a pugni in faccia e poi costretto a svuotare armadi. I militari tagliarono il divano con un coltello. Questo il racconto nelle sue parole: “Avevano trovato un coltello in cucina. “Cos’è questo?” Io risposi: “E un coltello per il pane”. I soldati mi colpirono sul naso con il coltello. Ero ferito e sanguinavo. Un soldato aveva afferrato un sacco di riso e mi ordinò di svuotarlo sul pavimento. Io gli dissi che era solo del riso, perciò lui stesso si mise a svuotarlo, poi prese una latta d'olio e la verso sui vestiti e sul riso. Andarono via. Nessuno fu arrestato e non fu portato via nulla”.
Fatmah Hassan Tabashe Sufian, sessantuno anni, sposata e madre di quattro figli, fu svegliata alle tre del mattino, il 6 aprile 1993. I soldati fecero irruzione in casa sua, la spinsero contro il muro e le chiesero dove fossero i suoi figli: “Stanno dormendo”, rispose la donna. I militari svegliarono suo figlio Saad, trent'anni, prendendolo a calci e picchiandolo con le mani e con il calcio dei fucili, finché non sputò sangue dappertutto. Anche l'altro figlio, Ibrahim, fu picchiato duramente, e il ricercatore di B’Tselem che aveva raccolto la testimonianza di Fatmah verificò che, molto tempo dopo l’incidente, sulla schiena del giovane erano ancora presenti segni di ecchimosi. Entrambi i figli furono trascinati in cortile e messi contro un muro. I soldati avevano trovato due pistole giocattolo e con quelle cominciarono a colpire i due giovani finché i giocattoli non si ruppero. Dopodiché riunirono in una stanza tutti gli abitanti del complesso, in tutto ventisette persone, e vi lanciarono dentro una granata stordente. Mentre continuavano a essere colpiti dai militari che urlavano loro: “Voi siete Hamas e noi siamo Golani [il nome della brigata militare a cui appartenevano]”, a Saad e Ibrahim fu ordinato di svuotare l'armadio. E non fu risparmiato nemmeno l'anziano fratello di Fatmah, un vecchio cieco di cento anni. Anche lui venne maltrattato dai soldati, che gli lanciarono addosso materassi e coperte.
E così ogni aprile, dal 1987 al 1993, fu questa la routine delle punizioni collettive, che però non si limitarono solamente a quei tre giorni. Le punizioni collettive inflitte nel periodo tra marzo e maggio 1993 privarono 116.000 lavoratori palestinesi della loro fonte di sostentamento, divisero i Territori Occupati in quattro aree scollegare tra loro e impedirono ogni accesso a Gerusalemme. Osservati da questa prospettiva, quando vennero siglati come un'intesa per la suddivisione territoriale e la sicurezza, gli accordi di Oslo altro non furono che la conferma ufficiale di una politica già in atto dal 1987.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il consolidamento dei metodi oppressivi.
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Alla pianificazione dei cunei e all'installazione dei posti di blocco avrebbe poi fatto seguito la costruzione effettiva e definitiva dei cunei. Fu così che, verso il 1987, attorno agli ingressi della città fece la sua comparsa una serie di posti di blocco e barriere fisiche, volta a impedire l'accesso ai luoghi di culto, lavoro, istruzione, istituzionali e familiari. Quando la proposta di Oslo fu posta sul tavolo da Israele, i suoi dirigenti sapevano di aver già messo in atto a Gerusalemme una realtà di fatto irreversibile che avrebbe inficiato il concetto stesso di pace. La calcolata strategia attuata da Israele al fine di separare la città dal resto della Cisgiordania rendeva vana e impossibile qualsiasi proposta di rendere Gerusalemme la capitale di un futuro Stato palestinese. L'intera manovra sarebbe stata ultimata con un frettoloso insediamento di ebrei nell’area che avrebbe infine rovesciato l`equilibrio demografico e geografico della città a favore dei residenti ebrei.
Una prassi simile, divenuta poi una consuetudine, fu quella che interesso le unità scelte dell'IDF e che ne mutò drasticamente le finalità e funzioni. In occasione delle manifestazioni palestinesi, infatti, queste si trasformavano in squadroni della morte e agenti provocatori, vestiti in abiti civili oppure con l’equipaggiamento militare completo quando dovevano attaccare il “nemico”, che il più delle volte era una povera abitazione in un campo profughi. Non c`è da stupirsi quindi che queste unità presentassero forti corrispondenze con gli squadroni della morte che operavano nelle favelas brasiliane e che avessero sviluppato armi e altri strumenti bellici letali del tutto simili.
Le persone che, in base al diritto internazionale, Israele era obbligato a portare davanti a un tribunale erano giustiziate ancor prima che venisse stabilito se fossero o no colpevoli.
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Forse a cambiare fu la maggiore trasparenza da parte dei media e il modo di presentare le informazioni, così che la gente di tutto il mondo potesse assistere di persona alla realtà quotidiana, senza affidarsi alle narrazioni e alla propaganda israeliane (un processo che si sarebbe rafforzato con l'arrivo dei primi giovani volontari dell'International Solidarity Movement nei Territori Occupati). L’aspetto più scioccante per un mondo che ora poteva osservare con i propri occhi che cosa significasse subire la crudeltà israeliana era l'alto numero di donne e bambini che costituivano quell'enorme comunità sofferente.
Parecchi aspetti dell'azione punitiva, che all'inizio degli anni Novanta erano ancora celati agli occhi dell'opinione pubblica, negli anni a venire sarebbero invece divenuti parte integrante della realtà. A quelli già menzionati possiamo aggiungere il divieto a lavorare all'interno di Israele. Nel 1992 un terzo della forza lavoro palestinese era impiegato in Israele, per lo più in lavori manuali e poco qualificati nell'edilizia, nell'agricoltura e nei servizi pubblici. Questo contribuiva al 25 per cento del PIL dei Territori.
La negazione del diritto al lavoro divenne quindi parte delle azioni punitive. Il fatto che anche ai tempi della prigione aperta, fino al 1987, le esportazioni palestinesi in Israele costituissero solo l’1 per cento del mercato israeliano aggregato, e i lavoratori solo il 7 per cento del mercato del lavoro dentro Israele, dimostra come fosse possibile imporre economicamente un mega-carcere senza integrare le due economie.
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Quando il divieto di lavorare divenne, al pari di tante altre azioni punitive, parte della realtà che caratterizzò la metà degli anni Novanta, Israele sostituì la manodopera palestinese, soprattutto nei settori dell'edilizia e dell’agricoltura, con i lavoratori sottopagati provenienti da paesi stranieri. Mentre l'economia israeliana non risentì della perdita della forza lavoro palestinese, questa nuova situazione ebbe un effetto devastante sui Territori Occupati, vista la natura della loro dipendenza economica. La disoccupazione subì un'impennata, facendo crollare il reddito delle famiglie e gli standard di vita. Non si trattava più di economia, ma di incarcerazione, penalizzazione e oppressione.
E, ahimè, l'elenco delle brutalità appoggiate dallo Stato non finiva qui. I palestinesi hanno dovuto affrontare la demolizione delle loro case (e, a differenza del passato, questa volta senza preavviso); la distruzione delle loro infrastrutture rurali: lo sradicamento degli ulivi e la rovina dei raccolti; e, con ogni probabilità il peggiore di tutti i mali di questa lista, l’incanalamento delle acque lontano dalle loro città e villaggi, in molti casi a beneficio degli insediamenti ebraici (i quali, dopo l'Intifada, hanno rivenduto l'acqua a un prezzo più alto agli stessi palestinesi a cui era stata sottratta).
Il capo dell'intelligence militare israeliana, Shlomo Gazit (che abbiamo già incontrato come primo coordinatore del governo militare dopo il 1967), ha chiarito come questa distruzione delle infrastrutture sia stata frutto di una scelta deliberata. Israele voleva che i palestinesi andassero “incontro alla disoccupazione e alla carenza di terra e di acqua, così che si potessero creare le condizioni necessarie per la loro partenza dalla Cisgiordania e da Gaza”.
Oltre a tutti questi provvedimenti, nel periodo in cui la mentalità ufficiale in Israele era che gli occupati dovessero essere puniti, i coloni godevano invece di una licenza ancora maggiore di mettere in atto le proprie violenze e intimidazioni. All'epoca, i tribunali mostravano un atteggiamento particolarmente indulgente di fronte all'uccisione di palestinesi da parte dei coloni. Su 48 casi di assassinio di palestinesi da parte dei coloni avvenuti tra il 1988 e il 1992, solo un colpevole fu accusato di omicidio. I coloni hanno perpetrato abusi contro la vita anche in altri modi. In quegli anni di “pace” è stato loro concesso di agire sotto forma di bande organizzate che seminavano il terrore tra i palestinesi residenti nelle vicinanze. Il tutto ebbe inizio nei primi anni Ottanta e da allora non si è più arrestato. Al principio fece la sua comparsa la celebre “Resistenza ebraica”, che nel 1981 prese di mira l’elite politica della Cisgiordania, ferendo gravemente diversi politici di spicco, dopodiché le aggressioni hanno assunto una forma più sistematica che si è intensificata durante il modello del carcere di massima sicurezza, dal 1987 al 1993 e dal 2000 a oggi.
Ed effettivamente, una volta scoppiata la prima Intifada nel 1987, le provocazioni dei coloni contro gli abitanti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza aumentarono e si fecero ogni giorno più crudeli. All’epoca, i coloni non si facevano scrupolo di usare i figli dei palestinesi per provocare le ostilità, come era accaduto nel villaggio di Beita, pochi chilometri a sud-est di Nablus. Laggiù, nel gennaio 1988, un comandante di battaglione raduno un gran numero di giovani di Beita e del vicino villaggio di Hawara, legò loro le mani dietro la schiena e ordinò ai suoi soldati di picchiarli senza pietà con pietre e bastoni. Il fatto fu ripreso dalle telecamere e l'ufficiale venne successivamente processato e congedato dall'esercito (per poi diventare un opinionista televisivo molto richiesto).
Ma ciò non pose fine alle prove e alle tribolazioni patite da questo villaggio. Tre mesi dopo, nell'aprile 1988, sedici ragazzi e ragazze israeliani del vicino insediamento di Alon Moreh partirono per un viaggio di provocazione diretti a Beita. La scorta armata che li accompagnava aprì il fuoco sui giovani palestinesi che lanciavano pietre contro di loro, e nel turbine dello scontro che ne derivò persero la vita due giovani palestinesi, una ragazza tra i coloni e una guardia armata. Il risultato fu che il villaggio andò incontro a una severa punizione.
(…)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La farsa della legalità.

I burocrati incaricati della gestione della parte giuridica del mega-carcere sono alcuni tra i migliori del paese. Dal 1967, ogni anno le facoltà di Legge israeliane hanno sfornato, tra gli altri, un gruppo particolarmente fiero di laureati: i giuristi che hanno abbellito il sistema giudiziario israeliano con la loro saggezza e competenza. Questo sistema è stato, e continua a essere, uno strumento molto attivo del governo contro la popolazione palestinese nei Territori Occupati, sia in quanto parte della rete di tribunali militari diffusi nei Territori stessi, sia come sistema di tribunali civili all`interno dei confini israeliani propriamente detti.
È in queste facoltà cli Legge che i futuri membri del sistema giuridico israeliano -la massima espressione della pretesa di Israele di essere una democrazia liberale- hanno acquisito tutte le qualifiche necessarie per far funzionare la massiccia macchina di arresti e detenzioni in azione dal 1967. Migliaia di palestinesi sono passate attraverso la via crucis legale preparata per loro dallo Stato di Israele. Le stazioni di questa via sono ormai note: arresto, interrogatorio, detenzione per molti giorni senza contatti telefonici o accesso a un avvocato, comparizione in tribunale più volte per la proroga della detenzione, e poi un lungo periodo di carcerazione senza processo come parte della “detenzione amministrativa”.
(...)
Lo scenario non era poi dissimile da quello di un paese retto dalla Stasi, in cui era possibile arrestare e punire senza una motivazione, meglio ancora se con prove fornite da un informatore.
Nei primi anni Novanta, la costruzione di un sistema così elaborato raggiunse livelli inauditi. I giudici fornivano i collaboratori, che a loro volta ricevevano le prove dai servizi segreti. Il sistema di arresti senza processo dava a questi ultimi l'opportunità di costringere le persone a collaborare in cambio di una riduzione della pena (al fine di non destare sospetti, questi collaboratori non venivano rilasciati immediatamente, ma ciò non era comunque di grande aiuto visto che tutti, all'interno del carcere, sapevano già cosa stava accadendo). Così agendo, i servizi segreti hanno reclutato centinaia di palestinesi ed effettivamente sono riusciti a piazzare informatori all'interno di Hamas e della sua organizzazione sorella, la Jihad islamica. Sfortunatamente, però, ciò ha anche innescato una spietata contro-offensiva punitiva nei confronti dei collaborazionisti. Tra il 1987 e il 1992, diverse centinaia (le stime sono contrastanti) di palestinesi vennero uccisi per aver collaborato.
(...)
Non sorprende quindi che la narrazione ufficiale israeliana della prima Intifada, destinata al pubblico interno ed estero, fosse che l'esercito israeliano stava combattendo contro alcune organizzazioni terroristiche. Per la prima volta dal 1967 la comunità internazionale, compresa l`amministrazione statunitense, rifiutò di accettare questa versione. L'Intifada, e l’accoglienza positiva ottenuta a livello internazionale, indusse un gruppo di giovani politici e accademici israeliani a formulare una nuova versione del modello di prigione aperta. Il loro suggerimento fu quello di non bollate più l'OLP come un'organizzazione terroristica e di affidarle invece la gestione della prigione al posto di Israele. (Con mia grande vergogna, e seppure svolgendo un ruolo davvero marginale all'inizio del processo, ammetto che io stesso feci parte di questo gruppo). E nel settembre 1993 questa formula divenne la base per i famosi accordi di Oslo. Si trattò di una mossa importante, perché il mondo fu davvero sul punto di reagire a quelle che, ormai in modo chiaro, apparivano essere le reali intenzioni di Israele; poi però vi furono gli accordi di Oslo, che ipnotizzarono -quasi anestetizzandole- le coscienze in Occidente.
Fu anche il momento in cui si offrì l’opportunità, a mio avviso l'ultima, per liberare i Territori Occupati e sperimentare seriamente l’ipotesi di una soluzione a due Stati (sebbene non creda che questa sarebbe stata la soluzione giusta, tuttavia la si sarebbe potuta testare con maggior scrupolo). Durante la prima Intifada, malgrado i loro mezzi e risorse scarsi, i palestinesi avevano iniziato a costruire una struttura indipendente per la loro società. Si erano arrangiati con i beni israeliani, avevano creato dei propri ambulatori medici mobili e approntato dei servizi sociali indipendenti (come la distribuzione di cibo e vestiti per i bisognosi). Le restrizioni imposte da Israele alle università e alle scuole superiori avevano dato impulso alle lezioni clandestine con una qualità di insegnamento davvero elevata, mentre anche altri aspetti dell'indipendenza avevano iniziato a maturare.
Anche la questione della sicurezza venne affrontata in maniera assolutamente inedita. Non vi era alcun senso di illegalità, poiché l'organismo che coordinava la rivolta, chiamato dalla gente del posto il “Comando unificato”, si era fatto carico di organizzare per la notte la sorveglianza locale dei villaggi e dei campi profughi contro le incursioni dell'esercito e dei coloni. La sicurezza non fu impiegata come un'appendice delle forze israeliane, bensì per l’autodifesa.
Si trattò pure di un momento in cui l'orgoglio nazionale collettivo fu rivolto alla costruzione di una realtà nuova e non solo alla distruzione di quella vecchia. O ancora, per citare le parole usate dall’attivista sociale australiana Sonja Karkar nel riassumere la prima lntifada: fu un momento di presa di potere e coscienza nazionali. Ciò fu particolarmente vero per le donne che, nella propria lotta per scrollarsi di dosso non solo l’occupazione ma anche il lato più oppressivo della tradizione, avevano istituito dei comitati. (Questa fu un'altra occasione perduta per costruire una realtà alternativa, se solo l'Occidente fosse stato disposto a considerare l’Intifada come una legittima lotta di liberazione o il precursore della Primavera araba). Anziché le armi o una carta della patria grondante di sangue, la bandiera palestinese e i suoi colori divennero il simbolo di quel momento, sia che venisse sventolata sui tetti oppure cucita sui vestiti e ricamata sui tessuti.
Alla fine, la prima rivolta portò a un nuovo modello di prigione aperta, e quando falli anche questa versione scoppiò un’altra ribellione ancora più grave. Nel 2000, gli israeliani sedarono la seconda rivolta adottando un modello duro di carcere di massima sicurezza, che fu portato avanti per qualche anno e che intorno al 2005 venne trasformato in un misto di entrambi i modelli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La farsa di Oslo e la seconda Intifada.

 

Il 13 settembre 1993, sul prato della Casa Bianca e sotto gli auspici del presidente Bill Clinton, Israele e l’OLP siglarono una dichiarazione di principi conosciuta come gli “accordi di Oslo”. In virtù di questo, il capo dell'OLP Yasser Arafat, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il ministro degli Esteri Shimon Peres avrebbero poi ricevuto il Nobel per la pace. Gli accordi chiudevano un lungo periodo di negoziati, avviato nel 1992, tra l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e Israele. Fino a quell’anno, Israele si era sempre rifiutato di trattare direttamente con l'OLP sul destino della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, o sulla questione palestinese in generale. I governi israeliani che si erano succeduti avevano preferito negoziare con la Giordania, anche se a partire dalla metà degli anni Ottanta avevano acconsentito che i rappresentanti dell’OLP si unissero alle delegazioni giordane.
Erano varie le ragioni dietro il cambio di rotta degli israeliani che aveva reso possibile negoziare direttamente con l’organizzazione guidata da Arafat. La prima fu la vittoria del Partito Laburista alle elezioni del 1992 (per la prima volta dal 1977) e la formazione di un governo maggiormente interessato a una soluzione politica rispetto ai precedenti guidati dal Likud. Il nuovo governo comprese che i tentativi di trattare direttamente sull`autonomia con la leadership locale erano in stallo poiché ogni decisione dei palestinesi veniva rimandata a Tunisi, al quartier generale dell’OLP; era dunque più utile stabilire una linea diretta.
La seconda ragione erano le apprensioni israeliane per l'iniziativa di pace di Madrid, un’impresa voluta dagli americani e volta a condurre Israele, i palestinesi e il resto del mondo arabo ad accordarsi su una soluzione dopo la prima guerra del Golfo. I padri di questa iniziativa, avviata nel 1991, erano stati il presidente George Bush senior e il suo segretario di Stato, James Baker. Entrambi i politici affermarono che l'ostacolo alla pace era Israele e fecero pressioni affinché quest'ultimo accettasse di bloccare la costruzione di insediamenti, in modo da offrire una possibilità alla soluzione dei due Stati. In quel periodo, le relazioni israelo-americane erano scese a dei minimi storici senza precedenti. La stessa amministrazione aveva attivato anche un contatto diretto con l’OLP. La Conferenza di Madrid del 1991 e gli sforzi di pace condotti sotto la sua egida furono probabilmente il primo vero tentativo fatto dagli Stati Uniti al fine di trovare una soluzione per la Cisgiordania e la Striscia di Gaza che si fondasse sul ritiro da parte degli israeliani. L'élite politica israeliana voleva ostacolare la mossa e stroncarla sul nascere. Optò quindi per l'avvio di una sua proposta di pace, cercando di convincere i palestinesi ad accettarla. Per inciso, anche Yasser Arafat era insoddisfatto dello scenario emerso a Madrid, giacché ai suoi occhi la dirigenza palestinese locale nei Territori Occupati, capeggiata a Gaza da Haidar Abdel-Shafi e a Gerusalemme da Faisal al-Husseini, minacciava di offuscare la sua stessa egemonia e popolarità assumendo la guida di quei negoziati.
Perciò, mentre a Madrid venivano portati avanti degli sforzi di pace, l'OLP a Tunisi e il Ministero degli Esteri israeliano a Gerusalemme fecero marcia indietro per avviare dei negoziati. Quei primi colloqui trovarono un mediatore volenteroso nella Fafo Foundation (FAFO), una fondazione di ricerca norvegese con sede a Oslo. Alla fine, le due squadre si incontrarono all’aperto nel1 agosto 1993 e, con il coinvolgimento americano, finalizzarono la Dichiarazione di principi, che fu salutata come la fine del conflitto allorché venne sottoscritta con grande enfasi teatrale sul prato della Casa Bianca, nel settembre 1993.
Due sono le mistificazioni legate al processo di Oslo. La prima è che si sia trattato di un autentico processo di pacificazione, mentre la seconda è che Yasser Arafat lo abbia fatto deliberatamente naufragare istigando una seconda Intifada come azione terroristica contro Israele.
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La partizione.
Il processo di pace è stato un fallimento fin dall’inizio.
Per comprendere meglio l'insuccesso di Oslo, occorre allargare il campo di osservazione e mettere in relazione tra loro gli eventi, in particolare alla luce di due temi che sono rimasti irrisolti durante tutto il processo. Il primo era la preminenza della partizione geografica e territoriale come fondamento esclusivo della pace; il secondo, la negazione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e la sua esclusione dal tavolo dei negoziati.
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In breve, nel 2000 anche un Arafat ormai esautorato si rese conto che l’interpretazione israeliana di Oslo significava, per i palestinesi, la fine di ogni speranza di una vita normale e la condanna a un futuro di sofferenze ulteriori. Ai suoi occhi, questo scenario non solo era moralmente sbagliato, ma avrebbe anche rafforzato, come sapeva fin troppo bene, coloro che vedevano nella lotta armata contro Israele l'unico modo per liberare la Palestina. Lo Stato ebraico avrebbe potuto fermare la seconda Intifada in qualsiasi momento, ma il suo esercito aveva bisogno di un “successo”. Questo fu ottenuto grazie alla barbara operazione “Scudo difensivo” del 2002 e alla costruzione del famigerato “muro dell’apartheid”, quando, e soltanto allora, gli israeliani riuscirono temporaneamente a reprimere la seconda Intifada.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Cisgiordania, 2005-2017.
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Proprio come nel 1967, anche in questo caso la mega-prigione è stata oggetto di una messa a punto costante. La Cisgiordania non si trova sotto assedio come la Striscia di Gaza, tuttavia i movimenti in ingresso e in uscita sono estremamente limitati. Ai suoi abitanti è vietato usare l'aeroporto Ben-Gurion di Tel Aviv. È loro concesso il ricorso a due valichi principali verso la Giordania, uno dei quali è il ponte Allenby/re Hussein, un passaggio controllato dagli israeliani. L'altro invece, il ponte Damia, ufficialmente annesso a Israele, è destinato all’uso commerciale e consente solo l'esportazione di merci verso la Giordania, mentre le importazioni di qualunque genere sono vietate.
Anche la circolazione all'interno della Cisgiordania è fortemente limitata. Tutte le strade principali (in tutti i circa 700 chilometri che costituiscono la regione) sono vie dell'apartheid; in altre parole, ai palestinesi è vietato usarle. Dal 2007 infatti, il controllo delle strade è stato rafforzato. E di recente la circolazione è diventata ancora più difficile da quando le autorità israeliane hanno ultimato la costruzione di una nuova autostrada (divisa da un muro che separa l’arteria in corsie ebraiche e corsie palestinesi), che da nord a sud taglia in due la Cisgiordania.
(...)
Un poco alla volta, la comunità internazionale si è resa conto che a essere messi in pericolo dalla continua oppressione non sono solamente i diritti umani e civili, ma anche la sopravvivenza stessa dell'economia cisgiordana. Secondo un rapporto stilato nel 2007 dalla Banca Mondiale, l'occupazione israeliana della Cisgiordania ha letteralmente distrutto l'economia palestinese. Ad averla tenuta in vita, per quanto in misura ristretta, sono stati unicamente gli aiuti internazionali. Se questi dovessero cessare, la realtà economica diverrebbe ancor più precaria. Allo stato attuale delle cose, è improbabile che questa possa crescere al punto da poter alleviare in maniera sostanziale le difficoltà economiche del popolo cisgiordano.
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Il carcere di massima sicurezza nella sua forma più estrema: la Striscia di Gaza.

 

2004: la città fittizia.
Nel 2004 l’esercito israeliano iniziò a costruire una città araba fittizia nel deserto del Negev. Questa aveva le dimensioni di una città vera e propria, con strade (tutte dotate di un nome), moschee, edifici pubblici e automobili. Costruita al costo di 45 milioni di dollari, nell’inverno del 2006 la città fantasma era diventata una replica di Gaza, così che l'esercito israeliano, vista la battuta d'arresto subita a nord nel conflitto con Hezbollah, si potesse preparare a combattere a sud una “guerra migliore” contro Hamas.
Dopo aver visitato il sito all'indomani della guerra in Libano, il capo di stato maggiore israeliano, Dan Halutz, annunciò alla stampa che i soldati si stavano “preparando per lo scenario che si aprirà nel popolato quartiere di Gaza City”. Una settimana prima di bombardare Gaza, Ehud Barak assistette a una prova generale della guerra via terra. Le troupe televisive straniere lo filmarono mentre osservava le truppe di terra conquistare la città fittizia, prendendo d'assalto le case vuote e uccidendo senza indugio tutti i “terroristi” che vi si nascondevano.
Nel 2009, proprio quando l'attacco alla città fittizia fu sostituito da un assalto alla Gaza vera e propria, l’ONG israeliana Breaking the Silence aveva pubblicato un rapporto sulla preparazione dei soldati, dei riservisti e di altri militari all'operazione “Piombo fuso”. In sostanza, tutte le testimonianze concordavano sul fatto che i soldati avessero ricevuto l'ordine di attaccare Gaza come se si trattasse di un'imponente roccaforte nemica: ciò risultava evidente dalla potenza di fuoco impiegata, dall'assenza di ordini o procedure per agire correttamente in un contesto civile e dalle azioni sincronizzate via terra, mare e aria. Tra le pratiche peggiori che i militari avevano preparato vi furono la demolizione insensata di case, il lancio di bombe al fosforo sui civili e l’uccisione di gente innocente con l’artiglieria leggera, il tutto obbedendo agli ordini dei propri comandanti di agire nella più assoluta mancanza di ogni freno morale. “Ti senti come un ragazzino immaturo che, con una lente d’ingrandimento, tormenta le formiche fino a dare loro fuoco”, aveva testimoniato un soldato. In breve, essi avevano attuato nella città reale una distruzione totale in linea con l’addestramento ricevuto nella città fittizia.
Era questa la nuova versione del carcere di massima sicurezza che attendeva i palestinesi nella Striscia di Gaza, giacché il governo israeliano e i responsabili della sua politica di sicurezza si erano resi conto che il modello della prigione aperta, in cui la popolazione della Striscia avrebbe dovuto essere rinchiusa sotto un governo collaborativo dell'AP, era stato mandato a monte dalla popolazione stessa. Tuttavia, neppure la ritorsione per mezzo dell'assedio e del blocco di Gaza riuscì a farla arrendere al modello voluto dagli israeliani. I gruppi politici palestinesi interni alla Striscia, guidati da Hamas, decisero di vendicarsi lanciando occasionali raffiche di missili rudimentali, affinché Israele e il mondo non si dimenticassero di loro e della vita che conducevano in una prigione ermeticamente chiusa.
È così che è avvenuto il fiasco israeliano del 2005, trasformatosi poi in quello che altrove ho definito “il genocidio incrementale della Palestina”. Gli israeliani avevano chiamato la prima operazione condotta contro Gaza “Prima pioggia”; più che un rovescio di acqua benedetta, fu una pioggia di fuoco dal cielo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2005: la “Prima pioggia”.
La militarizzazione della politica israeliana nei confronti della Striscia di Gaza ebbe inizio nel 2005. Quell'anno, infatti, per gli israeliani Gaza divenne ufficialmente un obiettivo militare, quasi si trattasse di un’enorme base nemica piuttosto che di una località dove risiedevano dei civili. Gaza è una città come qualsiasi altra al mondo, eppure per gli israeliani essa era diventata un sito fittizio in cui far sperimentare ai propri soldati le armi più recenti e avanzate.
Questa politica fu resa possibile grazie alla decisione del governo israeliano di sfrattare i coloni ebrei che si erano insediati nella Striscia a partire dal 1967. Secondo quanto riportato, i coloni erano stati trasferiti in accordo con quella che il governo aveva definito una politica unilaterale di disimpegno, adducendo come argomentazione il fatto che, non essendoci stati progressi nei colloqui di pace con i palestinesi, alla fine spettava a Israele stabilire quali sarebbero stati i propri confini con le aree palestinesi. In sostanza, il primo ministro Sharon era disposto a trasformare la Striscia in un'Area A analoga a quella cisgiordana, così da poter rafforzare la morsa israeliana sulla Cisgiordania (inoltre, sfrattando da Gaza i coloni contro la loro volontà, avrebbe provocato un presunto trauma che avrebbe poi legittimato Israele a non ripetere mai più un simile errore).
Le cose però non andarono come previsto. Allo sgombero dei coloni seguì infatti la presa di potere da parte di Hamas, prima con le elezioni democratiche, poi tramite un colpo di Stato messo in atto preventivamente onde evitare una vittoria di Fatah sostenuta dagli americani. La risposta immediata degli israeliani fu quella di imporre un embargo economico sulla Striscia di Gaza, a cui Hamas rispose con il lancio di missili su Sderot, la città più prossima alla Striscia. Ciò forni a Israele il pretesto per ricorrere alla forza aerea, all’artiglieria e agli elicotteri d'assalto. A quanto dichiarato dagli israeliani, il fuoco veniva indirizzato sulle zone di lancio dei missili, ma in pratica questo significava colpire ovunque nella Striscia.
Nel settembre 2005, a Gaza i palestinesi reagirono con forza all'azione intentata dagli israeliani, i quali -come ebbe a dire il relatore speciale dell'ONU John Dugard- avevano creato una prigione per poi gettarne la chiave in mare. Essi erano determinati quantomeno a dimostrare di fare ancora parte della Cisgiordania e della Palestina.
Quello stesso mese effettuarono quindi il primo lancio significativo (a livello numerico, non certo qualitativo) di missili sul Negev occidentale; come spesso accade, questi provocarono danni ad alcune proprietà e solo di rado perdite umane. Gli eventi di settembre meritano di essere esaminati in dettaglio, poiché prima di quel mese la risposta iniziale di Hamas era stata uno sporadico lancio di missili. In particolare, quello avvenuto nel 2005 era stato la risposta data alla campagna di arresti in massa di attivisti di Hamas e della Jihad islamica compiuta dagli israeliani nell'area di Tul Karem; all'epoca, era impossibile non avere l'impressione che l'esercito volesse provocare una reazione da parte di Hamas. E infatti, quando questa giunse, diede l'abbrivio a una dura politica di uccisioni di massa, la prima del suo genere, il cui nome in codice era, come abbiamo già detto, “Prima pioggia”.
Vale la pena soffermarsi un momento sulla natura di quell'operazione, che era stata presentata come una punizione e che, in ogni aspetto, ricordava le misure punitive inflitte nel passato più lontano dalle potenze coloniali, e più di recente dalle dittature, contro le comunità ribelli tenute prigioniere oppure messe al bando. Non era altro che una spaventosa ostentazione di aggressività da parte dell'oppressore conclusasi con un gran numero di morti e feriti. Durante l’operazione “Prima pioggia”, gli aerei supersonici volavano su Gaza per terrorizzare l'intera popolazione, seguiti da pesanti bombardamenti sferrati via mare, via cielo e via terra su vaste aree. Come chiarito dall’esercito israeliano, la logica era quella di mettere sotto pressione il popolo di Gaza così da indebolirne il sostegno a coloro che lanciavano i razzi. Tuttavia, come tutti si aspettavano, compresi gli israeliani, l’operazione non fece altro che aumentare l'appoggio a quest'ultimi, dando impulso a ulteriori tentativi.
Con il senno di poi, specialmente alla luce della spiegazione fornita dai comandanti militari israeliani secondo cui, da tempo, l'esercito stava preparando l'operazione “Piombo fuso” attuata tra il 2008 e il 2009, è possibile che il vero intento di quella particolare operazione fosse di tipo esplorativo. E qualora il desiderio dei generali israeliani fosse stato quello di appurare in che modo tali operazioni sarebbero state accolte in patria, nella regione mediorientale e nel mondo in generale, apparentemente la risposta nell'immediato fu “molto bene”; vale a dire che nessun governo mostrò il benché minimo interesse per le decine di morti e le centinaia di feriti palestinesi che la “Prima pioggia” si era lasciata dietro.
Le operazioni successive hanno seguito un andamento simile. La differenza è stata nella loro escalation: sempre più potenza di fuoco, più vittime e più danni collaterali e, come ci si poteva attendere, un assedio e un embargo più serrati. Un`escalation a cui i palestinesi hanno reagito lanciando ancora più missili Qassam.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'umiliazione in Libano e la “compensazione” a Gaza.
Tutto il 2006 fu un susseguirsi frequente di lanci di proiettili dai carri armati, di bombardamenti via aria e via mare e di incursioni brutali. Tuttavia, quando in estate Israele venne sconfitto su un altro fronte, quello nel Libano del Sud, l'esercito intensificò ulteriormente la sua politica punitiva a danno del milione e mezzo di persone che vivono nei 40 chilometri quadrati più densamente popolati del pianeta. La brutalità della politica israeliana fu tale da attagliarsi perfettamente alla definizione di genocidio così come è formulata dall'articolo 2 delle Nazioni Unite, in cui si sottolinea che essa può essere applicata ad azioni contro una parte di (e non necessariamente contro tutta) una popolazione etnica o nazionale. Le armi usate da Israele -bombe da 1.000 chili, carri armati, missili aerei e bombardamenti via mare contro le aree civili- non avevano lo scopo di scoraggiare, ferire o ammonire. Il loro intento era uccidere.
Non sorprende quindi che la reazione di Hamas fosse divenuta ancora più disperata. Non pochi osservatori, dentro e fuori Israele, attribuirono l'escalation alla volontà di dimostrare che l'esercito israeliano si fosse prontamente ripreso dall'umiliazione subita per mano di Hezbollah in Libano. L'esercito aveva infatti bisogno di mostrare la propria superiorità e capacità di deterrenza, che considerava la principale protezione per la sopravvivenza dello Stato ebraico in un mondo “ostile”. La matrice islamica tanto di Hamas quanto di Hezbollah e una loro presunta, e totalmente falsa, associazione con al-Qaeda gli consentirono di figurarsi un Israele al comando di una guerra globale contro il jihadismo a Gaza. Fintantoché George W.Bush era in carica, l'uccisione di donne e bambini a Gaza poteva essere accettata anche dall’amministrazione americana come parte di quella guerra santa contro l'islam.
Per gli abitanti di Gaza, il mese peggiore del 2006 fu settembre, quando il nuovo modello assunto dalla politica israeliana divenne fin troppo ovvio. Quasi ogni giorno, l’IDF uccideva dei civili; e anche il 2 settembre 2006 fu una di quelle giornate. A Beit Hanoun, furono uccisi tre cittadini e i componenti di un’intera famiglia rimasero feriti.
Ma questo era solo il raccolto del mattino; prima che la giornata giungesse al termine molti altri vennero uccisi. In quel settembre, durante gli attacchi israeliani sulla Striscia, ogni giorno sono morti una media di otto palestinesi, molti dei quali bambini. Centinaia sono rimasti mutilati, feriti e paralizzati.
Più che altro, le uccisioni sistematiche apparivano come un massacro per inerzia dovuto all'assenza di una politica chiara.
(...)
Il 28 dicembre 2006 B'Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani, pubblicò il suo rapporto annuale sulle atrocità israeliane nei Territori Occupati. Quell'anno le forze israeliane avevano ucciso 660 cittadini. Rispetto all'anno precedente (circa 200), nel 2006 il numero di palestinesi assassinati da Israele era triplicato. Secondo B'Tselem, quell'anno gli israeliani avevano ucciso 141 bambini. La maggior parte delle vittime proveniva dalla Striscia di Gaza, dove le forze israeliane avevano demolito quasi 300 case e sterminato intere famiglie. Ciò significa che dal 2000 le forze israeliane avevano ucciso quasi 4.000 palestinesi, molti dei quali bambini; i feriti invece erano oltre 20.000. B'Tselem è un'organizzazione moderata, pertanto le cifre fornite potrebbero essere anche superiori.
(…)
All’operazione “Prima pioggia” seguì “Piogge estive”, un nome generico che dal giugno 2006 contrassegnò tutte le operazioni “punitive” (in un paese in cui d'estate non piove mai, l'unica precipitazione che ci si poteva attendere erano i rovesci di bombe degli F-16 e dei proiettili di artiglieria che cadevano sulla popolazione di Gaza).
Con “Piogge estive” fu introdotta una componente nuova: l'invasione via terra in alcune parti della Striscia di Gaza, che ha consentito all'esercito di perpetrare l'assassinio di cittadini in maniera ancora più efficace, facendolo passare come il risultato di pesanti combattimenti all'interno di aree densamente popolare, un esito inevitabile dovuto alle circostanze anziché alle politiche israeliane. Con la fine dell'estate arrivò poi l'operazione “Nuvole d'autunno”, che si dimostrò ancora più efficiente: il 1 novembre 2006 infatti, in meno di quarantottore gli israeliani uccisero 70 civili; alla fine dello stesso mese, grazie alle ulteriori mini-operazioni a essa correlate, ne furono uccisi quasi 200, la metà dei quali erano donne e bambini.
Nel passaggio da “Prima pioggia” a “Nuvole d’autunno”, tutti i parametri indicavano un’escalation. Il primo fu l’eliminazione della distinzione tra obiettivi militari e civili: le uccisioni sconsiderate trasformarono l'intera popolazione nel bersaglio principale delle operazioni condotte dall’esercito. Il secondo fu l’inasprimento dei mezzi utilizzati per compiere le stragi: l’impiego di ogni possibile macchinario a disposizione dell'esercito per uccidere. In terzo luogo, l’escalation si dimostrò notevole quanto al numero delle vittime: a ogni operazione, e in ogni manovra successiva, le vittime e i feriti non facevano che aumentare ulteriormente. Infine, e cosa ancora più importante, le operazioni divennero una strategia, ossia il modo in cui Israele intendeva risolvere il problema della Striscia di Gaza.
Anche nel 2007, le due tattiche seguite furono i trasferimenti graduali in Cisgiordania e una misurata politica genocida nella Striscia di Gaza. Da un punto di vista elettorale, quella adottata a Gaza si rivelò più problematica poiché non produceva alcun risultato tangibile, laddove la Cisgiordania guidata da Abu Mazen stava cedendo alle pressioni israeliane e non sembrava esserci alcuna forza di rilievo in grado di arrestare la strategia di annessione ed espropriazione perseguita dallo Stato ebraico. Nonostante tutto, Gaza aveva continuato a rispondere al fuoco. Da un lato, ciò permise alle forze armate israeliane di compiere operazioni di genocidio più massicce; dall'altro però, vi era pure il grande rischio, già emerso nel 1948, che l'esercito richiedesse di intraprendere contro la popolazione assediata della Striscia un'azione “punitiva” e collaterale ancora più drastica e sistematica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2007-2008: la politica diventa una strategia.
Nel 2007 le vittime crebbero. Nella Striscia di Gaza furono uccise 300 persone, tra cui decine di bambini. Tuttavia, durante l’amministrazione di George W.Bush, e sicuramente nel corso di quella successiva, la falsa credenza di combattere la jihad mondiale a Gaza aveva cominciato a perdere di credibilità. Perciò, in quell’anno fu proposta una nuova mistificazione: la Striscia era una base terroristica determinata a distruggere Israele. L'unico modo in cui i palestinesi potevano essere, per così dire, “de-terrorizzati” era costringerli ad acconsentire a vivere in una Striscia circondata da muri e filo spinato. I rifornimenti, come anche i movimenti, dentro e fuori la Striscia dipendevano dalle scelte politiche dei suoi abitanti. Qualora avessero persistito nel sostenere Hamas, di fatto sarebbero stati strangolati e portati alla fame finché non avessero mutato il proprio orientamento ideologico. Se invece avessero ceduto alla politica che Israele voleva che adottassero, sarebbero andati incontro allo stesso destino subito dai palestinesi in Cisgiordania: una vita priva dei diritti civili e umani fondamentali. Potevano essere detenuti nella prigione aperta della Cisgiordania oppure incarcerati in quella di massima sicurezza della Striscia di Gaza. Se avessero opposto resistenza, il rischio sarebbe stato la detenzione senza processo oppure l'uccisione. Ecco qual era il messaggio di Israele nel 2007, e alla gente di Gaza fu concesso un anno di tempo, ossia il 2008, per prendere una decisione.
(…)
Ancora una volta, era all'opera l’antico metodo di aspettare il giusto pretesto per procedere e intensificare la lotta contro l'unica resistenza che rimaneva intatta. L’addestramento nella città fittizia divenne ora una macchina da guerra e fu trasformato in una vera e propria dottrina della politica israeliana nei confronti di Gaza, che divenne nota come la “Dottrina Dahiya”. Il quotidiano “Haaretz” l'aveva menzionata per la prima volta nell'ottobre 2008. In sostanza, essa consisteva nella distruzione completa di un'area e nell’impiego di una forza senza pari in risposta al lancio di missili. “Haaretz” l'aveva prospettata come un possibile scenario che si sarebbe potuto presentare in Libano, da qui dunque il riferimento a Dahiya (un quartiere sciita di Beirut che nel 2006 venne fatto saltare in aria durante l'attacco aereo israeliano sulla città). Gadi Eizenkot, allora a capo del comando nord, dichiarò: “per noi i villaggi sono basi militari”. L'ufficiale parlò della loro distruzione totale come di un'azione punitiva. E il suo collega al vertice dell'esercito, il colonnello Gabi Siboni, confermò che quanto dichiarato valeva pure per la Striscia di Gaza. E aggiunse: “con questo intendiamo arrecare un danno tale per cui ci vorrà parecchio tempo per riprendersi”.
E dunque, tutto era pronto per riaccendere la Striscia. Il primo passo fu quello di stringere l'assedio su Gaza. Ciò produsse una penuria dei generi alimentari di base, la mancanza delle medicine più comuni e suscitò una claustrofobia generalizzata in un milione e mezzo di persone a cui era impedito ogni movimento. L'assedio comprendeva persino severe restrizioni dei diritti di pesca, che rappresenta una delle principali fonti di reddito per la Striscia. Negli ultimi anni, la marina israeliana, altamente sofisticata ma inattiva, si è occupata principalmente di inseguire piccoli gommoni e barche da pesca.
A ogni modo, Hamas scelse di non cedere e rifiutò di andarsene in cambio della rimozione dell'assedio. Si cercò quindi un altro pretesto: nel giugno 2008, per una settimana ogni giorno Israele violò il cessate il fuoco con diversi attacchi aerei e incursioni sulla terraferma. Di conseguenza, gruppi non affiliati ad Hamas risposero con il lancio di diversi razzi e così l'opinione pubblica israeliana fu pronta per un’operazione più ampia.
Per rafforzare la propria strategia, nel novembre 2008 l’esercito israeliano attaccò un tunnel, uno dei tanti scavati per sopravvivere all’assedio, sostenendo che si trattasse di un'azione preventiva per sventare una futura operazione di Hamas. A quel punto, quest’ultimo rispose sparando dei razzi. Nell'attacco, in cui persero la vita sei dei suoi membri, venne lanciata una raffica di oltre trenta razzi. Alla fine del mese Hamas dichiarò che le azioni compiute dagli israeliani, essendo ormai divenute un evento all'ordine del giorno, avevano rotto la tregua.
Il 18 novembre 2008, Hamas proclamò dunque finito il cessate il fuoco e il 24 intensificò, brevemente, le raffiche di missili in risposta alla precedente azione israeliana, dopodiché smise di sparare. Come al solito, le vittime sul versante israeliano furono pressoché nulle, anche se alcune case e alcuni appartamenti vennero danneggiati lasciando in preda allo shock i cittadini colpiti.
L'attacco missilistico del 24 novembre era però quello che l’esercito israeliano stava aspettando. Perciò, a partire dal mattino seguente e fino al 21 gennaio 2009, effettuò sul milione e mezzo di abitanti di Gaza dei bombardamenti via aria, via mare e via terra. A questi Hamas rispose lanciando dei missili che fecero tre vittime, mentre rimasero uccisi altri dieci soldati israeliani, alcuni dei quali dal fuoco amico.
Le prove raccolte dalle organizzazioni israeliane per i diritti umani, dalle agenzie internazionali e dai media (sebbene gli israeliani avessero impedito ai giornalisti di entrare nella Striscia) -alcune delle quali riportate nel Rapporto Goldstone, un resoconto molto cauto e prudente di quanto accaduto- mostrano le reali proporzioni del massacro avvenuto a Gaza in quel periodo. (Il giudice sudafricano Richard Goldstone fu nominato dall’ONU a capo di una missione per accertare i fatti legati agli eventi del 2009 a Gaza).
A raccontare tutta la vicenda non bastano le quasi 1.500 persone rimaste uccise, le migliaia di feriti e le decine di migliaia che hanno perduto la propria casa. Soltanto l'uso della forza militare entro i confini di uno spazio così popolato da civili poteva produrre i danni collaterali cui abbiamo assistito. Quanto avvenuto ha inoltre palesato il desiderio dell'esercito di sperimentare nuove armi, tutte progettate per uccidere i civili, come parte di quella che l'ex capo dello stato maggiore dell’esercito, Moshe “Bogie” Yaalon, aveva definito la necessità di imprimere nella coscienza palestinese la temibile potenza dell'esercito israeliano.
E ora andava ad aggiungersi una nuova, ben più cinica dimensione: gli aiuti internazionali e arabi promettevano infatti miliardi per supportare la ricostruzione di ciò che, con ogni probabilità, in futuro Israele avrebbe nuovamente distrutto. Anche il peggior disastro può rivelarsi redditizio.
La successiva fase di aggressione ebbe luogo nel 2012, attraverso due operazioni: “Eco di ritorno”, più limitata delle precedenti e scaturita da uno scontro lungo i confini; e una più significativa, “Pilastro di difesa”, avvenuta nel luglio 2012, che mise fine al movimento di protesta sociale scoppiato quell'estate dentro Israele. Per alcuni mesi, infatti, centinaia di migliaia di israeliani, appartenenti alla classe media, avevano manifestato minacciando di far cadere il governo a causa delle sue politiche economiche e sociali. Non c’era niente di meglio di una guerra nel Sud per convincere i giovani israeliani ad andare a difendere la patria anziché protestare. Come aveva funzionato in passato, funzionò anche questa volta.
Nel 2012, per la prima volta Hamas riuscì a raggiungere Tel Aviv coi suoi missili, i quali causarono pochi danni e nessuna vittima. E, come è tipico dello squilibrio nel bilancio delle perdite, quell’anno furono uccisi 200 palestinesi, tra cui 10 bambini.
Non fu un brutto anno per Israele. Le amministrazioni ormai esauste dell'UE e degli Stati Uniti non espressero neppure una condanna per gli attacchi del 2012; anzi, in più occasioni citarono “il diritto di Israele a difendersi”. Non c’è da stupirsi quindi che due anni dopo gli israeliani abbiano sentito di potersi spingere anche oltre.
Nell'estate del 2014 erano ormai due anni che veniva pianificata l’operazione “Margine di protezione”, e il rapimento e l'uccisione di tre coloni in Cisgiordania offrì il pretesto per lanciare un’azione distruttiva che è costata la vita a 2.200 palestinesi. Lo stesso Israele rimase temporaneamente paralizzato, giacché i razzi di Hamas avevano raggiunto persino l'aeroporto Ben-Gurion.
Per la prima volta, l’esercito israeliano cercò di ingaggiare un confronto diretto con i guerriglieri palestinesi nella Striscia, perdendo nello scontro 66 soldati. Era un po' come se una forza di polizia si fosse introdotta in un carcere di massima sicurezza, al cui interno i prigionieri assediati gestiscono la propria esistenza; essenzialmente, li riesci a controllare attraverso i fattori esterni, ma metti in pericolo te stesso se cerchi di invaderlo per scontrarti con la disperazione e la resilienza di coloro a cui stai cercando di togliere ogni sostentamento e spremere lentamente la vita. Gli israeliani sapevano fin troppo bene che un simile confronto andava evitato, perciò optarono invece per l'uso di una massiccia potenza di fuoco che, nelle parole dell’esercito, riuscì a contenere la situazione nella Striscia anziché portare alla distruzione di Hamas.
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Amnesty International. 01.02.2023.

 

Da quando, il 1 febbraio 2022, Amnesty International ha lanciato la sua campagna per porre fine al sistema di apartheid di Israele, le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso quasi 220 palestinesi e ne hanno feriti oltre 10.000. Solo nel mese scorso, ne hanno uccisi 35.
Gli omicidi illegali contribuiscono a mantenere il sistema israeliano di apartheid e costituiscono crimini contro l’umanità al pari di altre gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità israeliane come la detenzione amministrativa e i trasferimenti forzati.
Negli ultimi giorni una serie di attacchi mortali ha sottolineato l’urgente bisogno di un’assunzione di responsabilità. Il 26 gennaio le forze israeliane hanno compiuto un’incursione nel campo rifugiati di Jenin uccidendo 10 palestinesi, tra cui una donna di 61 anni. Il giorno dopo sette civili israeliani sono stati uccisi da un uomo armato palestinese a Neve Ya’akov, un insediamento israeliano di Gerusalemme Est occupata. Dopo questo attacco, le autorità israeliane hanno attuato punizioni collettive contro i palestinesi, compiendo arresti di massa e minacciando demolizioni di abitazioni.
“I devastanti fatti dell’ultima settimana hanno mostrato ancora una volta il costo mortale del sistema di apartheid. La mancanza di iniziative, da parte della comunità internazionale, per chiamare Israele a rendere conto del suo operato dà alle autorità israeliane via libera per segregare, controllare e opprimere i palestinesi su base quotidiana e contribuisce al ripetersi della violenza mortale. L’apartheid è un crimine contro l’umanità ed è incredibile vedere come i suoi responsabili evadano la giustizia anno dopo anno”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.
“Da tempo Israele cerca di zittire le denunce di apartheid attraverso campagne diffamatorie mirate e la comunità internazionale soggiaccia a queste tattiche. Fino a quando l’apartheid non sarà smantellato, non vi sarà alcuna speranza di proteggere le vite dei civili e nessuna possibilità di giustizia per le famiglie palestinesi e israeliane a lutto”, ha aggiunto Callamard.
Col sistema dell’apartheid, le autorità israeliane controllano praticamente ogni aspetto delle vite dei palestinesi e li sottopongono quotidianamente all’oppressione e alla discriminazione, attraverso la frammentazione territoriale e la segregazione giuridica. I palestinesi dei Territori occupati sono segregati all’interno di enclavi separate tra loro mentre quelli che vivono a Gaza sono isolati dal resto del mondo grazie al blocco illegale perpetuato da Israele, che è causa di una crisi umanitaria e costituisce una punizione collettiva.
Prove quotidiane sull’apartheid.
Il 1 febbraio 2022 Amnesty International aveva diffuso un lungo rapporto nel quale denunciava che Israele stava attuando un sistema istituzionalizzato di oppressione e dominazione nei confronti dei palestinesi, ovunque avesse controllo sui loro diritti: in Israele, nei Territori occupati e nei confronti dei rifugiati, negando loro il diritto al ritorno.
Il rapporto dimostrava come le leggi e le politiche israeliane venissero applicate col prevalente obiettivo di mantenere una maggioranza demografica ebraica e massimizzare il controllo sulla terra e sulle risorse a beneficio degli ebrei israeliani e a danno dei palestinesi.
Il 2022 è risultato uno degli anni più mortali per i palestinesi della Cisgiordania almeno dal 2005: le forze israeliane hanno ucciso 153 palestinesi, tra i quali decine di minorenni, soprattutto nel corso dei sempre più frequenti raid militari e delle operazioni d’arresto. Le ricerche di Amnesty International hanno verificato che nell’offensiva israeliana di agosto contro Gaza sono morti 33 palestinesi, 17 dei quali civili, e che altri sette civili sono rimasti uccisi a seguito del lancio di razzi da parte dei gruppi amati palestinesi.
Nel frattempo, la violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi è aumentata per il sesto anno consecutivo, tra aggressioni fisiche, danni alle proprietà e distruzione degli alberi d’ulivo. Come ampiamente documentato, le autorità israeliane condonano e facilitano questa violenza, arrestando i palestinesi sotto attacco, fornendo scorta armata ai coloni o semplicemente restando in disparte a guardare mentre i palestinesi vengono picchiati e le loro proprietà vengono distrutte. Questa cultura dell’impunità incoraggia ulteriori violenze, come dimostrato dall’ondata di attacchi degli ultimi giorni da parte dei coloni.
Dopo la sparatoria di Neve Ya’akov, le autorità israeliane sembrano aver incitato a ulteriori violenze contro i palestinesi annunciando progetti di velocizzare il rilascio del porto d’armi “per consentire a migliaia di altri cittadini di girare armati”. Il primo ministro Netanyahu, che si è già impegnato a espandere massicciamente gli insediamenti illegali nei Territori palestinesi occupati, ha anche dichiarato che il governo è intenzionato a “rafforzare gli insediamenti”.
Tutti gli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi occupati sono illegali per il diritto internazionale e la politica di vecchia data di Israele di trasferire civili in territori occupati costituisce un crimine di guerra.
La crescente espansione degli insediamenti pone innumerevoli ulteriori palestinesi a rischio di trasferimenti forzati, un crimine contro l’umanità che Israele commette in modo sistematico. Un recente esempio è la decisione, presa a maggio dalla Corte suprema, che ha dato via libera al trasferimento forzato di oltre 1.150 palestinesi da Masafer Yatta.
Lo scorso anno le autorità israeliane hanno portato avanti il piano di demolizione del villaggio non riconosciuto di Ras Jrabah nella regione del Negev/Naqab, col previsto sgombero di 500 abitanti beduini palestinesi. Nel gennaio di quest’anno il villaggio beduino di al-Araqib è stato demolito per la 212esima volta. Dal rapporto di Amnesty International sull’apartheid si evince come gli sgomberi forzati nel Negev/Naqab e nei Territori palestinesi occupati siano funzionali agli obiettivi demografici di Israele.
Un crescente riconoscimento dell’esistenza dell’apartheid.
C’è un crescente riconoscimento internazionale riguardo al fatto che Israele sta commettendo il crimine di apartheid. I palestinesi da tempo chiedono che il dominio israeliano sia riconosciuto come apartheid e le loro organizzazioni, come al-Haq, il Centro palestinese per i diritti umani e al-Mezan, promuovono la richiesta verso le Nazioni Unite.
La spinta verso questo riconoscimento è cresciuta nel 2022, quando due relatori speciali delle Nazioni Unite hanno dichiarato che le autorità israeliane si stavano rendendo responsabili di apartheid. Il numero degli stati che, all’interno del Consiglio Onu dei diritti umani, fanno riferimento all’apartheid israeliano è raddoppiato da nove nel 2021 a 18 nel 2022. È significativo li fatto che Sudafrica e Namibia siano tra questi stati. Molte organizzazioni internazionali e israeliane per i diritti umani come Human Rights Watch, B’Tselem e Yesh Din, chiedono la fine dell’apartheid.
Le autorità israeliane fanno di tutto per zittire e screditare le denunce di apartheid. Le conseguenze sono particolarmente gravi per i difensori dei diritti umani palestinesi: nell’agosto 2022 le autorità israeliane, dopo averle etichettate come “entità terroriste” e dichiarate fuorilegge, hanno effettuato raid negli uffici di sette importanti organizzazioni palestinesi per i diritti umani. A dicembre Salah Hammouri, ricercatore dell’organizzazione per i diritti dei prigionieri “Addameer”, è stato privato della residenza a Gerusalemme ed espulso verso la Francia dopo aver trascorso nove mesi in detenzione amministrativa.
Il disprezzo per il diritto internazionale. 
Nel maggio 2023, mediante l’Esame periodico universale, il Consiglio Onu dei diritti umani prenderà in esame la situazione dei diritti umani di Israele. Amnesty International ha scritto alle autorità israeliane esortandole a parteciparvi in modo costruttivo ma queste finora non hanno ancora inviato le loro note al meccanismo di revisione.
Le autorità israeliane hanno ignorato buona parte delle raccomandazioni emerse in occasione del precedente Esame periodico universale, nel 2018. Ad esempio, nonostante la richiesta di porvi fine, Israele tiene in detenzione amministrativa, senza accusa né processo, oltre 860 palestinesi: il numero più alto degli ultimi 15 anni.
“Il prolungato disprezzo delle autorità israeliane nei confronti dei loro obblighi di diritto internazionale e delle raccomandazioni della comunità internazionale ha gravi conseguenze per i palestinesi e compromette anche la protezione degli israeliani”, ha commentato Callamard.
“Nessuno stato dovrebbe poter aggirare con impunità il diritto internazionale, comprese le risoluzioni vincolanti del Consiglio di sicurezza. Chiediamo a tutti gli stati di porre fine a ogni forma di sostegno alle violazioni dei diritti umani e ad anni di complice inattività, chiedendo alle autorità israeliane di rispondere delle loro azioni”, ha concluso Callamard.