Genar 2024. Palestina: il "peccato originale".

 

 

 

 

Quello che mi ha sempre sconvolto è stato vedere che solo dopo 2 anni dal termine della persecuzione degli ebrei che ebbe il suo mostruoso apogeo nei campi di sterminio nazisti, gli stessi ebrei, nella loro declinazione politico-istituzionale, siano diventati suprematisti, oppressori, gestori di campi di concentramento, operatori di deportazioni, di genocidio incrementale e pulizia etnica, criminali di guerra. Palestinesi giudicati come esseri inferiori da estirpare dalla propria terra, esseri a cui negare diritti fondamentali, o come li ha definiti recentemente il ministro della difesa israeliano “animali” o “animali non umani”. Per 75 anni, in questi giorni più che mai, semplicemente alla bisogna carne da macellare con la ben nota spudorata impudenza e arroganza avendo garantita l’impunità assoluta.
Ebrei: da tragiche vittime a, infettati di sionismo, efferati carnefici.

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi è stato impossibile non dedicare “el mestée del mes” al popolo palestinese, pur avendogli già destinato un “mestiere” a maggio 2023 (Ora e sempre Intifā’ḍah, e vedasi anche Palestinesi in Post Scriptum), riferendomi al ricercato e sistematico atroce massacro di civili perpetrato dallo stato di Israele dal mese di ottobre in risposta all’eccidio di Hamas del 7 ottobre, stucchevole azione/manifestazione di infantilismo politico-militare di movente e obiettivo non definito, che non affronterò in questa pagina.
Il ritorno al tema è documentare la genesi del conflitto, ovvero individuare “il peccato originale”. La mia riportata narrazione esula dalla storiografia mainstream, ma si affida a interventi di storici critici, controinformazione, testimonianze di popolo, deliberatamente occultati dal 1947-1948 sino ad oggi dai media, da politici, da opinionisti asserviti al cosiddetto “occidente” e al “faro della democrazia” in medioriente (come è definito Israele).
Come sempre mia volontà nei “mestée”, anche la trattazione del “peccato” è limitata ad alcuni eventi/interventi, la maggior parte ignorati (vedasi tra l’altro le stragi, le deportazioni, i campi di concentramento sionisti operanti dal 1948 al 1955) che auspico stimolino letture più esaustive e approfondite. Le foto sono immagini della “nakba”, di profughi, di un popolo errante sulla propria terra, di esiti di massacri, riferite al periodo 1948-1949.
Come introduzione un breve resoconto storico –da me redatto e discusso tramite mail con Ilan Pappè-, partendo dalla imposizione dettata dalla Risoluzione dell’ONU del 29.11.1947 che divideva la Palestina in due stati: uno ebraico e uno arabo-palestinese, lasciando Gerusalemme e area limitrofa controllata per 10 anni dalle Nazioni Unite. Occorre rimarcare che mentre Israele è entrato a far parte dell’ONU dal 1949, a tutt’oggi -ma non dal 1949, ma dal 2012- la Palestina non è membro ma “Stato osservatore”. Ovviamente tale imposizione, assolutamente colonialista, venne rigettata dai palestinesi che rivendicarono per il loro territorio il principio dell’autodeterminazione dei popoli autoctoni, tenendo presente che i palestinesi avevano lottato per decenni per liberarsi dai britannici e dalla migrazione sionista.
Propongo un quadro della situazione residenziale e territoriale al momento della ripartizione che esplicita inequivocabilmente l’iniquità della stessa e l’istituzionale origine e causa del conflitto.
La popolazione della Palestina nel 1947 era di circa 1.845.000 residenti: 1.237.000 arabi, il 67%, e 608.000 ebrei, il 33%, considerando che gli ebrei erano nel 1917 solo 60.000 e che la decuplicazione del dato nei 30 anni fu determinata dalla cosiddetta “migrazione sionista”, di cui riporto nella pagina interventi a spiegazione.
Il territorio venne ripartito concedendone il 61% allo stato ebraico e il 35% ai palestinesi, quando i palestinesi avevano possesso del 94,2% della terra. I territori concessi allo stato ebraico comprendevano l’80% della produzione cerealicola, la quasi totalità della produzione di agrumi e il 40% dell’industria. Vedasi mappe 1-2.

 

 

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............................Jewish settlements leggasi Insediamenti ebraici

 

 

Le nazioni arabe, contrarie alla suddivisione del territorio e alla creazione di uno stato ebraico, fecero ricorso alla Corte internazionale di giustizia, sostenendo la non competenza dell'assemblea delle Nazioni Unite nel decidere la ripartizione di un territorio andando contro la volontà della maggioranza (araba) dei suoi residenti, ma il ricorso fu ovviamente respinto.
Il 14.05.1948 Israele dichiarò la propria indipendenza e il 15.05.1948 al ritiro delle truppe inglesi e gli stati arabi (Egitto, Transgiordania, Siria, Libano, Iraq) dichiararono guerra ad Israele. Successivamente Israele occupò il 78% del territorio ex-Palestina. Vedasi mappa 3 con la progressione sino alla situazione dal 2008 ove si rilevava l’impressionante occupazione a “pelle di leopardo” dei coloni israeliani che verrà ad incrementarsi nei successivi anni sino ad oggi.

 

 

 

..............................................Jewish land leggasi Territorio ebraico - Palestinian land leggasi Territorio palestinese

 

 

La storiografia ufficiale, non solo israeliana ma anche internazionale, fa risalire alla conseguenza dell’intervento degli stati arabi l’origine della “Nakba”, ma la politica di pulizia etnica israeliana nei confronti dei palestinesi ebbe inizio nei fatti ben prima (230-250.000 palestinesi erano già profughi antecedentemente al maggio 1948) e decenni prima come fondamento dell’ideologia sionista, come riporto con interventi nella pagina.
In conclusione, la politica sionista si era sempre proposta l’attuazione di un colonialismo di insediamento, che, a differenza del colonialismo classico dove la potenza occupante assume il controllo dei mercati, delle risorse e sfrutta la popolazione colonizzata, si propone di sostituirsi agli autoctoni per costituire una società nuova, fondata sulla loro esclusione e eliminazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

Inizio la documentazione con una lettera di S.Kaplan, uno dei membri del partito Mapam (partito politico israeliano sorto all’epoca della Palestina mandataria di ideologia marxista, attivo sino alla seconda metà degli anni ’90 quando confluì nel Meretz), che riporta la testimonianza di un soldato israeliano partecipante alla strage di Al-Dawayima del 29 ottobre 1948, venne inviata al caporedattore del quotidiano del partito “Al-Hamishmar” l'8 novembre 1948, nove giorni dopo la strage. La lettera rimase nascosta finché lo storico israeliano Benny Morris non la scoprì per caso e ne fece riferimento nel suo libro “The birth of the Palestine refugee problem”, pubblicato nel 1987. Inoltre la lettera venne pubblicata integralmente sul quotidiano israeliano “Haaretz” il 5 febbraio 2016.

 


Al compagno Eliezer Peri.
Buona giornata. Oggi ho letto l’editoriale di “Al Hamishmar” in cui si poneva la questione del comportamento del nostro esercito, l’esercito che conquista tutto tranne i propri desideri.
Una testimonianza fornitami da un ufficiale che era ad [Al] Dawayima il giorno dopo la sua conquista: il soldato è uno dei nostri, di cultura, affidabile, al 100%. Si è confidato con me per il bisogno di scaricare la pesantezza della sua anima dall'orrore del riconoscimento di quale livello di barbarie può essere raggiunta dal nostro popolo educato e colto. Si è confidato con me perché non sono molti oggi i cuori capaci di ascoltare.
Non c’è stata né battaglia, né resistenza (e nemmeno egiziani). I primi gruppi militari hanno ucciso da ottanta a cento arabi [compresi] donne e bambini. I bambini sono stati uccisi fracassando loro il cranio con dei bastoni. Non c'era una casa senza morti.
La seconda ondata dell'esercito [israeliano] è stata il plotone a cui appartiene il soldato che ha testimoniato.
Nella città sono stati lasciati arabi, maschi e femmine, poi messi nelle case e rinchiusi senza ricevere né cibo, né bevande. Successivamente gli artificieri sono arrivati a far saltare in aria le case. Un comandante ha ordinato a un artificiere di far entrare due donne anziane nella casa che doveva essere fatta saltare in aria. L’artificiere ha rifiutato dicendo che era disposto a ricevere ordini solo dal suo [proprio] comandante. Allora il [suo] comandante ha ordinato ai soldati di mettere dentro le donne e il massacro è stato eseguito.
Un soldato si è vantato di aver violentato una donna araba e poi di averle sparato. Una donna araba con un bambino di pochi giorni è stata utilizzata per pulire il cortile sul retro dove mangiano i soldati. Li ha assistiti per un giorno o due, dopodiché hanno sparato a lei e al bambino.
Il soldato racconta che i comandanti colti ed educati, considerati bravi ragazzi nella società, sono diventati vili assassini, e questo avviene non nella tempesta della battaglia e nella reazione a caldo, ma piuttosto in un sistema di espulsione e distruzione. Meno arabi rimangono, meglio è. Questo principio è il principale motivo politico delle espulsioni e degli atti di orrore a cui nessuno si oppone, né nel comando sul campo, né tra i più alti comandi militari.
Io stesso sono stato al fronte per due settimane e ho sentito storie di soldati e comandanti vantarsi di come eccellessero negli atti di “caccia all’arabo” e di "fottere" [sic]. Scopare un arabo, proprio così, e in qualsiasi circostanza, è considerata una impresa ammirevole e c'è competizione per vincere questo [trofeo].
Ci troviamo difronte a un dilemma. Dar voce a questa notizia sulla stampa vuol dire sostenere la Lega Araba, cosa che i nostri rappresentanti non vogliono sia fatta. Non reagire significherebbe solidarietà con la corruzione morale.
Il soldato mi ha detto che Deir Yassin [un altro massacro, da parte di militanti dell'Irgun, aprile 1948] non è il culmine della violenza. È possibile gridare su Deir Yassin e tacere su qualcosa di molto peggio? È necessario suscitare uno scandalo nei canali interni, insistere su un'indagine interna e punire i colpevoli. E prima di tutto è necessario creare nell'esercito un'unità speciale per il controllo dell'esercito stesso.
Io stesso accuso anzitutto il governo, che non sembra avere alcun interesse a contrastare i fenomeni e forse addirittura li incoraggia indirettamente. Il fatto di non agire è di per sé un incoraggiamento.
Il mio comandante mi ha detto che esiste un ordine non scritto di non prendere prigionieri di guerra e che l'interpretazione di "prigioniero" è data individualmente da ciascun soldato e comandante. Un prigioniero può essere un uomo, una donna o un bambino arabo. Ciò non è stato fatto solamente nelle azioni [delle principali città palestinesi] come Majdal e Nazareth.
Vi scrivo questo perché nella redazione e nel partito si sappia la verità e si faccia qualcosa di efficace. Almeno non si abbandonino a una diplomazia fasulla che nasconde sangue e omicidio e, per quanto possibile, anche il giornale non deve lasciar passare tutto questo sotto silenzio.

 

S.Kaplan

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Appunti sull’origine del sionismo e riflessi sul popolo palestinese.
Soraya Misleh.
Articolo basato sulla dissertazione della tesi universitaria intitolata “Qaqun: storia ed esilio di una piccola contrada palestinese distrutta nel 1948” e discussa nel dicembre del 2013 nella Facoltà di Filosofia, Lettere e Scienze Umane dell’Università di San Paolo.


Il sionismo politico è sorto alla fine del XIX secolo. Il padre è stato Theodor Herzl, ebreo nato in Ungheria, che svolgeva a Vienna -allora capitale dell’Impero austro‑ungarico (1867‑1918)- la professione di giornalista e autore teatrale.
Ben integrato nella società, non nutriva interesse per l’ebraismo o per questioni ad esso correlate (Shlaim, 2004, p. 38). Il punto di svolta fu, secondo quanto da lui stesso scritto nel testo “Der Jundenstaat” (Lo Stato ebraico), il “caso”, come fu conosciuto in Francia il caso Dreyfus, cioè l’accusa di alto tradimento subita nel 1894 in quel Paese dall’ufficiale Alfred Dreyfus, per essere di origine ebraica. A partire da quest’avvenimento, Herzl avrebbe concluso che non ci sarebbe stata alcuna speranza di assimilazione; sicché, l’unica soluzione sarebbe stata che gli ebrei avessero potuto vivere nel loro proprio Stato. Quest’affermazione, tuttavia, è messa in discussione da studiosi israeliani (Pappé, 2007, p. 64).
Per garantire l’immigrazione degli ebrei europei verso la Palestina era necessario convincerli che il trasferimento verso quelle terre sarebbe stato l’unico modo per liberarsi dell’“antisemitismo”, termine che si riferisce alla discriminazione contro i semiti. In questo senso, nel pubblicare nel 1896 “Lo Stato ebraico” Herzl (1988, p. 47) legò la cosiddetta “questione ebraica” -a suo dire, un legato del Medioevo- non alla religione o all’aspetto sociale, ma a un problema nazionale.
Nel suo testo, Herzl non suggerì esclusivamente la Palestina per la creazione di uno Stato ebraico, ma pose la questione: “Dobbiamo preferire la Palestina o l’Argentina?” La sua risposta fu: “La società (ebraica) accetterà ciò che le daranno, tenendo conto delle manifestazioni dell’opinione pubblica al riguardo” (1988, p. 66). Nella sua analisi, in entrambi i luoghi c’erano state esperienze ben riuscite di “colonizzazione ebraica”. Nel 1897, anno successivo alla pubblicazione del suo scritto, durante il I Congresso sionista realizzato in Svizzera, a Basilea, in cui si riunirono duecento delegati dell’est europeo, la scelta finì per ricadere sulla Palestina: “Questo nome, di per sé solo costituirebbe un potente e trascinante richiamo per l’adunata del nostro popolo. (…) Per l’Europa rappresenteremmo lì un pezzo di fortezza contro l’Asia, saremmo la sentinella avanzata della civiltà contro la barbarie. Saremo uno Stato neutro, in costante relazione con tutta l’Europa, che dovrebbe garantire la nostra esistenza” (ibidem).
Herzl intraprese ogni sforzo per ottenere l’appoggio delle élite ebraiche e dei governanti europei al progetto sionista. Secondo Shlaim (2004, p. 41), il proposito “non dichiarato” -suo e dei suoi successori- era che il movimento raggiungesse il suo obiettivo “non attraverso un’intesa con i palestinesi locali, ma attraverso un’alleanza con la grande potenza dominante del momento”.
Questo partner venne individuato nella Gran Bretagna, che intravvedeva la Palestina come una sua “futura acquisizione”. Come parte della sua strategia di convincimento, Herzl spiegò che i britannici avrebbero potuto beneficiare di una “oasi sionista” nella regione di Gaza, alla quale sarebbe stato necessario portare acqua dal Nilo attraverso un canale (Pappé, 2007, p. 81). In un primo momento questo piano venne frustrato in seguito all’obiezione mossa dal Lord inglese Cromer che comandava al Cairo. In alternativa, Herzl propose la temporanea istituzione dello Stato ebraico in Uganda, che allora era una colonia inglese, per passare successivamente in Palestina. Ma ciò fu visto come un tradimento da altri dirigenti sionisti come Chaim Weizmann (1874‑1952), dal momento che lo stesso ideatore dello Stato di Israele aveva nazionalizzato l’ebraismo segnalando il luogo poi definito dal I Congresso sionista. Di conseguenza, il piano dell’Uganda non fu portato avanti e la Palestina tornò ad essere centrale nella proposta sionista (ibidem).
Dopo il I Congresso sionista, due rabbini furono inviati in Palestina per una ricognizione dei luoghi. In un telegramma essi descrissero lo scenario che il movimento che intendeva creare uno Stato ebraico in quelle terre si sarebbe trovato di fronte: “La ragazza è bella, ma è sposata con un altro uomo” (Shlaim, 2004, p. 40). In altre parole, gli esploratori annunciavano che la Palestina non era una radura, un luogo deserto e disabitato. Come riferisce Pappé: “Alla vigilia della guerra di Crimea (1853‑1856), circa mezzo milione di persone viveva in terra di Palestina. Erano di lingua araba, in maggioranza musulmana, ma circa 60.000 erano cristiani di varie confessioni e circa 20.000 erano ebrei. Inoltre, dovevano tollerare la presenza di 50.000 soldati e funzionari ottomani, così come di 10.000 europei (2004, p. 41).
Secondo Schlaim (2004, p. 54), indipendentemente dalla linea sionista, che comprendeva i cosiddetti laburisti, i moderati e i revisionisti -il cui fondatore fu l’ebreo russo Zeev Jabotinsky (1880‑1940)- prevaleva l’idea secondo cui era necessario l’appoggio di una grande potenza per consolidare il progetto sionista. Così come era necessario stimolare l’immigrazione ebraica e trasferire i palestinesi nativi usando allo scopo la forza militare. La differenza era che i revisionisti consideravano esplicitamente tale opzione.
Nel suo libro “Espulsioni dei Palestinesi”- Il Concetto di “trasferimento” nella concezione politica sionista”, 1882‑1948, Nur Masalha presenta una serie di citazioni di dirigenti sionisti che dimostrano la predominanza dell’idea del trasferimento volontario o coatto della popolazione araba locale come base per la costituzione di uno Stato esclusivamente ebreo in Palestina. A suo avviso, quest’idea era stata concepita da tempo. “Theodor Herzl fornì un riferimento previo al trasferimento, ancor prima di delineare la sua teoria del rinascimento sionista nel suo “Judenstaat” (1993, p. 8). Sempre secondo Masalha, il 12 giugno del 1895, pensando alla transizione da una “società di ebrei” a uno Stato, Herzl scriveva nel suo diario: “Quando occuperemo la terra, porteremo immediatamente vantaggi allo Stato che ci riceverà. Dobbiamo espropriare con cautela la proprietà privata negli Stati schierati con noi. Tenteremo, quando la popolazione poverissima varcherà i confini, di cercarle lavoro nei Paesi che lasciano, mentre le negheremo qualsiasi impiego nel nostro. I proprietari terrieri saranno dalla nostra parte. Entrambi i processi, di espropriazione e di rimozione dei poveri andranno messi in atto discretamente e con circospezione” (ibidem, p. 9).
In un dialogo del 1891 fra due pionieri di Hovevie Zion (Amanti di Sion) fu altresì esposta l’idea di trasferimento. Uno di essi affermò che la terra “in Giudea e Galilea è occupata da arabi”. Il suo interlocutore rispose: “È molto semplice. Li assedieremo finché partiranno. Li lasceremo andare in Transgiordania (l’equivalente dell’attuale Regno di Giordania: ndt)” (ibidem, p. 9). Sempre secondo Masalha, Israel Zangwill -ideatore dell’espressione “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”- presentò l’espulsione degli arabi dalla Palestina come una precondizione per la realizzazione del progetto sionista (ibidem, p. 10). Come indica l’autore, il creatore del potere militare dello Yishuv e primo premier di Israele, David Ben Gurion, indicò l’importanza dell’idea di trasferimento in varie citazioni nel suo diario. In una di esse, il 12 luglio del 1937, affermò: “Il trasferimento coatto degli arabi dalle vallate dello Stato ebraico proposto ci può offrire qualcosa che non abbiamo mai avuto [una Galilea libera da arabi], neppure quando siamo stati padroni del nostro destino nei giorni del Primo e del Secondo Tempio” (Masalha, 1993, p. 13).
Sempre secondo Masalha, in una lettera a suo figlio Amos del 5 ottobre 1937, Ben Gurion scrisse: “Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto (…) e se dovremo usare la forza, non per spogliare delle loro proprietà gli arabi del Negev (deserto localizzato nella parte meridionale dell’attuale Stato d'Israele: ndt) e della Transgiordania, ma per garantire il nostro stesso diritto di stabilirci in quei luoghi, useremo la forza”.

 

 

 

 

Interessante anche il breve estratto seguente di David Neuhaus, di “Civiltà Cattolica”, sempre in merito alla scelta del sionismo verso la Palestina.


(…)
Trent’anni prima, nel 1917, durante la Prima guerra mondiale, quando gli inglesi occuparono la Palestina subentrando a secoli di dominio turco ottomano, gli ebrei erano solo circa 60.000, appena il 10% della popolazione, e molti di loro erano arrivati di recente dalla Russia. Sei settimane prima che le forze inglesi entrassero a Gerusalemme, il ministro degli Esteri britannico, Lord Arthur Balfour, inviò una lettera a un dignitario ebreo britannico, in cui annunciava che il suo governo vedeva “con favore l’istituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”. Questa lettera, nota come “Dichiarazione Balfour”, divenne una base importante per il dominio britannico in quei luoghi, confermata in seguito dal mandato della Società delle Nazioni per la Palestina. L’articolo 4 del mandato prevedeva il coinvolgimento di una “appropriata agenzia ebraica" nella "costituzione del focolare nazionale ebraico” e nell’evoluzione del Paese.
(…)
Inoltre, come cristiani che si ispiravano alla Bibbia (i governanti inglesi, mia nota), sposavano l’idea che la Palestina fosse la patria promessa da Dio agli ebrei: convinzione, questa, che caratterizza il sionismo cristiano, fondato sul fondamentalismo biblico, ampiamente diffuso nel mondo anglosassone. Questo misto di interesse imperiale, nobile sollecitudine umanitaria e fervore religioso riferito alla Bibbia fece da potente sfondo nel sostegno accordato al sionismo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Appunti sulla pulizia etnica 1947-1948.
Ilan Pappé, storico israeliano, professore di storia all’Istituto di studi arabi e islamici presso il College of Social Sciences and International Studies e direttore del Centro Europeo per gli Studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter.

 


(…)
Possedere quanta più terra possibile con quanti meno nativi possibile era già stato un tema centrale del movimento e dell’ideologia sionista fin dai suoi primordi. Il dominio britannico aveva impedito ogni significativo possesso di terra (meno del 6% delle terre palestinesi erano di proprietà sionista nel 1948). Ma sulla terra acquistata dai sionisti, principalmente dall’élite palestinese e da proprietari terrieri che vivevano all’estero, i coltivatori locali furono etnicamente espulsi con l’approvazione delle autorità britanniche.
La dirigenza sionista cominciò a pianificare la pulizia etnica della Palestina nel febbraio del 1947 e le prime operazioni ebbero luogo un anno più tardi sotto gli occhi delle autorità britanniche provviste di mandato.
La dirigenza sionista aveva bisogno di affrettarsi alla pulizia etnica dei palestinesi nel febbraio del 1948, cominciando con la forzata rimozione di tre villaggi sulla costa fra Giaffa e Haifa. Gli Stati Uniti ed altri membri delle Nazioni Unite avevano già cominciato a mettere in dubbio la validità di un piano di divisione e cercavano soluzioni alternative. Il dipartimento di Stato americano propose un’amministrazione fiduciaria internazionale sulla Palestina allo scopo di dare altro tempo per ulteriori negoziati.
Cosa accadde sul campo.
Così, la prima cosa che la dirigenza sionista fece fu di passare ai fatti anche prima della fine ufficiale del mandato (previsto per il 15 maggio del 1948). Ciò significò scacciare i palestinesi dalle aree assegnate dalle Nazioni Unite per lo Stato ebraico così come impadronirsi di quante più città palestinesi fosse loro possibile. Non c’era possibilità di confronto fra palestinesi e gruppi militari sionisti. Arrivarono alcuni volontari arabi, ma poterono ben poco per difendere i palestinesi dalla pulizia etnica. Il mondo arabo attese il 15 maggio prima di inviare truppe in Palestina.
Che i palestinesi fossero di fatto indifesi fra il 29 novembre 1947 (quando fu adottata la risoluzione ONU sulla divisione) e il 15 maggio del 1948 (il giorno che segnò la fine del mandato e in cui truppe dagli stati arabi confinanti giunsero per cercare di salvare i palestinesi) non è un mero fatto cronologico, esso smonta categoricamente la principale affermazione della propaganda israeliana sulla guerra, ossia che i palestinesi divennero profughi perché il mondo arabo invase la Palestina e disse loro di partire; un mito che molta gente nel mondo ancora oggi crede vero. Secondo questa narrazione, avesse il mondo arabo evitato di attaccare Israele, i palestinesi avrebbero potuto evitare il loro destino di essere profughi ed esiliati. Quasi un quarto di milione di palestinesi erano già profughi prima del 15 maggio del 1948 ed un mondo arabo riluttante mandò i suoi eserciti nel tentativo di salvare gli altri.
Quasi tutti i palestinesi che vivevano ad Haifa e a Giaffa furono cacciati con la forza dalle loro case e le città di Bisan, Safad e Acri furono completamente spopolate. I villaggi nei dintorni subirono una sorte simile. Nell’area intorno alle pendici occidentali delle montagne di Gerusalemme, decine di villaggi furono ripuliti etnicamente, e in alcuni casi, come accadde a Deir Yassin il 9 aprile del 1948, le espulsioni furono accompagnate da massacri.
Le peggiori atrocità israeliane.
L’intervento degli eserciti arabi -Egitto, Siria, Giordania e Libano- nel Maggio del 1948 fu una seria sfida per il nuovo stato di Israele. Ma in quel tempo, la capacità militare della comunità israeliana era considerevolmente aumentata (con l’aiuto di armi dal blocco orientale che furono acquistate, con l’approvazione sovietica, dalla Cecoslovacchia, che era in possesso di un considerevole quantitativo di armi della seconda guerra mondiale lasciate dai sovietici e dai tedeschi. L’Inghilterra e la Francia in quel tempo applicarono l’embargo per le forniture militari per entrambi gli schieramenti.) Il risultato fu che le forze israeliane furono in grado di compiere operazioni sui due fronti: contro gli eserciti arabi, e poi, continuando l’opera di pulizia etnica, prendendo di mira in maggioranza le aree concesse dalla ripartizione delle Nazioni Unite allo stato arabo.
In modo particolare, l’operazione in Alta Galilea ha registrato alcune tra le peggiori atrocità commesse dall’esercito israeliano durante la Nakba: in parte a causa della disperata resistenza di gente che già sapeva ciò che la sorte le avrebbe riservato sotto l’occupazione israeliana; e in parte a causa della fatica delle forze di occupazione che persero ogni inibizione nel modo di trattare le popolazioni civili. Nel massacro di al-Dawayima, presso Hebron, si calcola che 455 palestinesi, la metà dei quali donne e bambini, furono assassinati dai soldati israeliani.
Due zone della Palestina storica sfuggirono al destino della pulizia etnica. L’area divenuta nota come Cisgiordania fu occupata quasi senza combattimenti da forze giordane ed irachene. Ciò fu in parte per il tacito accordo fra Israele e la Giordania secondo il quale, in cambio di questa annessione, la Giordania avrebbe giocato un ruolo secondario nello sforzo arabo globale di salvataggio della Palestina. Tuttavia, per la pressione israeliana dopo la Guerra, la Giordania concesse, durante i negoziati per l’armistizio, parte di quella che avrebbe dovuto essere la sua Cisgiordania. Questa area è chiamata Wadi Ara, e collega il Mediterraneo col distretto di Jenin.
(…)

 

Nota di Ilan Pappé, estratto dalla lectio tenuta il 13.12.2007.Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente.

 

Tra l'altro, quando avvenne questa operazione di pulizia etnica, erano presenti sia rappresentanti delle Nazioni Unite, sia della Croce Rossa Internazionale, che importanti giornalisti, ma tutti tacquero in quel momento su ciò che stava veramente succedendo. Questo accadde perché l'Onu non voleva che la sua risoluzione apparisse come un pretesto per la pulizia etnica, mentre la Croce Rossa Internazionale, troppe volte accusata di aver taciuto durante la Seconda Guerra Mondiale su quanto avvenuto realmente nei campi di concentramento tedeschi, ed i giornalisti, non volevano inimicarsi la comunità ebraica a 3 anni dalla fine della guerra e dall'Olocausto. Pertanto, il risultato fu che, lo Stato israeliano che nacque, non ricevette alcuna critica per i massacri che erano alla base della sua fondazione, anche se la pulizia etnica è un crimine contro l'umanità e coloro che la decisero e l'attuarono, sono perciò dei criminali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Appunti sul Piano Dalet.
Estratto da “La pulizia etnica della Palestina”, di Ilan Pappé.

 

La Consulta aveva esaminato la bozza del Piano Dalet nella seconda metà di febbraio del 1948. Secondo il diario di Ben Gurion, era domenica 29 febbraio anche se uno storico militare israeliano riporta la data del 14 febbraio. Il Piano Dalet fu completato agli inizi di marzo. In base ai ricordi di molti generali dell’esercito di quel periodo, la storiografia israeliana in genere afferma che il marzo del 1948 fu il più difficile nella storia della guerra. Ma questa valutazione si basa solo su un aspetto del conflitto imminente: gli attacchi dell’ALA (Arab Liberation Army, mia nota) ai convogli ebraici verso i loro insediamenti isolati che agli inizi di marzo sortirono un certo effetto. Inoltre, alcuni ufficiali dell’ALA cercarono a quel tempo di resistere alle offensive ebraiche nei villaggi misti oppure facendo delle rappresaglie e terrorizzando le zone ebraiche con una serie di miniraid. Due di questi attacchi diedero al pubblico la (falsa) impressione che dopo tutto l’ALA avrebbe potuto organizzare una certa resistenza in vista di un attacco ebraico. Infatti, nel marzo del 1948, iniziò l’ultimo tentativo militare palestinese di breve durata per proteggere la propria comunità.
Le forze ebraiche non erano ancora sufficientemente ben organizzate per poter reagire immediatamente e con successo a ogni contrattacco, e questo spiega il senso di sconforto in alcune parti della comunità ebraica. Tuttavia, la Consulta aveva sempre la situazione sotto controllo. Quando si riunirono di nuovo agli inizi di marzo, non presero nemmeno in esame il contrattacco dell’ALA né pensarono che la situazione in generale fosse particolarmente preoccupante. Invece, sotto la guida di Ben Gurion, stavano preparando un master plan finale.
Alcuni membri della Consulta proposero di continuare con la pulizia etnica come mezzo più efficace per difendere le strade che portavano agli insediamenti isolati. La più pericolosa era la strada Tel Aviv-Gerusalemme, ma Ben Gurion stava già pensando a qualcosa di più ampio. La conclusione che egli aveva tratto dal periodo tra la fine di novembre del 1947 e gli inizi di marzo del 1948 era che, malgrado tutti i tentativi giunti dall’alto, mancasse ancora un comando capace sul terreno. A suo avviso, i tre piani precedenti preparati dall’Haganà per l’occupazione della Palestina mandataria -uno del 1937, gli altri due del 1946- dovevano essere aggiornati. Quindi ordinò una revisione dei piani, e i due più recenti assunsero il nome in codice di Piano B e Piano C.
Non sappiamo quello che disse Ben Gurion a proposito della pulizia etnica alla Consulta nel regolare incontro del mercoledì pomeriggio, il 10 marzo 1948, ma abbiamo il piano che essi misero a punto, che fu approvato dall’Alto Comando dell’Haganà e successivamente inviato come ordine militare alle truppe in campo.
Il nome ufficiale del Piano Dalet era piano Yehoshua. Yehoshua Globerman era nato nel 1905 in Bielorussia e imprigionato negli anni Venti per attività anticomunista; fu rilasciato dopo aver trascorso tre anni in una prigione sovietica quando Massimo Gorki, amico dei suoi genitori, intervenne in suo favore.
Globerman fu comandante dell’Haganà in varie zone della Palestina e fu ucciso da sconosciuti che gli spararono in macchina nel dicembre del 1947. Era destinato a diventare uno dei comandanti in capo dell’esercito israeliano, ma la sua morte prematura significò che il suo nome sarebbe stato associato non alle sue capacità militari ma al master plan sionista per la pulizia etnica della Palestina. Era talmente stimato dai colleghi che gli fu conferito alla memoria il grado di generale dopo la creazione dello Stato ebraico.
Pochi giorni dopo l’uccisione di Globerman, l’unità dei servizi segreti dell’Haganà preparo le bozze di un piano per i mesi seguenti. Col nome in codice di Piano D, esso conteneva sia i parametri geografici di un futuro Stato ebraico (quel 78% a cui mirava Ben Gurion), ma anche il destino di un milione di palestinesi che vivevano in quella zona.
Queste operazioni potranno essere svolte in uno dei seguenti modi: o distruggendo i villaggi (incendiandoli o facendoli saltare in aria e poi mettendo delle mine nei detriti), soprattutto i centri abitati che sono difficili da controllare in modo permanente; oppure con operazioni di setacciamento e controllo con le seguenti modalità: si accerchia il villaggio e si fanno perquisizioni. Se c’è resistenza, le milizie armate dovranno essere eliminate e la popolazione espulsa al di fuori dei confini dello Stato. I villaggi dovevano essere completamente evacuati o perché si trovavano in luoghi strategici oppure perché poteva verificarsi una qualche forma di resistenza. Questi ordini furono dati quando fu chiaro che l’occupazione avrebbe sempre provocato una certa resistenza e che quindi nessun villaggio sarebbe stato risparmiato, o a causa della sua posizione o a causa del rifiuto all’occupazione. Questo fu il master plan per l’espulsione di tutti i villaggi nella Palestina rurale. Istruzioni simili furono date, in termini quasi identici, per le azioni che avevano come obiettivo i centri urbani palestinesi.
Gli ordini che arrivavano alle unità sul campo erano più specifici. Il paese era diviso in zone secondo il numero di brigate; per cui le quattro brigate originali dell’Haganà divennero dodici in modo da facilitare la realizzazione del piano. Ogni comandante di brigata ricevette un elenco dei villaggi o quartieri da occupare, distruggere e da cui espellere gli abitanti, con date precise.
Alcuni comandanti mostrarono un eccesso di zelo nell’eseguire gli ordini e presero di mira anche altre località. Alcuni ordini, d’altra parte, si rivelarono troppo ambiziosi e non fu possibile eseguirli nei tempi prestabiliti. Questo significò che alcuni villaggi lungo la costa che avrebbero dovuto essere occupati in maggio non furono distrutti fino a luglio. E i villaggi nella zona Wadi Ara -la vallata che collegava Hadera a Marj Ibn Amir (Emeq Izrael) e Afula (oggi Route 65)- riuscirono a sopravvivere ai ripetuti attacchi ebraici durante tutta la guerra. Ma erano l’eccezione: infatti 531 villaggi, 11 quartieri urbani e città furono distrutti e gli abitanti espulsi per ordine preciso della Consulta, emanato nel marzo del 1948. Allora erano già stati eliminati 30 villaggi.
Pochi giorni dopo la messa a punto del Piano D, esso fu distribuito ai comandanti delle dodici brigate ora incorporate nell’Haganà. L’elenco che ogni comandante ricevette comprendeva una descrizione dettagliata dei villaggi di sua competenza e la loro sorte: occupazione, distruzione ed espulsione. I documenti israeliani rilasciati dagli archivi IDF (Israel Defense Forces, mia nota) alla fine degli anni Novanta indicano chiaramente che, contrariamente a quanto hanno affermato storici come Morris, il Piano Dalet fu inviato ai comandanti delle brigate non come generiche linee guida da eseguire, ma come precisi ordini operativi.
A differenza delle bozze generali inviate ai leader politici, gli elenchi dei villaggi che i comandanti militari ricevettero non davano indicazioni dettagliate riguardo l’esecuzione della distruzione o dell’espulsione. Non veniva specificato come i villaggi avrebbero potuto salvarsi, ad esempio con una resa incondizionata, che era invece contemplata nel documento generale. Appare anche un’altra differenza tra la bozza inviata ai politici e quella ricevuta dai comandanti militari: la bozza ufficiale indicava che il piano sarebbe stato attivato solo dopo la fine del Mandato; gli ufficiali in campo ricevettero l’ordine di iniziare le operazioni pochi giorni dopo la sua adozione. Questa dicotomia è tipica del rapporto che esiste in Israele tra l’esercito e i politici ancora oggi. Spesso l’esercito non dà ai politici le giuste informazioni relative alle proprie intenzioni: e quanto fecero Moshe Dayan nel 1956, Ariel Sharon nel 1982 e Shaul Mofaz nel 2000.
Ma la versione politica del Piano Dalet e le direttive militari avevano in comune l’obiettivo generale del piano. In altre parole, anche prima che gli ordini arrivassero alle truppe dispiegate, esse sapevano già cosa avrebbero dovuto fare. Quella coraggiosa e stimata sostenitrice israeliana dei diritti civili, Shulamit Aloni, a quel tempo ufficiale dell’esercito, ricorda che ufficiali politici speciali andavano di persona a incitare le truppe demonizzando i palestinesi e invocando l’Olocausto come punto di riferimento per le operazioni future, spesso proprio il giorno successivo alla seduta di indottrinamento.
Dopo l’approvazione della Consulta del Piano Dalet, il capo di Stato maggiore, Yigael Yadin, convocò gli ufficiali dell’intelligence dell’Haganà nella sede del servizio sanitario pubblico, Kupat Holim, in via Zamenhof a Tel Aviv (ancora oggi sede del servizio, di fronte a un noto ristorante indiano). Centinaia di ufficiali affollarono una sala che normalmente è quella di ricevimento per i pazienti.
Yadin non li informò del Piano Dalet: gli ordini erano stati impartiti quella settimana ai comandanti delle brigate, ma egli comunicò loro un’idea generale che non doveva lasciare dubbio alcuno sulla capacità delle loro truppe di eseguire il Piano. Gli ufficiali dell’intelligence erano anche in un certo senso “politruk” (“Commissari politici”), e Yadin si rese conto che doveva spiegare la discrepanza tra le dichiarazioni pubbliche della leadership sull’imminente “secondo Olocausto” e la realtà che le forze ebraiche non avrebbero incontrato resistenza nell’evacuazione pianificata di un territorio che sarebbe stato trasformato nel loro stato ebraico. Yadin, teatrale come sempre, cercò di colpire i suoi ascoltatori: poiché a loro sarebbero stati impartiti ordini di occupare, conquistare ed espellere una popolazione, meritavano di ricevere una spiegazione sul da farsi, visto poi che si leggeva sui giornali e si sentiva dire dai politici che essi stessi erano “in pericolo di annientamento”. Yadin, alto e snello, che sarebbe diventato una figura ben conosciuta a tutti gli israeliani, informò con orgoglio il pubblico: “Oggi abbiamo tutte le armi che ci servono; sono già state imbarcate e gli inglesi se ne stanno andando via, e appena avremo queste armi la situazione sulle frontiere cambierà del tutto”.
In altre parole, mentre Yigael Yadin descrive le ultime settimane di marzo del 1948 come il periodo più duro della guerra, potremmo invece pensare che la comunità ebraica in Palestina non correva in realtà il pericolo di annientamento: stava solo affrontando alcuni ostacoli sul percorso del piano di pulizia etnica. Queste difficoltà erano la relativa mancanza di armi e l’isolamento di insediamenti ebraici all’interno dello Stato arabo. Particolarmente vulnerabili risultavano alcuni insediamenti nella Cisgiordania e quelli nelle zone nord-occidentali del Negev (Negba, Yad Mordechai, Nizanim e Gat). Questi quattro insediamenti sarebbero rimasti isolati anche dopo l’entrata dell’esercito egiziano in Palestina che li occupò per breve tempo.
Anche alcuni insediamenti nell’alta Galilea non poterono essere raggiunti o difesi facilmente poiché erano circondati da molti villaggi palestinesi che ebbero la fortuna di essere protetti da diverse centinaia di volontari dell’ALA. Infine, la strada per Gerusalemme fu sottoposta a un pesante fuoco di cecchini palestinesi, tanto da far si che in quel mese si diffondesse un senso di assedio nelle zone ebraiche della città.
Il mese di aprile del 1948, secondo la storiografia ufficiale israeliana, fu un momento di svolta. Secondo questa versione, la comunità ebraica isolata e minacciata in Palestina si spostava dalla difesa all’attacco, dopo essere scampata alla sconfitta. La realtà della situazione non avrebbe potuto essere più diversa: lo squilibrio militare, politico ed economico delle due comunità era tale che non solo la maggioranza degli ebrei non correva alcun pericolo, anzi, tra gli inizi del dicembre del 1947 e la fine di marzo del 1948, il loro esercito aveva portato a termine la prima fase della pulizia etnica in Palestina, ancora prima che il master plan fosse messo in pratica. La svolta in aprile fu lo spostamento da attacchi e contrattacchi sporadici contro la popolazione civile palestinese verso la sistematica megaoperazione di pulizia etnica che sarebbe seguita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tre stragi tra le dozzine compiute dalle forze armate israeliane.
Negli articoli i fatti sono supportati da testimonianze dirette di militari e paramilitari israeliani, nonché dall’inchiesta supportata da atti d’archivio e testimonianze dirette redatta nel 2019 dal quotidiano israeliano “Haaretz”.


La strage di Deir Yassin. 9 aprile 1948.
Chiara Cruciati, Il Manifesto, 2019.


La storia sa essere dolorosamente ironica, giochi di tempi e spazi che si sedimentano su esistenze che furono e le occultano. La strada che da Tel Aviv arriva alle porte di Gerusalemme è la Highway 50, meglio nota come Begin, quel Menachem che, prima di diventare alla fine degli anni ’70 premier israeliano (e premio Nobel per la Pace nel 1978), fu il leader indiscusso della milizia paramilitare sionista Irgun. La milizia responsabile di crimini di guerra, acclarati, tra cui il massacro che più di altri è simbolo della Nakba palestinese: il massacro di Deir Yassin.
Da 71 anni Deir Yassin non si chiama più così. È Givat Shaul, quartiere di Gerusalemme ovest tra i primi che si incontrano arrivando da ovest sulla Begin. Toponomastica amara: ci si entra grazie alla superstrada intitolata a colui che spazzò via il villaggio palestinese, insieme a più di 110 persone, donne, uomini, bambini massacrati dalle Irgun, la gang Stern e le Lehi, con la complicità delle Haganah, la milizia che dopo il 1948 sarà colonna vertebrale del neonato esercito israeliano.
Appena tre anni dopo, su quel che restava delle case in pietra di Deir Yassin è sorto il centro di igiene mentale Kfar Shaul. Nuova amara ironia: l’ospedale ha curato nei suoi primi anni sopravvissuti all’Olocausto nazista e, dopo, pellegrini colpiti dalla cosiddetta "sindrome di Gerusalemme". Quelli che, persi nei vicoli della città (solo in teoria) più spirituale della terra, si credono il nuovo messia.
Della memoria di Deir Yassin restano le pietre delle tipiche case arabe e i fichi d’india. Rischiano di non restare più i documenti d’archivio che nascosero -prima di essere desecretati- le testimonianze dei paramilitari sionisti che quel massacro lo compirono. Anche quelli spariti nell’occultamento appena scoperto del ministero della Difesa.
Ma occultare Deir Yassin è pressoché impossibile. Sarebbe necessario per negare che un piano di espulsione di massa della popolazione palestinese abbia mai avuto luogo: il 9 aprile 1948 il villaggio fu attaccato con una violenza inaudita e un obiettivo preciso.
Non solo la "mera" eliminazione dei suoi abitanti: Deir Yassin doveva fare da monito per il resto della Palestina. Andatevene prima che a cacciarvi siano le armi. Strategia calcolata che rientrava nel cosiddetto Piano Dalet: “Lo scorso venerdì insieme alle Irgun il nostro movimento ha compiuto una tremenda operazione di occupazione del villaggio arabo Deir Yassin. Ho partecipato all’operazione nel modo più attivo -scrive in una lettera Yehuda Feder della Stern- Ho ucciso un arabo armato e due ragazze arabe di 16 o 17 anni. Li ho messi al muro e li ho colpiti con due giri di pistola”.
Storie custodite negli archivi, accompagnate da altre svelate a giornalisti e registi che si sono dedicati a Deir Yassin, come Neda Shoshani: “Correvano come gatti -le racconta un comandante delle Lehi, Yehoshua Zettler- casa per casa, mettevamo esplosivo e loro scappavano. Un’esplosione e poi avanti, metà del villaggio non c’era più. I miei uomini hanno preso i corpi, li hanno impilati e gli hanno dato fuoco. Hanno iniziato a puzzare”.
“A me è parso un pogrom -il racconto di Mordechai Gichon, delle Haganah-. Se attacchi una postazione militare e ci sono cento uccisi, non è un pogrom. Ma se vai in una comunità civile, quello è un pogrom. Se si uccidono civili, è un massacro”. Che si tentò di occultare, raccontò l’ex ministro Yair Tsaban, giunto a Deir Yassin il 10 aprile per seppellire i cadaveri: “La Croce Rossa poteva arrivare in ogni momento, era necessario nascondere le tracce”.

 

 

 

 

 

Deir Yassin

 

 

 

Deai Yassin

 

 

 

Deir Yassin

 

 

 

Deir Yassin

 

 

 

 

La strage di Safsaf. 29 ottobre 1948.
Chiara Cruciati, Il Manifesto, 2019.


La nonna di Dareen Tatour le ha raccontato la sua Nakba: il massacro di Safsaf, villaggio palestinese in Galilea attaccato dal neonato esercito israeliano il 29 ottobre del 1948.
(Dareen Tatour è palestinese, cittadina israeliana. Vive a Nazareth, è una poetessa e una scrittrice. Nel 2015, nei giorni caldi, i primi, della cosiddetta Intifada di Gerusalemme -mesi di attacchi isolati con i coltelli da parte di giovani palestinesi contro soldati e coloni israeliani, a volte veri, a volte presunti- pubblicò la poesia “Resist, my people resist them” su internet. A fare da sfondo un video con le immagini di proteste palestinesi. Per quella poesia aveva subito una condanna a tre anni di arresti domiciliari. Nel 2018 il tribunale di Nazareth, città a maggioranza palestinese nel nord di Israele, ha comminato una nuova pena: cinque mesi di carcere per “incitamento alla violenza”. La stessa corte a maggio l’aveva dichiarata colpevole del reato, ieri ha emesso la sentenza.)
È dai racconti della sua “teta” che la poetessa palestinese ha conosciuto la storia di quel villaggio scomparso dalle mappe. Al suo posto fu costruito il kibbutz Moshav Safsufa. Lo Stato di Israele era sta già nato, cinque mesi prima, ma il trasferimento forzato della popolazione palestinese non era terminato.
I soldati circondarono il villaggio, uccisero oltre 50 persone e gettarono i corpi in una fossa. La nonna di Dareen aveva 16 anni, era già sposata. Ha assistito al massacro. Safsaf fu svuotato, i suoi abitanti scapparono nei paesi vicini. Non lei, che viveva già con il marito nella vicina cittadina di al-Jesh.
Memoria orale (come spiega nell’intervista accanto lo storico Salim Tamari) che nel caso di Safsaf si intreccia ai documenti di Stato israeliani. Quel massacro è custodito nell’archivio Yad Yaari del partito di sinistra Mapam. O meglio era: è tra i file fatti sparire dal Malmab.
“Safsaf –52 uomini catturati, legati uno all’altro, scavata una buca, uccisi. 10 ancora si contorcevano. Le donne sono venute, hanno chiesto pietà. Trovati corpi di 6 anziani. C’erano 61 cadaveri, 3 casi di stupro. Una ragazza di 14 anni e quattro uomini uccisi. A uno di loro sono state tagliate le dita con un coltello per prendere l’anello”. Queste le note del membro del comitato centrale del Mapam, Aharon Cohen, riportate a Israel Galili, l’allora capo delle Haganah.
Note confermate da un comandante delle Haganah, Yosef Nahmani, che nel suo diario scrisse: “A Safsaf dopo che gli abitanti sventolarono la bandiera bianca, raccolsero uomini e donne in due gruppi, legarono 50 o 60 abitanti e gli spararono, li hanno seppelliti nella stessa buca. Dove hanno imparato questo comportamento, crudele come quello dei nazisti?”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La strage di Al-Dawayima. 29 ottobre 1948.
Fonti in lingua inglese: Sana Hammoudi, Interactive encyclopedia of the Palestine question – Mondoweiss – Haaretz.

 


Nei cinque mesi che seguirono la risoluzione delle Nazioni Unite sulla ripartizione, nel novembre del 1947, gli abitanti del villaggio e altri combattenti della resistenza, sulle colline di Al-Khalil (Hebron) si impegnarono in feroci ed estenuanti battaglie per difendere le proprie case dalle forze israeliane. Un anno dopo nell’ottobre del 1948, i combattimenti si avvicinarono al villaggio di al-Dawayima. Le cose diventarono gravi nella seconda metà di ottobre, quando l’esercito israeliano lanciò l’operazione Yoav nel sud della Palestina. I giovani del villaggio iniziarono a organizzare il servizio di guardia notturna per essere preparati a qualsiasi potenziale attacco.
Il 29 ottobre del 1948, mentre gli abitanti del villaggio stavano finendo le preghiere del venerdì, giunse la notizia che le forze israeliane avevano raggiunto la periferia del villaggio e che si erano divisi in sottogruppi per attaccare simultaneamente da tre direzioni, aprendo un fuoco pesante da nord, sud e ovest lasciando aperto l’est. Il villaggio non aveva più di venti uomini armati per cercare di fermare l’attacco. Alcuni di loro aprirono il fuoco con i fucili mentre altri ammassarono pietre ai punti di ingresso del villaggio per impedire l’avanzata degli aggressori, ma non fu sufficiente.
Il numero esatto delle vittime del massacro non è noto, ma si stima che siano state centinaia. Rapporti giunti al quartier generale della polizia di Hebron indicano l'uccisione di circa 200 abitanti del villaggio di al-Dawayima che si erano rifugiati nella moschea del villaggio, la maggior parte dei quali anziani e non fisicamente in grado di fuggire. Il comando della guarnigione egiziana a Betlemme riferì che le vittime furono 500, mentre il console americano a Gerusalemme scrisse nel suo rapporto che, secondo le notizie che gli erano pervenute, ad al-Dawayima sarebbero stati uccisi tra i 500 ei 1.000 palestinesi. Il capo villaggio Hassan Mahmoud Ihdeib disse di aver calcolato il numero delle vittime in 455 e di aver consegnato un elenco con i nomi delle vittime al governatore militare della Transgiordania. Ihdeib riferì anche che vi furono altre vittime tra coloro che si erano precedentemente rifugiati nel villaggio, ma di cui non era stato in grado di determinare il numero.
Ci furono due principali testimoni oculari del massacro avvenuto ad al-Dawayima: il citato Hassan Mahmoud Ihdeib, e un soldato israeliano. La testimonianza dei Ihdeib faceva parte di una lettera inviata il 14 giugno 1949 dal segretario del Congresso arabo sui rifugiati a Ramallah alla Commissione di conciliazione delle Nazioni Unite per la Palestina, riunitasi a Losanna con la partecipazione di Israele e degli Stati arabi interessati.
Ihdeib rese nuovamente la sua testimonianza nel 1984 ad un giornalista israeliano per il quotidiano “Hadashot”, dove fornì ulteriori dettagli; ad esempio, gli abitanti del villaggio che si erano rifugiati nelle grotte furono scoperti dalle truppe attaccanti. Fu ordinato loro di formare un'unica linea e marciare verso est. Mentre cominciavano a camminare, gli israeliani hanno aperto il fuoco su di loro. Ha anche ricordato che alcune persone tornarono la notte successiva per seppellire i corpi in un pozzo. Per verificare la fondatezza delle affermazioni di Ihdeib, il giornalista ha portato quattro operai e lo ha accompagnato nel punto da lui indicato per scavare all'interno del pozzo previsto. Lì infatti scoprirono resti umani -ossa e scheletri in un mucchio e tre teschi, tra cui quello appartenente a un bambino piccolo- dopodiché gli operai smisero di scavare. Constatato che era avvenuta una strage, la giornalista andò avanti e pubblicò il suo articolo il 24 agosto 1984.
Per la testimonianza del soldato, leggasi in inizio pagina.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I campi di lavoro forzato. 1948.
Almeno cinque i campi ufficiali noti alla Croce Rossa Internazionale, che contenevano fino a 3.000 prigionieri l’uno. 17 quelli non riconosciuti. Dal lungo lavoro di ricerca negli archivi della Croce Rossa, ricostruiti gli anni dopo il 1948.
Near East News Agency, 2014. NENA è stata una agenzia giornalistica indipendente.

 


Gran parte delle circostanze cupe e torbide della pulizia etnica sionista dei palestinesi alla fine degli anni ’40 è stata gradualmente portata alla luce nel corso del tempo. Un aspetto -raramente studiato o discusso approfonditamente- è l’internamento di migliaia di civili palestinesi negli almeno 22 campi di concentramento e di lavoro istituiti dai sionisti che sono esistiti dal 1948 al 1955. Ora, grazie alla ricerca completa del famoso storico palestinese Salman Abu Sitta e al membro fondatore del centro di risorse palestinese BADIL Terry Rempel, si sa qualcosa di più sui contorni di questo crimine storico.
Lo studio -che sarà pubblicato sul prossimo numero del Journal of Palestine Studies- si basa su quasi 500 pagine di relazioni del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) scritte durante la guerra del 1948, che sono stati declassificate e rese disponibili al pubblico nel 1996, e accidentalmente scoperte da uno degli autori nel 1999. Inoltre, gli autori hanno raccolto le testimonianze di 22 ex-detenuti civili palestinesi di questi campi attraverso interviste che si sono svolte nel 2002 e in altri periodi.
Grazie a queste fonti gli autori, come dicono loro, sono riusciti a mettere insieme più chiaramente la storia di come Israele abbia catturato e imprigionato “migliaia di civili palestinesi come lavoratori forzati,” e li abbia sfruttati “per sostenere la sua economia in tempo di guerra”.
“Mi sono imbattuto in questo pezzo di storia negli anni ’90 -racconta Abu Sitta ad al-Akhbar- mentre stavo raccogliendo materiale e documenti sui palestinesi. Più si scava, più si scopre che ci sono crimini che hanno avuto luogo, ma che non sono stati segnalati e non sono conosciuti”.
A quel tempo, Abu Sitta era andato a Ginevra per una settimana per controllare gli archivi di nuova apertura della Croce Rossa Internazionale. Gli archivi, secondo lui, erano stati aperti al pubblico dopo le accuse mosse alla CRI di essersi schierata con i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Vedere ciò che la CRI aveva registrato degli eventi che si erano verificati in Palestina nel 1948 era un’opportunità che non poteva lasciarsi scappare: è stato lì che si è imbattuto nei documenti che parlano dell’esistenza di cinque campi di concentramento gestiti dagli israeliani.
Ha poi deciso di cercare testimoni o ex detenuti, intervistando i palestinesi nella Palestina occupata, in Siria e in Giordania. “Tutti -dice- hanno descritto la stessa storia, e la loro esperienza di vita in questi campi”. Si è subito chiesto perché ci fosse a malapena qualche riferimento alla storia di questi campi, soprattutto quando è diventato più chiaro che esistessero mentre faceva ricerca, e che fossero più che solo cinque campi.
“Molti ex detenuti palestinesi -spiega Abu Sitta- vedevano Israele come un nemico feroce, così hanno pensato che la loro esperienza di lavoro in questi campi di concentramento fosse niente in confronto all’altra grande tragedia, quella della Nakba. La Nakba ha oscurato tutto”. “Tuttavia, mentre cercavo nel periodo del 1948-1955 -aggiunge- ho trovato altre fonti, come Mohammed Nimr al-Khatib, che era un imam a Haifa: egli aveva registrato delle interviste con qualcuno della famiglia al-Yahya, che era in uno dei campi. Sono stato in grado di rintracciare quest’uomo fino in California e ho parlato con lui nel 2002″.
Altre fonti, lentamente scoperte da Abu Sitta, includevano le informazioni ricevute da una donna ebrea chiamata Janoud, un’unica tesi di master sull’argomento all’Università Ebraica e i racconti personali dell’economista Yusif Sayigh. Tutto questo ha contribuito ad arricchire ulteriormente la portata e la natura di questi campi. Dopo più di un decennio Abu Sitta, assieme al suo co-autore Rempel, stanno finalmente presentando i loro risultati al pubblico.
L’istituzione di campi di concentramento e di lavoro si è verificata dopo la dichiarazione unilaterale dello stato di Israele nel maggio del 1948.
Prima di questo evento, il numero dei prigionieri palestinesi in mani sioniste era piuttosto basso, perché, come afferma lo studio, “la leadership sionista aveva concluso presto che l’espulsione forzata della popolazione civile era l’unico modo per stabilire uno stato ebraico in Palestina con una larga maggioranza ebraica necessaria per essere ‘vitale'”. In altre parole, per gli strateghi sionisti, i prigionieri erano un peso nelle fasi iniziali della pulizia etnica.
Quei calcoli vennero modificati con la dichiarazione dello stato di Israele e il coinvolgimento degli eserciti di Egitto, Siria, Iraq e Transgiordania, dopo che gran parte della pulizia etnica era stata effettuata. Da quel momento, “le forze israeliane avevano cominciato a fare prigionieri, sia tra i soldati arabi regolari (per eventuali scambi) che -in modo selettivo- civili palestinesi normodotati non combattenti”
Il primo campo fu quello di Ijlil, che era a circa 13 km a nord est di Jaffa, sul sito del villaggio palestinese distrutto di Ijlil al-Qibiliyya, svuotato dei suoi abitanti ai primi di aprile. Ijlil era prevalentemente composta da tende, che ospitavano centinaia e centinaia di prigionieri, classificati come prigionieri di guerra da parte degli israeliani, circondati da recinzioni di filo spinato, torri di guardia e un cancello con le guardie.
Con le conquiste israeliane che crescevano, e che facevano aumentare esponenzialmente il numero dei prigionieri, furono aperti altri tre campi. Questi sono i quattro campi “ufficiali” che gli israeliani avevano confermato e erano stati regolarmente visitati dal CICR.
Lo studio rivela che: “Tutti e quattro i campi erano all’interno o accanto a installazioni militari istituite dagli inglesi durante il mandato. Queste erano state utilizzate durante la seconda guerra mondiale per la detenzione di tedeschi, italiani e altri prigionieri di guerra. Due dei campi -Atlit, istituito a luglio a circa 20 km a sud di Haifa, e Sarafand, istituito a settembre nei pressi del villaggio spopolato di Sarafand al-Amar nel centro di Palestina- erano utilizzati negli anni ’30 e ’40 per detenere immigrati ebrei illegali”.
Atlit era il secondo più grande campo dopo Ijlil e aveva la capacità di contenere fino a 2.900 prigionieri, mentre Sarafand aveva la capacità massima di 1.800 e Tel Letwinksy, vicino a Tel Aviv, di oltre 1.000.
Tutti e quattro i campi erano amministrati da “ex ufficiali britannici che avevano disertato quando le forze britanniche si erano ritirate dalla Palestina a metà maggio del 1948″ e le guardie del campo e il personale amministrativo erano ex membri della Irgun e della Banda Stern, entrambi designati come organizzazioni terroristiche dagli inglesi prima della loro partenza. In totale, i quattro campi “ufficiali” erano gestiti da 973 soldati.
Un quinto campo, chiamato Umm Khalid, era stato istituito sul sito di un altro villaggio spopolato vicino alla colonia sionista di Netanya: gli era stato anche assegnato un numero ufficiale nei registri, ma non ha mai raggiunto lo status di “ufficiale”. Aveva la capacità di contenere 1.500 prigionieri. A differenza degli altri quattro campi, Umm Khalid sarebbe stato “il campo più severo istituito esclusivamente come un campo di lavoro” ed è stato “il primo dei campi riconosciuti a chiudere prima della fine del 1948″.
In aggiunta a questi cinque campi “riconosciuti”, c’erano almeno altri 17 “campi non riconosciuti” che non sono stati menzionati nelle fonti ufficiali, ma scoperti dagli autori attraverso molteplici testimonianze dei prigionieri. “Molti di questi campi -hanno notato gli autori- sembravano improvvisati, spesso composti da non più di una stazione di polizia, una scuola, o la casa del notabile di un villaggio” con capacità che spaziavano da decine a 200 detenuti.
La maggior parte dei campi, ufficiali e non ufficiali era situata entro i confini dello stato ebraico proposto dall’Onu, “anche se almeno quattro [campi non ufficiali] -Beersheba, Julis, Bayt Daras, e Bayt Nabala- erano nello stato assegnato agli arabi e uno era dentro Gerusalemme, allora a statuto speciale”.
Il numero di detenuti non-combattenti palestinesi aveva “di gran lunga superato” quelli dei soldati arabi degli eserciti regolari o prigionieri di guerra in buona fede. Citando un rapporto mensile del luglio 1948 redatto dal capo missione CRI Jacques de Reynier, lo studio afferma che egli aveva osservato “che la situazione degli internati civili è stata “assolutamente confusa” con quella dei prigionieri di guerra e che le autorità ebraiche “trattavano tutti gli arabi di età compresa tra i 16 e i 55 anni come combattenti e li tenevano rinchiusi come prigionieri di guerra”. Inoltre, la CRI aveva trovato tra i detenuti dei campi ufficiali 90 uomini anziani e 77 ragazzi, di età inferiore ai 15 anni.
Lo studio mette in evidenza le dichiarazioni del delegato della CRI Emile Moeri nel mese di gennaio del 1949 sui detenuti del campo: “E’ doloroso vedere queste povere persone, soprattutto anziani, strappati ai loro villaggi e messi senza ragione in un campo, costretti a passare l’inverno sotto le tende bagnate, lontano dalle loro famiglie; coloro che non hanno potuto sopravvivere a queste condizioni sono morti. Figlioli (10-12 anni) si trovano ugualmente in queste condizioni. Allo stesso modo i malati, alcuni con la tubercolosi, languono in questi campi in condizioni che, pur accettabili per individui sani, certamente porteranno alla loro morte, se non troviamo una soluzione a questo problema. Per molto tempo abbiamo chiesto alle autorità ebraiche di rilasciare quei civili che sono malati e necessitano della cura delle loro famiglie o di un ospedale arabo, ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta”.
Come osserva il rapporto, “non ci sono dati precisi sul numero totale di civili palestinesi detenuti da Israele durante la guerra del 1948-49″ e le stime tendono a non tenere conto di campi “non ufficiali”, oltre al movimento frequente di prigionieri tra i campi in uso. Nei quattro campi “ufficiali” il numero dei prigionieri palestinesi non ha mai superato le 5 mila unità secondo i dati dei documenti israeliani.
Prendendo come riferimento la capacità di Umm Khalid e le stime dei “campi non ufficiali”, il numero finale di prigionieri palestinesi potrebbe salire intorno alle 7 mila unità, e forse molte di più, come afferma lo studio, se si tiene conto del diario di ingresso compilato il 17 novembre 1948 da David Ben Gurion, uno dei principali leader sionisti e primo ministro di Israele, che afferma “l’esistenza di 9 mila prigionieri di guerra nei campi gestiti dagli israeliani”.
In generale, le condizioni di vita nei campi “ufficiali” erano di gran lunga inferiori a quello che sarebbe stato considerato appropriato dal diritto internazionale in quel momento. Moeri, che ha visitato i campi di continuo, ha riferito che a Ijlil nel novembre 1948: “molte delle tende sono strappate, il che significa che il campo “non è pronto per l’inverno,” le latrine non sono coperte e la mensa è ferma da due settimane. Riferendosi a una situazione apparentemente in corso, ha affermato che “la frutta è ancora guasta, la carne è di scarsa qualità e le verdure scarseggiano”.
Inoltre, Moeri ha riferito di aver visto “‘le ferite lasciate dagli abusi della settimana precedente, quando le guardie avevano sparato sui prigionieri, ferendone uno, e ne avevano picchiato un altro”.
Come mostra di studio, lo stato civile della maggioranza dei detenuti era chiaro ai delegati della CRI nel paese, che hanno riferito che gli uomini catturati “senza dubbio non erano mai stati in un esercito regolare”. I detenuti che erano combattenti, spiega lo studio, venivano “regolarmente uccisi con la scusa che stavano tentando di fuggire”.
Le forze israeliane sembravano prendere di mira sempre uomini validi, lasciando da parte di donne, bambini e anziani, quando non li massacravano, e la politica continuò anche dopo che vi erano bassi livelli di confronto militare. Tutto sommato, come mostrano i registri israeliani e come cita lo studio “la stragrande maggioranza (82 per cento) dei 5.950 indicati come internati nei campi di prigionia erano civili palestinesi, mentre i palestinesi in generale (civili e militari) formavano l’85 per cento dei detenuti”.
Il rapimento in larga scala e la detenzione di civili palestinesi tendono a corrispondere con le campagne militari israeliane. Ad esempio, uno dei primi grandi rastrellamenti si è verificato durante l’Operazione Danj, quando 60-70 mila palestinesi furono espulsi dalle città centrali di Lydda e Ramleh. Allo stesso tempo, tra un quinto e un quarto della popolazione maschile di queste due città al di sopra dei 15 anni era stato inviato nei campi. La più grande retata di civili proveniva dai villaggi della Galilea centrale, catturata durante l’Operazione Hiram nell’autunno del 1948.
Un sopravvissuto palestinese, Moussa, ha descritto agli autori ciò che ha assistito al momento: “Ci hanno rastrellati da tutti i villaggi intorno a noi: al-Bi’na, Deir al-Asad, Nahaf, al-Rama, e Eilabun. Hanno preso 4 giovani uomini e li hanno uccisi… Ci hanno condotti a piedi. Faceva caldo. Non ci era permesso bere. Ci hanno portati a [il villaggio palestinese druso, ndr] al-Maghar, poi a [l’insediamento ebraico, ndr] Nahalal, poi ad Atlit”.
Il 16 Novembre 1948 un rapporto delle Nazioni Unite confermò il racconto di Moussa, affermando che circa 500 uomini palestinesi “sono stati fatti marciare a forza e trasferiti in un campo di concentramento ebraico a Nahlal”.
La politica di prendere di mira i civili, in particolare uomini “abili”, non era accidentale. Come afferma lo studio, “con decine di migliaia di uomini e donne ebrei chiamati per il servizio militare, gli internati civili palestinesi costituivano un importante complemento al lavoro civile ebraico impiegato ai sensi della legislazione di emergenza nel mantenere l’economia israeliana”, che anche la delegazione della CRI aveva notato nelle proprie relazioni.
I prigionieri erano costretti a fare lavoro pubblico e militare, come essiccare le zone umide, a lavorare come servi nella raccolta e nel trasporto delle proprietà saccheggiate ai rifugiati, spostando pietre demolite di case palestinesi, a pavimentare le strade, scavare trincee militari, seppellire i morti e molto altro.
Come un ex detenuto palestinese di nome Habib Mohammed Ali Jarada ha descritto nello studio, “a mano armata mi facevano lavorare tutto il giorno. Di notte, dormivamo in tenda. In inverno, l’acqua filtrava sotto i nostri giacigli, composti da foglie secche, cartoni e pezzi di legno”.
Un altro prigioniero in Umm Khalid, Marwan al-Iqab Yehiya ha detto in un’intervista con gli autori: “Dovevamo tagliare e trasportare le pietre [in una cava] tutto il giorno. Il nostro cibo quotidiano era solo una patata al mattino e mezzo pesce essiccato durante la notte. Picchiavano chiunque disobbedisse agli ordini”. Il lavoro veniva inframmezzato da atti di umiliazione da parte guardie israeliane: Yehiya parla di prigionieri “allineati e fatti spogliare come punizione per la fuga dei due prigionieri di notte”.“[Ebrei] adulti e bambini venivano dal kibbutz vicino a guardarci in fila nudi e ridevano. Per noi -ha aggiunto- questa è stata la cosa più degradante”.
Abusi da parte delle guardie israeliane erano sistematici e diffusi nei campi, diretti verso paesani, contadini e la classe palestinese più bassa. Questo si è verificato, dice lo studio, perché i detenuti istruiti “conoscevano i loro diritti e avevano la coscienza necessaria per discutere e resistere ai loro carcerieri.”
Citando la testimonianza di Kamal Ghattas, che è stato catturato durante l’attacco israeliano in Galilea: “Abbiamo avuto un litigio con i nostri carcerieri. Quattrocento di noi di fronte a 100 soldati. Hanno portato i rinforzi. Io e tre dei miei amici siamo stati portati in una cella. Hanno minacciato di spararci. Tutta la notte abbiamo cantato l’inno comunista. Ci hanno portato tutti e quattro al campo di Umm Khaled. Gli israeliani avevano paura della propria immagine in Europa. Il nostro contatto con il nostro Comitato Centrale e Mapam [Partito socialista israeliano] ci ha salvati”. Eppure, i palestinesi meno fortunati facevano fronte ad atti di violenza che comprendevano le esecuzioni arbitrarie e le torture, senza ricorso. Le esecuzioni sono state sempre spacciate come arresto dei “tentativi di fuga”, reali o rivendicati tali, dalle guardie.
Era diventato così comune che un ex detenuto palestinese di Tel Litwinsky, Tewfic Ahmed Jum’a Ghanim ha raccontato: “Chiunque rifiutava di lavoro veniva fucilato. Dicevano che [la persona] aveva tentato di fuggire. Quelli di noi che pensavano [che] stavano per essere uccisi camminavano all’indietro di fronte alle guardie”.
In definitiva, entro la fine del 1949, i prigionieri palestinesi vennero gradualmente rilasciati dopo forti pressioni da parte della CRI e delle altre organizzazioni, ma i rilasci erano limitati in scala e molto concentrati su casi specifici. I prigionieri degli eserciti arabi vennero rilasciati durante gli scambi di prigionieri, mentre i detenuti palestinesi vennero unilateralmente espulsi attraverso la linea di armistizio senza cibo, forniture, o riparo: gli venne detto di camminare in lontananza e di non tornare mai più.
Questo non sarebbe successo fino al 1955, quando la maggior parte dei prigionieri civili palestinesi venne finalmente rilasciata.