Mag 2024. Miroslav Tichý.
Il tempo di una mia passeggiata determina quello che voglio fotografare…
Io sono un profeta della decadenza e un pioniere del caos,
perché solo dal caos è possibile che emerga qualcosa di nuovo…
Il tuo pensiero è troppo astratto! la fotografia è qualcosa di concreto.
La fotografia è percezione, sono gli occhi che intravedi, e succede così velocemente che potresti non vedere proprio nulla!
Per raggiungere questo, ti serve innanzitutto una pessima macchina fotografica!…
Prima di tutto è necessario avere una macchina fotografica scadente…
Se vuoi essere famoso, è necessario fare qualcosa peggio di chiunque altro al mondo…
Tutti i disegni sono già stati disegnati, tutti i dipinti sono già stati dipinti, cos’era rimasto per me?
Miroslav Tichý
“El mestée” di maggio lo dedico a un vero artista della “fotografia randagia di strada”, rivoluzionario, e non assolutamente per necessità, nella scelta tecnica integrale della creazione d’immagine, fautore di opera essudante sensualità che assurge talvolta a erotismo iconico. Ma ciò che più mi ha coinvolto in Tichy, e che mi ha imposto la dedica, è la suprema e indiscutibile coerenza tra la vita e l’espressione artistica.
Il soggetto quasi esclusivo di Tichy è l’essenza femminile, non riduttivamente la “donna”, ripresa in molteplici situazioni, atteggiamenti essenzialmente carpiti nel suo girovagare per Kyjov, da che la determinazione di voyeurismo riferita al suo modus operandi sulla quale mi permetto di non concordare qualora il termine sia definito alla mera accezione parafilica inquadrabile in un disturbo psichiatrico. Purtroppo non ho trovato interviste o testimonianze dirette di Tichy a spiega della sua predilezione che ne dessero un lettura autentica, salvo una frase della sua poesia riportata in calce: " se fosse un'ossessione, sarebbe una donna".
I contributi narrativi sono di Pino Bertelli, fotografo, scrittore, cineasta, ma soprattutto anarchico, di cui consiglio il sito https://pinobertelli.it/, che ne privilegia il profilo critico-situazionista, e di Giuseppe Bocci, blogger di fotografia, che ne privilegia il profilo biografico-citazionista, e per chi volesse leggersi il testo di Gianfranco Sanguinetti, “Miroslav Tichý ou les formes du vrai”, ne allego il pdf.
Le immagini “on the road” sono quelle che ho rintracciato sul web (non ve ne sono molte di più di queste, almeno in formato riproducibile) e sono realmente decisamente minoritarie rispetto alle immagini ritratte da Tichy, che dal 1960 al 1985 scattò migliaia di fotogrammi. Essendo stato Tichy anche marginalmente pittore, ho preferito escludere dal “mestée” i dipinti, che ritengo ininfluenti nella sua rivoluzionaria espressione creativa.
In conclusione alla intro, riporto, dalla recensione della mostra personale tenutasi a Praga nel 2013, due note di Damiano Laterza:
"La messa a fuoco dolce, gli scorci fugaci, nebulosi e obliqui, i segni lasciati dal processo di produzione -viziati dai limiti di un'attrezzatura preistorica- e una serie di errori di elaborazione deliberati (o causati dalle circostanze in cui l'eccentrico artista visse) fanno raggiungere a queste fotografie livelli di perfezione poetica esaltanti. Il laboratorio di Tichý era un angolo della catapecchia ove abitava, separato dal resto con pezzi di stracci, con la finestra offuscata per mezzo di un pennarello nero e una lampadina dipinta con vernice rossa. L'ingranditore era fatto dello stesso materiale riciclato con cui egli costruiva le sue macchine fotografiche. Tichý viveva tra cumuli di foto, vi camminava sopra, tra ratti che rincorrevano scarafaggi, e spesso ne bruciava un po' per scaldarsi".
(...)
"Tichý è oggi un autore di culto assoluto (un suo scatto costa fino a 10.000 dollari), celebrato da musei come il Centre Pompidou di Parigi o l'International Center of Photography di New York. Le straordinarie immagini di Miroslav Tichý -scattate in condizioni di fortuna, sfocate, rare, sporche, espressioni di una mente schizofrenica, capaci di suscitare uno straniante effetto di lurida malinconia- sarà possibile ammirarle durante tutta l'estate, nel corso di una imperdibile sezione speciale della Biennale di Praga (giunta quest'anno alla sesta edizione). Un omaggio dovuto a un genio oscuro, che ha reinventato la fotografia".
Per chi volesse navigare verso analogie esistenziali e creative nell’ambito pittorico, consiglio approdare a Follemente artisti/Artisticamente folli.
Ecco il primo contributo. Pino Bertelli, redatto a Piombino, dal Vicolo dei gatti in amore, nel 2016.
Miroslav Tichy. Elogio dell’imperfezione nella fotografia randagia dei un flaneur.
(Flâneur è un termine francese, reso celebre da Charles Baudelaire, che indica l'uomo che vaga oziosamente per le vie cittadine, senza fretta, sperimentando e provando emozioni nell'osservare il paesaggio. La parola può essere tradotta in italiano con "bighellone", tuttavia anche la locuzione "andare a zonzo" rende bene l'idea dell'azione. Mia nota.)
I. Sulla fotografia randagia di un flaneur.
Bisogna amarla molto la fotografia, per volerla distruggere… la coscienza della fotografia dominante è coscienza del mito che ne consegue… la creatività liberata dai cenacoli dello spettacolo è per essenza rivoluzionaria. “La funzione dello spettacolo ideologico, artistico, culturale, consiste nel trasformare i lupi della spontaneità in pastori del sapere e della bellezza” (Raoul Vaneigem). Di fotografi del consenso sono lastricati gli annali e le antologie della fotografia insegnata, galleristica o museale… la storia li conserva così perfettamente nella gelateria della loro durata che si dimentica di leggere o intendere, meglio ancora, di comprendere la messe di banalità sulle quali ogni fotografo (non importa che sia di successo, anche un fotoamatore con la spocchia imprenditoriale fa lo stesso) ha diritto a un posto nel confortorio dell’imbecillità. Ogni apocalisse fotografica è bella di una bellezza uccisa o del suo contrario! Ogni storia va rifatta al rovescio… i ribelli non hanno bisogno di conoscersi per pensare la stessa cosa! la liquidazione della civiltà parassitaria (finanziaria, ideologica, religiosa, sapienziale) non merita essere in alcun modo difesa ma va aiutata a cadere. La fotografia, tutta la fotografia, o attende alla libertà dell’uomo o è il boia che lo impicca.
Sulla fotografia dell’imperfezione. Le immagini dell’imperfezione esprimono una fare-fotografia che smaschera le ipocrisie della fotografia come apologia del bello e toglie i veli all’avvenimento, alla maschera, al ruolo... risveglia l’estraniamento brechtiano della presenza che lo obbliga a prendere decisioni e comunicare conoscenze e argomentazioni... la fotografia dell’imperfezione è l’immagine rovesciata della realtà prostituita alle codificazioni del mercato dell’arte e della politica. “La pretesa di fare arte è sempre stata la prerogativa dei mercanti di fotografie” (Gisèle Freund). Ora tocca ai fotografi dell’imperfezione a fare della fotografia millantata la cloaca di tutte le stupidità fantasmate come successo artistico. La fotografia non pensa quello che sa, può pensare soltanto quello che ignora. L’ignoranza del sapere è immensa! Il divenire degli spiriti liberi è nella fotografia dell’indignazione! Sotto il sole della fotografia paludata trionfa una primavera di carogne.
Da qualche parte abbiamo scritto: “La Bellezza non può entrare nell’arte se lo spirito dell’individuo non è ancorato alla sua opera e non riflette la decostruzione del sacro. La Bellezza ha a che fare con la nuda anarchia dell’immaginazione… la via alla bellezza comincia nell’incontro d’amore tra le genti… camminare insieme alla Bellezza significa opporsi a tutto quanto si mostra come negazione del piacere o rituale del puritanesimo mercantile delle idee”. La bellezza dell’imperfezione (in fotografia e dappertutto) si schiude alla veridicità del suo dolore e fa della fierezza il luogo di pubblico passaggio, come possiamo vedere e restare abbagliati nella poetica libertaria e libertina delle fotografie di Miroslav Tichý. La fotografia dell’imperfezione sboccia nel mondo con il bene dei giusti e combatte -con tutti i mezzi necessari- l’origine del male.
Un’annotazione fuori margine. Miroslav Tichý è un clochard, un vagabondo, un barbone ritenuto da molti folle, disadattato, un pezzente ed invece era un poeta della fotografia di strada, diretta (non quella banalizzata nel pittorialismo manicheista di Alfred Stieglitz, s’intende). Tichý nasce a Kyjov nel 1926, in Moravia (al tempo Cecoslovacchia), si trasferisce a Praga nel 1945 per iscriversi all’accademia d’arte e sulle correnti delle avanguardie artistiche del tempo inizia a lavorare come pittore e disegnatore. Nel 1948 il Partito Comunista sale al potere… la Cecoslovacchia si dichiara “democrazia popolare” e diventa parte dell’impero sovietico… e secondo i principi marxisti-leninisti-stalinisti consolidati, chi non sta dalla parte del potere comunista viene bastonato, buttato in galera o eliminato. I proletari vengono catechizzati dal regime e gli artisti devono celebrare l’Uomo Sovietico e imbalsamare nel mito Stalin i suoi genocidi. All’accademia d’arte di Praga i professori non allineati sono cacciati, gli studenti dissidenti fatti sparire nelle segrete della polizia politica o gettati nel fiume Moldava… hai più fortunati tocca il manicomio… come è successo a Miroslav Tichý.
Negli anni ’60 Tichý faceva parte del collettivo artistico Brněnská Pětka (Brno Five), ostile all’impalcatura criminale comunista, viene arrestato, rinchiuso in carcere e in cliniche psichiatriche… intanto scoppia la Primavera di Praga (1968) e l’armata rossa reprime la contestazione popolare con i carri armati (come aveva fatto a Budapest nel 1956)… il Partito comunista italiano, naturalmente, sta dalla parte degli assassini. La seduzione del potere ci rabbrividisce… come la santità e l’eroismo sono altrettante forme di mancanza di talento. I malati di speranza si richiamano ad un “umanismo" d’accatto e alle promesse di felicità che la negano.
La salute mentale di Tichý è fragile, per contestare la società nella quale vive sceglie l’autoesilio, torna a vivere a Kyjov… da clochard… in una casetta/baracca fatiscente. Non possiede nulla (né lo vuole), solo la sua fantasia e la libertà degli ultimi… si chiama fuori dal giogo sociale… così reinventa il “grado zero della fotografia”. Costruisce fotocamere con compensato, cartone, pezzi di plastica, lenti prese da macchine fotografiche giocattolo, lattine di birra, plexiglas (lavorato con cenere, dentifricio, carta vetrata) e porta la fotografia dell’imperfezione nella strada o viceversa. La fotografia sarebbe intollerabile senza i poeti maledetti che la bruciano. A un certo grado di disobbedienza civile, ogni franchezza diventa indecente. Nei documentari che circolano in YouTube (Tarzan v důchodě (Miroslav Tichý) - celý dokument (2008) di Roman Buxbaum o “Ballad Of A Deadman / Miroslav Tichy” di David Sylvian) si resta abbacinati dalla lucida follia/anomalia di questo artista… lo sguardo incisivo, la risata sdentata, i capelli sporchi, lunghi, da Cristo laico delle discariche… lo incidono fuori dalla menzogna ammaestrata del successo e non c’è nessuna identificazione d’accesso a un qualsiasi altare o comportamento che lo decifri oltre la vita disadattata che ha scelto… la frontiera tra follia e autoisolamento sta nel meglio perdersi nell’ottimismo moderno per meglio ritrovarsi nella radicalità della propria presenza nel mondo.
Il teatro creativo di Tichý sono la stazione degli autobus, la piazza principale, i giardini pubblici… strade, parchi, rive dei fiumi… ruba ciò che può alla quotidianità di Kyjov. La visione è diretta, quella del voyeur, del libertino, dell’anarca che non vuole l’amore di Cristo né l’odio degli uomini, ma solo la giustizia necessaria che non passa dalla carità del perdono ma dalla forza del riscatto creativo. In modo particolare “scruta” le donne… le “denuda” senza oltraggiarle e costruisce un florilegio di bellezza dell’umano che ha pochi precedenti nella storiografia fotografica.
Il libro di Gianfranco Sanguinetti, “Miroslav Tichý: Les Formes du Vrai / Forms of Truth” (2011) non è solo un tributo dovuto a un fotografo di genio… lo scritto di Sanguinetti che accompagna le immagini di Tichy schiude lo scenario ereticale di un fabbricatore d’immagini che sta al margine della fotografia, poiché ne rivendica la fine. Per avere un posto di rilievo nella fotografia, bisogna essere commedianti, rispettare il merletto delle idee e farsi portatori di falsi problemi. L’improntitudine di una sovversione senza rimpianti è l’ultima parola di una civiltà che si spegne.
Il collezionista svizzero Roman Buxbaum, scopre la fotografia della spazzatura di Tichý negli anni ’90 e il fotografo-barbone viene incluso nella biennale di Siviglia del 2004, curata da Harald Szeemann, critico e storico dell’arte. Da quel momento, come dicono, Tichy –acquisì fama a livello mondiale e le sue opere furono esposte a Madrid, Palma di Maiorca, Parigi e presso la prestigiosa galleria ICP di New York-. Va detto: come sappiamo il mercato recupera tutto, anche gli avanzi di galera, se vendono… e forse anche l’erotismo imperfetto di Tichý finirà sulle pareti dei salotti buoni o negli scaffali dei centri commerciali… tuttavia non sarà facile dissertare sulla sua arte nell’ora del tè. Tutto ciò che non accetta l’esistenza in quanto tale confina con il disprezzo per l’ordine costituito.
Tichý muore il 12 Aprile del 2011 a Kyjov. Lascia in eredità una cartografia fotografica che esprime la visione dell’imperfezione e l’immaginale dell’erotismo tra i più alti (certo il più fuori gioco) del ‘900. Scompare l’uomo ma resta la sua opera a testimoniare che la storia è una sfilata di falsità assolute, una successione di templi innalzati a pretesto del più armato, un avvilimento della conoscenza dinanzi ai simulacri del dominio dell’uomo sull’uomo.
II. Elogio dell’imperfezione sulla fotografia della spazzatura.
La fotografia che non è in difesa delle cause perse non serve a niente... per manifestarsi la fotografia esige la verità e spesso vi soccombe, ma non cessa di disseminare ai quattro venti della terra la sua vitalità e utopia libertaria... la condizione esistenziale della fotografia della flânerie o fotografia di strada, non è quella che si fa “per” la strada ma che affabula un’utopia delle situazioni nella” strada, smaschera i luoghi comuni e la stupidità sui quali si sostengono religioni, partiti, economie, culture... è un’invettiva contro l’impostura istituzionale che rende il vero che uccide la vita una scenografia da operetta (avevamo scritto nel nostro moleskine, in una deriva fotografica a New York nel 2010).
In generale, la fotografia è un avvilimento dell’anima… anche quando si allontana dalla stupidità, la fotografia rimane assoggettata agli inganni infantili o del mercimonio che la determinano. Il bisogno di consenso e di successo dei fotografi trionfa sulla mediocrità e sul ridicolo. La capacità di adorazione della fotografia verso i responsabili di tutti crimini impuniti è sovente un’impostura o un tradimento: c’è sempre una definizione dell’arte della fotografia all’origine di un tempio della confessione, dell’assoluzione o dell’impiccagione… e non c’è forma d’intransigenza ideologica, sacrale o mercantile che non riveli l’imbecillità dell’entusiasmo.
La scrittura fotografica di Miroslav Tichý è quella di un flâneur, di un filosofo del margine, di un libertino che cerca nella strada l’imago (rappresentazione o immagine inconscia) di momenti svelati e si legge in contrapposizione alle norme sociali… è il diario di un’ossessione erotica, anche… la constatazione che l’immaginario dal vero non nasce da una macchina fotografica (quale che sia) ma dallo sguardo impertinente che sta dietro questa scatola magica. La scrittura fotografica di Tichý è un percorso di tentazioni e di vertigini dispersi nella climatizzazione dell’incompiuto… una sorta di archeologia dei sentimenti che traboccano di vita vera… c’è Nietzsche, Baudelaire, Benjamin, financo Pasolini in quelle fotografie randagie, scorticate, disperate, anche… la fotografia muore quando tollera verità che la escludono.
Le derive fotografiche di Tichý sono seducenti… scatta ciò che lo imprigiona… l’erotismo rubato e la bellezza fugace di un corpo di donna si configura nell’inquadratura sbilenca, nel rapporto emozionale, nel modo di maneggiare la fotocamera (come già detto, uno strumento fatto con plastica, cartone, colla, nastro isolante e lenti trovate nei cassoni dell’immondizia) e renderla invisibile o nemmeno credibile a quanti si fanno complici di questo sudicio barbone e si mettono in posa per il ritratto. Al fondo delle immagini di Tichý c’è una “ruvidità figurativa” non priva di rimandi alla decostruzione dell’arte propri al dada, surrealismo, lettrismo o più ancora alla costruzione delle situazioni dell’Internazionale Situazionista. Ciò che cambia il modo di vedere la vita è molto più importante di ciò che cambia la nostra maniera di vedere la pittura, il cinema, la fotografia, le parole, dicevano i situazionisti… lo spostamento senza scopo del flâneur si fonda sul gioco d’incontri dove niente è preso sul serio è tutto diventa una proclamazione di bellezza e un invito a respingere dappertutto l’infelicità.
Non c’è impudicizia nei nudi slabbrati di Tichý… più o meno rubati all’istante… ai bordi di un fiume, al limitare di un bosco o nelle gambe (appena scoperte) che spingono una bicicletta… in massima parte sono le donne che attirano la sua attenzione… le inquadra di spalle, mentre si aggiustano i capelli, camminano in allegrezza per strada… o cerca la complicità frontale di ragazzine che lasciano la loro freschezza nella fotocamera di latta del fotografo di Kyjov. Il ritratto di una ragazzina incollato su un pezzo di cartone (sbiadito) è un autentico capolavoro… la ragazzina guarda in macchina in maniera decisa, sfrontata, ripresa quasi di taglio… l’immagine è mossa, sfocata, tuttavia contiene una bellezza eversiva di non poco contro… la poetica dell’imperfezione di Tichý qui tocca le forme più alte dell’incompiuto… il fotografo interviene sul viso della ragazzina, tratteggia con una biro gli occhi, i capelli, il maglioncino nero… la bellezza della sua malinconia è pari al suo destino di disingannato.
La leggenda dice che Tichý vagabondava per le strade di Kyjov in cerca dei cento scatti da fare ogni giorno, e ne fa migliaia, specie tra il 1960 e il 1985… le fotografie sono spesso mosse, sfocate, male esposte, sviluppate in cattività (una vascaccia da bagno, una bacinella ammaccata, un vaso da notte), macchiate, graffiate… si vedono anche le impronte delle sue dita… tuttavia queste imperfezioni fuoriescono da una visione poetica della realtà che le rende estremamente singolari se non uniche. A vedere con cura certe immagini di giovani donne in costume che prendono il sole sull’erba, riprese di spalle più che anonime o il nudo di donna con le giarrettiere… immerso nel buio e aperto alla storia del peccato rivendicato alla maniera di Bellocq… si resta stupiti di tanta nobilità architetturale e presa d’eternità del momento vissuto. È la bellezza dell’imperfezione che crea la poesia e come sappiamo dagli antichi greci, la bellezza contiene anche la giustizia.
C’è un’immagine che rimanda direttamente al nudo di Hedy Lamarr (Hedwig Eva Maria Kiesler) nel film Estasi (1933) di Gustav Machatý (girato a Vienna e a Praga)… è la prima scena di nudo integrale nel cinema… ma a Tichý basta una donna in costume bagnata dall’acqua del fiume per ricordare non solo la bellezza ignuda di Hedy Lamarr ma più ancora un’etica atea, una morale senza Dio né Stato che decidono cos’è il bene e cosa il male. Ad ogni atto generato dal desiderio, succede l’incantamento di una rivelazione improvvisa e ciò che conta è l’estasi del visionario, non i suoi ragionamenti.
Le belle fotografie, come si dice, possono avere come cornice solo il vero che nasce dall’aristocrazia del dolore che contrasta i deliri collettivi e come scaturigine solo la libertà come atto di trasformazione del reale tradito… la fotografia dell’incompiuto è una critica della separazione, della negazione dei ruoli, di ogni tipo di specializzazione come detrito o forma compiuta dell’alienazione totale del capitalismo parassitario. Contro il benessere quantitativo dello spettacolo diffuso (l’avanzare delle tecnologie in mano ai saprofiti della comunicazione) e dello spettacolo concentrato (la dittatura del mercato attraverso le manipolazioni dei partiti e dei governi)… ricordiamolo, se ce ne fosse ancora bisogno: “Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo è l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza… lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini… Lo spettacolo è il capitale giunto a un tal grado di accumulazione da divenire immagine” (Guy Debord). Lo spettacolo non canta solo gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro pedagogie consumeriste. Là dove impera lo spettacolo, non c’è spazio che nella soggezione generalizzata.
La poetica dell’imperfezione di Tichý esprime una gioia libertaria o una filosofia della felicità nella passione di vivere e nell’incuranza della ragione imposta… il suo stile di vita è anche quello del suo fare-fotografia… una consunzione di corpi e di sogni a nutrimento di un’anima che ama e non chiede di essere riamata… un encomio a vivere che è l’autobiografia dei fatti, voluttà della carne, geografia dei sentimenti struccati… la sua opera è intrisa nel libertinaggio dei giusti sprovvisti d’ingiustizia e non coincide con un ideale di santità presentato come perfetto… non c’è nessuna colpa nel suo immaginale, semmai la grazia che la cancella.
Il sentimento d’innocenza edidetica del suo portolano figurativo non è incline a buone intenzioni… l’arte del voyeur da calendari viene amputata come delitto e più ancora il dispendio della fattografia pulsionale (i richiami alla fotografia più compiuta di Lewis Carroll sono dovuti) implica la decadenza della dossologia fotografica e tramite il diritto d’inventario del suo rizomario estetico/etico mostra una metafisica dei corpi in amore e un’innocenza dello stupore che ridicolizzano ogni forma di potere.
La fotografia desiderante di Tichý disperde spore d’anarchia nel libera epifania delle passioni e al meglio di un pensiero dionisiaco che non piega la schiena sotto il peso delle costrizioni sociali, rivendica il diritto all’intelligenza che rigetta la nostalgia del passato e l’angoscia del divenire. “La bellezza che non è promessa di felicità, dev’essere distrutta” (Internazionale Situazionista). Il ricatto dell’utilitarismo modella il tempo, lo spazio e la realtà che impedisce di sognare un mondo più giusto e più umano, e va sconfitto. Le situazioni per rovesciare l’esistente non si trovano nei libri, nei discorsi politici, nei mercati globali, nei sermoni delle religioni monoteiste ma girando in tondo di notte consumati dal fuoco della sovversione non sospetta… in derive prolungate di grandi giornate in cui niente somigliava al giorno prima e attraverso il rovesciamento di prospettiva di un mondo rovesciato fare della lezione, epicurea, nietzschiana, libertaria una critica profonda della secolarizzazione delle lacrime, costruire una festa di avvenimenti radicali contro la quotidianità dell’impossibile e fare della propria vita un’opera d’arte.
Ed ecco il secondo contributo. Giuseppe Bocci, 2020.
Tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’80 un uomo trasandato, sporco e malvestito vaga per le vie di Kyjov, in Cecoslovacchia, brandendo strani arnesi che somigliano a macchine fotografiche, con le quali scatta migliaia di ritratti furtivi alle donne della sua città. Quell’uomo è Miroslav Tichý.
Nato nel 1926 a Nětčice, un sobborgo di Kyjov nella Moravia meridionale dove il padre gestisce un’affermata sartoria, Miroslav Tichý trascorre la giovinezza in un ambiente sereno, rivelandosi uno studente brillante con un carattere sensibile e ironico. Negli anni ’40 inizia a frequentare con successo l’Accademia di belle arti di Praga, avviandosi a una promettente carriera artistica.
L’avvento della dittatura comunista nel febbraio del 1948 stravolge bruscamente le consuetudini sociali e destabilizza anche la vita Tichy: “La nazione era stretta nella paranoia dello spionaggio” -racconta Roman Buxbaum, collezionista e biografo di Tichy-. “con le sue purghe il sistema chiudeva i conti non solo con i democratici ma con chiunque avesse idee alternative. I professori più stimati e i loro assistenti furono espulsi dall’Accademia e gli studenti furono costretti a ritrarre lavoratori in tuta invece delle modelle”.
Il realismo socialista è la regola e Tichý reagisce male: abbandona l’Accademia, si isola e trascorre il suo tempo vagando per il parco di Stromovka a Praga, fino alla chiamata nell’esercito. Terminato il servizio militare obbligatorio Tichý fa ritorno a Kyjov, dove vive con i genitori che nel frattempo hanno dovuto ridimensionare e poi chiudere l’attività imprenditoriale. Affitta un piccolo studio assieme a pochi colleghi, anch’essi fuoriusciti dagli ambienti istituzionali, e continua a dipingere per conto suo.
Ben presto il regime comunista identifica Tichý come un sovversivo, lo mette sotto controllo e tenta a più riprese di “normalizzarlo” tramite ricoveri coatti nelle cliniche psichiatriche di Stato. In particolare, tra il 1957 e il 1959, Tichý viene ripetutamente internato nella clinica psichiatrica di Opava, di cui racconta l’orrore nelle lettere spedite ai genitori.
Con l’invasione sovietica del 1968 Tichý va incontro a un nuovo trauma: la proprietà privata viene abolita e il suo studio viene confiscato. Di fronte alla sua resistenza, il 27 marzo 1972 le autorità sgombrano a forza i locali, gettando per strada i suoi lavori e i suoi averi.
E’ in quel periodo che Tichý smette di dipingere e si avvicina alla fotografia. “Avevo già dipinto tutti i quadri” –racconta- “e terminato tutti i disegni, cos’altro potevo fare? Cercavo un nuovo strumento e con l’aiuto della fotografia ho visto le cose in un’altra prospettiva, c’era un mondo nuovo”.
Costruisce da solo le sue macchine fotografiche con materiali di recupero e trascorre il suo tempo vagando per le strade della città, dove cerca i suoi soggetti. Realizza circa 90 negativi al giorno e poi torna nello squallore della sua stanza sudicia per svilupparli e stamparli, utilizzando, anche per questi processi, strumenti fatti in casa.
In quegli anni Tichý inizia a trascurare il suo aspetto e a vestirsi di stracci, vive in una stanza di cui non ha la minima cura mentre la sua vita scivola sempre più verso l’emarginazione. E’ tollerato dalla popolazione locale che lo considera un innocuo vagabondo ma di tanto in tanto subisce la brutalità della polizia e dei ricoveri psichiatrici (soprattutto in occasione delle festività, durante le quali il regime non sopporta la sua presenza in pubblico).
Tichý assembla le sue macchine riciclando materiali di recupero e la sua abilità è sorprendente: il corpo macchina può essere in compensato, sigillato dalla luce con l’asfalto stradale, oppure di cartone. L’otturatore è mosso da un sistema costituito da un rocchetto di filo da cucito e da elastici. Per le riprese a distanza Tichý usa un teleobiettivo ottenuto da tubi di carta igienica, le cui lenti sono ritagli di plexiglas sabbiato con carta vetrata e lucidato con una miscela di pasta dentifricia e cenere. L’ingranditore per le stampe è una combinazione di lamine di metallo, assi del recinto di casa, una lampadina e lattine. Per risparmiare acquista pellicole da 60 mm. che poi taglia in due nella camera oscura costruita in una baracca posta nel cortile di casa.
“L’errore crea la poesia” -spiega Tichý-. “Prima di tutto serve una pessima macchina fotografica. Quando scatto una foto non penso a niente, e non prendo sul serio nessuna idea o nessuna emozione. Nell’immagine il movimento è la cosa più importante assieme alla composizione. Il contrasto crea la fotografia: luce e ombra, questa è la composizione”.
Tichý è un fotografo di strada e riprende scene di vita quotidiana nella sua città. La sua attenzione però è rivolta in modo ossessivo verso i soggetti femminili, che sono inquadrati sotto ogni possibile angolazione.
“Si tratta sempre di attente osservazioni delle donne di Kyjov e delle loro banali attività quotidiane” -osserva Radek Horacek della Brno House of Art. “Ben presto però ci si rende conto della straordinarietà di queste banali occupazioni. Tichý è riuscito a trasmettere a questa banalità una sensazione di straordinario e raro (…): le calze di una donna tra un ginocchio e la gonna, o un costume da bagno, nelle sue fotografie acquistano in qualche modo un senso di mistero”.
Tichý si mantiene distante dai suoi soggetti, fotografando in fretta e furtivamente. Utilizza spesso il teleobiettivo ed è agevolato dal fatto che le persone non credono che le sue bizzarre macchine fotografiche funzionino veramente. A causa della sua apparenza non gli è consentito accedere alla piscina pubblica e quindi Tichý si adatta a scattare fotografie attraverso la recinzione.
C’è senz’altro una componente voyeristica nell’approccio di Tichý, che nasconde l’attrazione istintiva per ciò che un uomo allo sbando non può avere. “Dopotutto io non esisto”, dichiara. “Il mondo di Tichý è una dimensione di insanabile distacco” – commenta John Yau, a margine di un’esposizione tenuta a New York-. “(…) l’osservare per lui è fonte di meraviglia e di dolore”.
Parlando del proprio stile fotografico Tichý stesso tradisce, involontariamente, la sua condizione di profondo disagio esistenziale. “Una donna per me è una forma. Non mi interessa nient’altro. Anche quando vedo una donna che mi piace e con cui potrei entrare in contatto, mi rendo conto che in realtà non mi interessa. Invece prendo una matita e la disegno. L’erotismo è solo un’illusione. Il mondo stesso è un’illusione, la nostra illusione”.
E’ la sensibilità artistica di Tichý, assieme alla sua onestà intellettuale, a sublimare un’attività fotografica che rischierebbe, altrimenti, di scadere nella grossolanità. “Non sorprende che la fotografia voyerista di Tichý abbia una forte carica erotica” -spiega lo scrittore Giancarlo Sanguinetti- “ma sarebbe sbagliato definirle immagini pornografiche, (…) la pornografia non genera mai sorpresa e non lascia nulla all’immaginazione. Per contro, le fotografie di Tichý sono confuse e offuscate, a tal punto che l’autore a volte sente la necessità di rifinire a matita i contorni delle donne e delle ragazze che desidera ma che non può avere. Le sue immagini non sono esempi di pornografia ma di arte erotica, ed è per questo che ci sorprendono: stimolano l’immaginazione non la razionalità”.
Dunque è la sovrapposizione tra la sua attività fotografica e il vissuto quotidiano che dona ai suoi lavori una connotazione di rara onestà. I suoi fotogrammi imperfetti, le immagini delicatamente erotiche scattate solo per il piacere personale, appaiono poetiche ed evocative. Si tratta però di una poesia dell’evasione, una fuga perenne dal conformismo e dalla burocrazia asfissiante imposti dalla dittatura comunista, del cui onere Tichý sembra avere chiara consapevolezza. “Sono come un samurai”, -dichiara-, “e il mio solo scopo è distruggere i miei nemici”.
“In questo la sua opera è anche la sua autobiografia” -afferma ancora Sanguinetti- “perché non smette di parlarci di lui. Come spesso accade ai disperati, (Tichý) è riuscito a mettere in pratica la sua arte. Il piacere delle sue creazioni e il piacere personale sono la stessa cosa: ce ne accorgiamo subito. Si potrà imitare lo stile delle sue fotografie ma sarà solo un esercizio sterile poiché non si potrà imitare la vita stessa di cui questa arte è intrisa e alla quale è così intimamente legata”.
Tutte le fotografie di Tichý sono in bianco e nero e tecnicamente sono piene di imperfezioni, anche a causa delle limitazioni imposte dal suo equipaggiamento: foto sovraesposte, sottoesposte, immagini graffiate, sfocate, sporche, strappate e mal sviluppate, a volte incollate su pezzi di cartone, con i bordi decorati a mano dall’autore. Ogni negativo è stampato una sola volta e le fotografie rimangono esposte alla polvere della sua casa e dimenticate tra il sudiciume domestico.
Ma l’imperfezione non è sempre un infortunio: Barry Schwabsky su Artforum International scrive che Tichý “ha praticamente reinventato la fotografia da zero, riabilitando il soft focus e la fotografia pittorialista della fine ‘800, non come una distorsione del mezzo ma come sua essenza”.
Nel 1981 Roman Buxbaum, un amico di infanzia di Tichý, fa ritorno dall’esilio in Svizzera dove si era rifugiato durante la dittatura comunista e scopre l’attività fotografica di Tichý. Buxbaum inizia a collezionare le sue fotografie e contatta galleristi e critici d’arte.
Nel 2004 Harald Szeemann accetta di esporre la collezione Buxbaum alla biennale di arte contemporanea di Siviglia e per Tichý si aprono le porte della notorietà: il suo lavoro vince il New Discovery Award ai Rencontres d’Arles del 2005 e viene organizzata una retrospettiva alla Kunsthaus di Zurigo. Buxbaum crea una fondazione (Tichý Oceán Foundation) per divulgare la sua opera. Nel 2008 il Centro Pompidou di Parigi ospita una mostra antologica cui fa seguito nel 2010 l’International Centre of Photography di New York.
Anche questo nuovo capitolo della sua esistenza non è privo di contrasti: nel 2009 Tichý rompe ogni legame con Buxbaum e la sua fondazione, dichiarando pubblicamente che questi sfrutta il suo lavoro senza alcuna autorizzazione, e avvia una serie di cause legali contro il suo ex-amico.
Pavel Vancat, autore nel 2006 di una monografia sul fotografo cecoslovacco, chiosa: “Penso che queste fotografie abbiano un’atmosfera particolare del tempo in cui sono state fatte. Hanno la magia del lavoro che rispecchia il comportamento di un uomo. Come una pietra tombale su una vita davvero speciale”.
Ed ecco il testo in pdf di Gianfranco Sanguinetti, 2011 o 2016.
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Se fosse una passione, sarebbe il people watching.
Se fosse l’arte, sarebbe un’idea.
Se fosse un’ossessione, sarebbe una donna.
Se fosse un oggetto, sarebbe qualsiasi oggetto.
Se fosse un posto, sarebbe il cassetto di un comodino.
Se fosse un limite, sarebbe il tempo.
Se fosse lui, sarebbe un bel nome.
Miroslav Tichý