Luj 2013. De tu querida presencia.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma per noi,
che fummo anarchici e libertari nella nostra adolescenza,
e lo rimaniamo,
il "Che" è un mito che non rinneghiamo.
Perché fosse di sinistra o di destra,
o tutte e due le cose, o nessuna,
il "Che" rimane un esempio,
pressoché unico nel mondo moderno,
dominato dal cinismo, dal realismo, dalla forza del denaro,
di un uomo che non solo ha combattuto il potere
ma lo ha disprezzato al punto tale da abbandonarlo per inseguire,
pagando con la vita, nient'altro che un sogno.
"Hasta la vista" comandante Che Guevara.


Massimo Fini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Intro.


Era atto dovuto dedicare uno dei "mestée al mes" a Ernesto. Poteva sembrare scontato che un sessantenne con un passato "sinistro"(e un presente anarcoide) lo facesse, ma, credimi, non giudicare la dedica figlia di trita retorica ideologica o reminiscenza tardo-giovanilistica. Né una, né l'altra, perché nella prima fase della mia esperienza politica il Che non fu mai mitizzato, anzi, al contrario per motivi che molto succintamente elencherò, trovai solo una marginale sintonia col suo pensiero-agire politico.
Nei primi anni di adesione alla sinistra radicale il tema che più mi appassionava era la rivoluzione culturale cinese e la lotta al revisionismo sovietico: come proseguire la lotta di classe, combattendo la degenerazione burocratica delle classi dirigenti nei paesi cosiddetti socialisti, evitando la instaurazione al potere di una "nuova borghesia"; quindi i "padri" del marxismo-leninismo rivisitati da Mao orientavano le mie predilezioni e condivisioni politiche.
L'azione guevarista, conclusasi con l'omicidio del Che nell'ottobre 1967, da alcuni era considerata avventurista, causa di un soggettivismo politico che impediva la corretta interpretazione della realtà ove operare, oltremodo idealista, frutto di errate impostazioni ideologiche rispetto ai classici, per cui non inquadrabile nella ortodossia comunista.
Troppo lungo, articolato e forse anacronistico riferire tali critiche, per cui ne tralascio l'esposizione.
Per alcuni anni condivisi, in parte o in toto, queste opinioni, sino a quando, approfondendo non tanto la teoria guevarista, ma l'essere del Che nel quotidiano e nella azione politica, la assoluta etica rivoluzionaria, la dialettica continua che lo portò a vincere fuggendo poi dal potere per affermare i propri ideali, la coerenza fino al sacrificio estremo, rividi radicalmente la mia posizione nei suoi confronti.
Quindi dedica non per infatuazione giovanilistica recuperata, ma per matura e ponderata valutazione.
A quasi 50 anni dalla morte, cosa è rimasto del Che? Salvo che a Cuba, nell'America centro-meridionale, dove il suo pensiero e la sua azione sono patrimonio consolidato della lotta politica, strumento indispensabile dell'emancipazione dei popoli, così come lo è nel cuore e nella mente di alcuni vetero comunisti (sempre forse un poco eterodossi), è rimasta l'icona sterile, un merchandising selvaggio, una appropriazione indebita della sua immagine, dagli indumenti di ogni foggia -ultimi sugli slip dei bikini d'alta moda-, ai manifesti della Lega Nord(?), della "destra sociale"(?), dei pacifisti(?), dagli striscioni sulle curve degli stadi, ai gadget più incredibili... . Un fenomeno di massa planetario e una mitizzazione generalmente dissociata, unici se riferiti alla specificità del soggetto, che hanno prodotto analisi psico-sociologiche di ogni genere.
Tornando al "mestée del mes", ho escluso nei testi la proposizione del pensiero e delle azioni di guerriglia o meramente politiche di Guevara, inserendo invece un racconto della figlia Hilda, la storia della fotografia, probabilmente, più famosa e riprodotta al mondo, una meditazione di Saramago, una lettera alla madre, una sua poesia, alcune citazioni e, come prologo, una improvvisazione jazz di Jan Garbarek sulle note di "Hasta siempre" di Carlos Puebla. Con la scelta delle fotografie, circa un centinaio, ho cercato di comporre quello che, nei ricordi di ognuno di noi, era il vecchio album di fotografie.
Concludo consigliando per una conoscenza più approfondita di Ernesto Che Guevara il libro di Paco Ignacio Taibo II "Senza perdere la tenerezza"(nella edizione del 2012), o anche, se lo trovi, "La storia sta per cominciare", a cura di Victor Casaus(2005).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 


 

Alcuni momenti della mia vita con lui...


Quando sono stata invitata a scrivere questa piccola testimonianza, mi sono trovata di fronte a diverse difficoltà: una è che andando indietro nel tempo e cercando di rivivere i momenti trascorsi insieme con mio padre, i ricordi mi tornavano in mente in modo disordinato, senza alcuna coerenza cronologica; il che rende più difficile il compito di scrivere, per di più in poco spazio, su una figura così complessa, senza cadere nel mito, nella superficialità o semplicemente in errori cronologici. L'altra difficoltà, la più importante, è che nelle mie parole si possa riscontrare il meccanico discorso, dell'"omaggio annuale all'eroe", dal contenuto che si traduce in frasi vuote, a forza di essere ripetute, e che, a poco a poco, trasformano l'uomo in un mito.
Molte persone che hanno conosciuto o no mio padre hanno scritto e detto molto su di lui, e io probabilmente mi riferirò alle stesse cose; ma se queste possono sembrare, per alcuni, solo frasi vuote, per noi che lo abbiamo conosciuto di persona, hanno un contenuto e un significato molto grandi e rappresentano l'immagine che noi conserviamo di un essere vivo, palpabile e per di più amato.
Devo chiarire che non pretendo dire cose nuove, né fare un'analisi approfondita della personalità del "Che"; racconterò semplicemente alcuni dei momenti della mia vita con lui, che più mi hanno impressionato, mia hanno influenzato e aiutato nella mia formazione. Sono piccole cose, magari di quelle che accadono tutti i giorni, ma credo che un rivoluzionario non debba essere giudicato solo per le sue "grandi azioni". Certo i fatterelli isolati non dicono molto, ma quelli che dirò qui non sono momenti unici nella vita del "Che". Tutti quelli che lo hanno conosciuto sanno che lui si comportava sempre così, cercando costantemente di migliorarsi i stimolando gli altri col proprio esempio.
Per tutti questi motivi, anche se ho vissuto poco tempo con mio padre, i ricordi che ho di lui sono molto chiari e precisi. Ricordo che una volta accompagnai mio padre all'inaugurazione di una fabbrica per il montaggio delle biciclette, destinate al consumo cubano. A quell'epoca, date le condizioni economiche di Cuba, la vendita di biciclette (e di molti altri prodotti) era scarsa. Appena arrivati, ci fecero entrare nel salone dove si trovavano le biciclette finite. Io, che allora avevo sei o sette anni, le guardavo estasiata, e stavo paragonandole alla mia, sulla quale ormai con le ginocchia toccavo il manubrio e che andava a pezzi tanto era vecchia, quando l'amministratore della fabbrica mi chiese se ne volessi una in regalo. Credo che non ebbi nemmeno il tempo di rispondere, perché mio padre stava già dicendo che io avrei avuto la bicicletta quando lui avesse potuto comprarmela, e che né l'amministratore della fabbrica aveva diritto di regalare , come se fosse sua proprietà, un oggetto che era stato prodotto dagli operai e che pertanto apparteneva a loro, né lui come ministro dell'industria aveva diritto di riceverlo in maniera diversa da qualsiasi altro cittadino; così la discussione si chiuse, almeno per il momento.
Non so se poi l'avesse proseguita con quel compagno, ma con me sì, perché era visibilmente contrariato, e mi spiegò che stavamo vivendo una situazione rivoluzionaria, nella quale uno degli obiettivi da raggiungere era precisamente l'abolizione dei privilegi per una minoranza, proprio mentre la maggioranza della popolazione viveva molto modestamente, e che un rivoluzionario doveva essere sempre di esempio e comportarsi secondo i propri principi. E' finita che la bicicletta l'ho avuta solo molto tempo dopo, in quanto lui aveva diversi figli da mantenere e il suo stipendio non era superiore a quello di un operaio specializzato.
Per me questa era una grande qualità di mio padre. Il "che" aveva sempre lottato contro l'idea, abbastanza diffusa, che i dirigenti rivoluzionari fossero meritevoli di certe comodità o favori, inaccessibili alla maggioranza degli operai.Ha sempre cercato di vivere alla pari di tutti gli altri. E questo, in un'epoca di crisi economica come quella che attraversava Cuba, era molto apprezzabile, perché in realtà il grosso della popolazione viveva col minimo indispensabile. Un simile modo d'agire gli aveva guadagnato l'ammirazione e la fiducia del popolo cubano. Sono molti gli esempi che potrei citare, su questo aspetto della personalità del "Che", perché era sempre così, onesto, disinteressato, e un gran lavoratore.
Per esempio, tutti sanno che fu lui a fondare e riorganizzare il lavoro volontario, che si faceva la domenica in campagna, nel lavoro agricolo, o in città, nelle fabbriche, con la partecipazione di operai e studenti: l'obiettivo era di attenuare le conseguenze del blocco economico imposto dal capitalismo internazionale e anche di forgiare nelle masse lo spirito del lavoro collettivo e per la collettività. Il "Che" è sempre stato presente al lavoro volontario, partecipando nelle sedi dove più era necessario. Molte volte lo accompagnavo, cercando di aiutarlo nei compiti meno duri, insieme con altri bambini, e quando gli chiedevano perché mi portasse lì, diceva che era necessario imparare a lavorare sin da piccoli, perché il lavoro è quanto c'è di meglio per formare le persone.
Una volta che andammo in una fabbrica tessile e che lo misero davanti a una macchina, a vigilare la produzione di filo, si arrabbiò moltissimo perché c'erano molti operai più anziani, alcuni proprio vecchietti e stanchi, che portavano sulle spalle enormi casse e lui l'avevano messo nel posto più comodo. naturalmente chiese di essere trasferito perché nell'altro posto che era richiesto e c'erano operai che non avendo le condizioni fisiche adatte potevano e dovevano occuparsi di un lavoro più agevole, come quello che stava facendo lui. Era sempre così: chiedeva di lavorare di più, benché il suo lavoro normale fosse già pesante (lavorava più di 16 ore al giorno e molte volte non dormiva per studiare o leggere). Per lui la cosa più importante era la rivoluzione e le dedicava tutto il suo tempo e tutte le sue forze, dicendo che un rivoluzionario si forma proprio in questo: nello sforzo costante. Questo modo di pensare lo portava a trascurare ogni altra cosa e occupazione, compresi noi, figli suoi, che così lo vedevamo solo pochissime volte, nei minuscoli ritagli di tempo in cui non lavorava: tutto per potersi dedicare interamente al lavoro politico.
Certo, il fatto di vederlo così poco, ci faceva soffrire e l'unica cosa che compensava era che quando stava con noi era veramente un perfetto compagno di giochi, padre affettuoso anche se severo, quando bisognava esserlo. Se ci comportavamo male, non ci picchiava né sgridava: ci spiegava perché non si doveva fare quella tal cosa, col risultato che quel fatto non si ripetesse più. Ricordo che una volta mi sorprese a rubare dei soldi a un'amica. io tremavo perché non l'avevo mai visto tanto arrabbiato; ma lui mi fece sedere accanto a sé e molto dolcemente mi spiegò i motivi per cui non si deve rubare, e tanto meno in una società rivoluzionaria nella quale tutti dovevamo imparare a rispettare il prossimo e il furto doveva sparire definitivamente.
Del resto erano rare le volte che doveva ricorrere a questo metodo, perché in generale ci capiva molto bene e si rendeva conto che molto dipendeva dall'età e non ci considerava capricciosi o viziati come molti padri tendono a pensare dei propri figli, semplicemente si rendeva conto che erano manifestazioni dei nostri bisogni e della crisi che attraversavamo, e quindi si comportava in modo adeguato, cercando di capirci, correggerci e aiutarci, sempre. Sono sicura che ci ha voluto molto bene, anche se non ha saputo o potuto mostrarcelo molto. Credo che questo grande amore per noi fosse un riflesso ingrandito di quello che sentiva per tutta l'umanità. Su questo, pure, si sono dette molte cose. E' stato questo amore, o piuttosto questa solidarietà con gli sfruttati, che lo ha sempre guidato nelle sue azioni. Per me c'è una frase sua, in una lettera diretta a noi figli, che dà un'immagine compiuta di lui: "Soprattutto siate capaci di sentire nel più profondo di voi qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo. E' la qualità più bella di un rivoluzionario". (Hilda Guevara Gadea, 1977)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 
 

 Dalla prefazione di "Senza perdere la tenerezza".


Fin dalla sua prima giovinezza, il Che fu un avventuriero, un vagabondo e un romantico. Assetato di terre straniere, paracadutista in territori sconosciuti, mise in pratica un'etica delle emozioni che comandavano sui confini oscuri della ragione. Queste tre grandi virtù, variamente modulate, moderate dall'esperienza e dalle sconfitte, lo accompagnarono per tutta la vita. La sinistra "Neanderthal" degli anno sessanta in cui sono cresciuto metteva quelle parole nel catalogo delle perversioni; erano nomi di malefatte e malattie, "deviazioni piccolo borghesi": Deviazioni da cosa? Dal cammino verso dove? Esisteva forse un unico cammino? Recuperare il Che oggi significa recuperare parole come queste, riscoprirle nel loro significato originario. Romantico? Colui che accarezza con amore le idee, indipendentemente dalla loro possibilità. Vagabondo? Colui che concepisce il mondo come scenario di viaggio permanente, dove non bisogna sedersi o fermarsi. Avventuriero? Colui che intende la vita come un'avventura le cui conseguenze sono imprevedibili.
E insieme a queste, parole come utopista (colui che coltiva l'amore per l'utopia), informale (colui che non bada e è contro le apparenze), irriverente (colui che non si china davanti a nessun tipo di potere), egualitario (colui che pratica l'uguaglianza nella ricchezza e nella miseria), imprudente (colui che non misura le conseguenze delle proprie parole e delle proprie azioni, che ha perso il senso conservatore della prudenza). Parole che associo fortemente all'immagine del Che, che cresce via via che scrivo di lui.
Appartengo a una generazione in cui il razionalismo cercava di avere la meglio sul romanticismo, ricoprendolo con una lieve pennellata di assennatezza, ma, per quanto si impegnasse, l'elemento romantico emergeva sempre dal sottile strato di vernice e non riusciva mai a sostituirsi ad esso; una generazione in cui il marxismo radical-chic ripeteva come una cantilena il verbo "smitizzare". Sono pienamente consapevole del fatto che smitizzare del Che, riportare il mito all'uomo per via letteraria (non romanzesca: questo libro non ha niente a che vedere con la finzione), l'unica che conosco, raccontare minuziosamente le sue vicende, significa contribuire a una mitizzazione, ma la cosa non mi preoccupa. Credo che i cittadini abbiano diritto ai miti. (Paco Ignacio Taibo II)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 
 

 

 

 

 

El "Che".


Questo curioso soprannome, divenuto celebre, ha origine dalla lingua del guarani, un gruppo indigeno etnico-linguistico del Paraguay e dell'Argentina settentrionale. Dal primitivo significato di "io", "me" si è trasformato nel tempo e nei paesi dove è entrato nell'uso comune in una sorta di appellativo confidenziale per rivolgersi a qualcuno, attirare l'attenzione, di chi non si conosce il nome. Corrisponde all'interiezione italiana "hei (Hei, voi, ascoltate; hei di casa! Hei, cosa stai facendo? Hei, stia attento dove mette i piedi! E cosi via), o, secondo alcuni, all'intercalare "ciò" dialettale veneto. Ernesto Guevara era solito utilizzare questa interiezione frequentemente, più del necessario, per rivolgersi ai suoi amici e compagni guerriglieri i quali non tardarono ad affibbiargliela come soprannome.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 
 


 

Che ne so.
Davvero, non lo so.
So solo che provo una necessità fisica
di veder apparire mia madre
e di piegare la testa nel suo grembo magro,
e sentirle dire "mi viejo",
con una tenerezza decisa e piena,
e sentire la sua mano goffa tra i capelli.
 


Ernesto Che Guevara
dal racconto "La pietra", Congo 1965

 

 

 

 

 

 

 

 


 
 
 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La foto.


"Guerrillero heroico" è il nome di una celebre fotografia che ritrae Ernesto Che Guevara scattata il 5 marzo 1960 a L'Avana dal fotografo cubano Alberto Díaz Gutiérrez, meglio noto come Alberto Korda. Il 4 marzo 1960 due grosse deflagrazioni nel porto di L'Avana avevano provocato l'esplosione della nave mercantile francese La Coubre. Il carico della nave era composto da un arsenale di munizioni provenienti dal Belgio: l'arrivo di tale carico aveva ricevuto una forte opposizione da parte degli Stati Uniti, e per tale ragione Fidel Castro accusò la CIA della responsabilità dell'attentato.
I morti nell'esplosione furono circa 100 e i feriti circa 200. Il giorno successivo Fidel Castro decise di organizzare una cerimonia di commemorazione delle vittime, alla quale prese parte Che Guevara, all'epoca ministro dell'industria del governo cubano. Korda era presente in qualità di fotografo personale di Fidel Castro. Korda usò una Leica M2 con lenti di 90 mm. e con pellicola Kodak Plus-X, che ospitava già fotogrammi di Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Fidel Castro, tutti presenti alla cerimonia.
Korda riuscì a scattare due fotografie al comandante Guevara, la prima in orizzontale e la seconda in verticale. Disse il fotografo: "L'ho guardato attraverso la Leica e ho scattato due foto: una orizzontale, mentre stava chiudendo la zip del giubbotto; una verticale, più bella." Nel primo scatto, orizzontale, Che Guevara venne ritratto nel mezzo tra alcune foglie di palma ed il giornalista argentino Jorge Ricardo Masetti Blanco (di origini bolognesi, noto anche come Comandante Segundo: fu fondatore e primo direttore di Prensa Latina a Cuba, poi desaparecido in Argentina nel 1964).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 
Successivamente, nel corso del processo di stampa della foto, lo stesso Korda decise di isolare la figura del "Che" tramite una operazione di cropping, e di pubblicare solamente il primo piano del rivoluzionario argentino. La fotografia fu subito pubblicata su qualche giornale cubano, ma poi rimase praticamente semisconosciuta per i successivi sette anni.
Nel giugno 1967 l'editore milanese Giangiacomo Feltrinelli si recò a L'Avana, di ritorno dalla Bolivia: fu proprio a Cuba che incontrò Alberto Korda, con il quale si fermò nel suo studio a parlare del "Che". Il fotografo gli regalò due copie della sua foto, senza volere alcun compenso. Tornato in Italia, Feltrinelli scelse proprio il ritratto del "Che" realizzato da Korda come copertina del Diario in Bolivia di Ernesto Guevara. Decise anche di stampare numerosi poster con la stessa immagine, tappezzando Milano dopo l'uccisione di Guevara.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 
 

Breve meditazione su una foto di Che Guevara.


Non importa quale ritratto. Uno qualsiasi, serio, sorridente, con l'arma in mano, con Fidel o senza Fidel, pronunciando un discorso alle Nazioni Unite, o morto, con il torso nudo e gli occhi semiaperti, come se dall'altro lato della vita volesse ancora accompagnare il futuro del mondo che ha dovuto lasciare, come se non si rassegnasse a ignorare per sempre i percorsi delle infinite creature che dovevano ancora nascere. Su ognuna di queste immagini si potrebbe riflettere lungamente, in modo lirico o in modo drammatico, con l'oggettività prosaica dello storico o semplicemente come chi si accinge a parlare dell'amico che uno scopre che ha perso perché non ha avuto l'occasione di conoscerlo...
Al Portogallo infelice e imbavagliato di Salazar e di Marcelo Caetano arrivò un giorno una foto clandestina di Ernesto Che Guevara, quella più celebre di tutte, con intensi colori neri e rossi, che divenne l'immagine universale dei sogni rivoluzionari del mondo, promessa di vittorie fertile al punto da non degenerare mai in routine o in scetticismi, ma che anzi darebbe luogo a molti altri trionfi, quello del bene sul male, quello del giusto sull'iniquo e quello della libertà sulla necessità. Incollato o fissato alle pareti con mezzi precari, questo ritratto è stato presente a dibattiti politici appassionati in terra portoghese, ha sottolineato argomenti, ha lenito scoraggiamenti, ha raccolto speranze. È stato visto come quello di un Cristo che fosse sceso dalla croce per crocifiggere l'umanità, come un essere dotato di poteri assoluti che fu in grado di estrarre acqua da una pietra per estinguere tutta la sete, e di trasformare questa stessa acqua nel vino con cui si avrebbe brindato allo splendore della vita. E tutto questo era sicuro perché il ritratto di Che Guevara fu, agli occhi di milioni di persone, il ritratto della dignità suprema dell'essere umano.
Però fu usato anche come ornamento incongruente in molte case della piccola e della media borghesia intellettuale portoghese, per i quali residenti le ideologie politiche di affermazione socialista non passavano da un mero capriccio congiunturale, forma presumibilmente rischiosa di occupare l'ozio mentale, frivolezza mondana che non poteva resistere al primo confronto con la realtà, quando i fatti esigevano il compimento delle parole. E allora il ritratto di Che Guevara, il primo testimone di tanti infiammati annunci di impegno e di azione futura, il giudice della paura nascosta, della rinuncia vigliacca e del tradimento aperto, è stato rimosso dalle pareti, occultato, nella migliore delle ipotesi, in fondo ad un armadio, oppure radicalmente distrutto, come se uno avesse voluto fare in passato qualcosa di cui ora dovesse vergognarsi.
Una delle lezioni politiche più istruttive, nei tempi attuali, sarebbe sapere cosa pensano di loro stessi queste migliaia e migliaia di uomini e donne che in tutto il mondo hanno avuto un giorno il ritratto di Che Guevara al capezzale del letto, o di fronte al tavolo da lavoro, o nel salotto dove ricevevano gli amici, e che ora sorridono per aver creduto o aver fatto finta di credere. Qualcuno dirà che la vita è cambiata, che Che Guevara, nel perdere la sua guerra, ci ha fatto perdere la nostra, e quindi era inutile mettersi a piangere come un bambino la cui tazza di latte è stata versata. Altri avrebbero confessato che si lasciarono coinvolgere dalla moda del tempo, la stessa che ha fatto crescere la barba e i riccioli, come se la rivoluzione fosse una questione per i parrucchieri. I più onesti avrebbero riconosciuto che il cuore fa loro male, che sentono un eterno e incessante movimento di rimpianto, come se la loro vita fosse stata sospesa e ora si domandassero ossessivamente dove pensano di andare senza ideali né speranze, senza un'idea del futuro che dia un qualche senso al presente.
Che Guevara, se si può dire, esisteva già prima di essere nato. Che Guevara, se si può fare quest'affermazione, continua ad esistere dopo essere stato assassinato. Perché Che Guevara è solo un altro nome di quello che c'è di più giusto e di più degno nello spirito umano. Quello che spesso vive addormentato dentro di noi. Quello che dobbiamo svegliare per conoscere e conoscerci, per aggregare il passo umile di ognuno al percorso di tutti. (Josè Saramago)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lettera alla madre, Messico 15 luglio 1956.


Non sono né un Cristo, né un filantropo, vieja mia, sono tutto il contrario di un Cristo e la filantropia mi sembra una cosa da (parola illeggibile, ndr); per ciò in cui credo, combatto con tutte le armi a mia disposizione e cerco di stendere l'avversario, piuttosto che lasciarmi inchiodare a una croce o in qualsiasi altro posto. Riguardo allo sciopero della fame ti sbagli di grosso: lo abbiamo iniziato due volte, la prima hanno liberato ventuno dei ventiquattro detenuti, la seconda hanno annunciato che avrebbero liberato Fidel Castro, il capo del movimento, e dovrebbero farlo domani; se ciò accade rimarremmo in carcere solo in due. Non voglio che pensi, come insinua Hilda, che noi che rimaniamo siamo i capri espiatori: siamo semplicemente quelli che non hanno i documenti a posto e perciò non possiamo avvalerci dei mezzi che hanno sfruttato i nostri compagni.
I miei progetti sono di andare nel paese più vicino disposta a darmi asilo, cosa difficile data la mia fama interamericana che mi hanno appiccicato, e lì starmene pronto in attesa del momento in cui ci sia bisogno di me. Vi ripeto che è probabile che non riesca a scrivervi per un periodo più o meno lungo.
Ciò che veramente mi sconvolge è la tua mancanza di comprensione per tutto questo e i tuoi consigli sulla moderazione, l'egoismo, ecc., cioè le caratteristiche più esecrabili che un individuo possa avere. Non solo non sono un moderato, ma cercherò di non diventarlo mai e nel momento in cui mi renderò conto che dentro di me la fiamma sacra ha lasciato il posto a una timida candela votiva, il minimo che potrò fare è vomitare sulla mia stessa merda. In quanto al tuo appello a ciò che definisci moderato egoismo, cioè l'individualismo volgare e codardo, le virtù del XX secolo, devo dirti che ho fatto di tutto per eliminarlo, non questo tipo di egoismo cieco, vigliacco, ma l'altro, quello da bohémien, indifferente nei confronti del prossimo e con un certo senso di autosufficienza derivato dalla coscienza, erronea o meno, della mia forza.
(...)
In più è sicuro che, dopo aver raddrizzato i torti a Cuba, me ne andrò da un'altra parte ed è altrettanto certo che, chiuso in un ufficio di burocrati o in una clinica per malattie allergiche, sarei fregato. E tuttavia mi sembra che questo dolore di madre che sta diventando anziana e che desidera suo figlio vivo, sia una cosa degna di rispetto, ciò che mi sento obbligato a curare e soprattutto voglio curare, e vorrei vederti non solo per consolarti, ma anche per consolare me delle mie sporadiche e inconfessabili nostalgie.
Vieja, ti dà un bacio e ti promette la sua presenza se non ci saranno novità, tuo figlio, il Che.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 
 
Vecchia Maria, stai per morire,
voglio dirti qualcosa di serio:
La tua vita è stata un rosario completo di agonie,
non hai avuto amore d'uomo, salute e denaro,
soltanto la fame da dividere coi tuoi;
voglio parlare della tua speranza,
delle tre diverse speranze
costruite da tua figlia senza sapere come.
Prendi questa mano di uomo che sembra di bambino
tra le tue, levigate dal sapone giallo.
Strofina i tuoi calli duri e le pure nocche
contro la morbida vergogna delle mie mani di medico.
Ascolta, nonna proletaria:
credi nell'uomo che sta per arrivare,
credi nel futuro che non vedrai.
Non pregare il dio inclemente
che per tutta una vita ha deluso la tua speranza.
E non chiedere clemenza alla morte
per veder crescere le tue grigie carezze;
i cieli sono sordi e sei dominata dal buio,
su tutto avrai una rossa vendetta,
lo giuro sull'esatta dimensione dei miei ideali
tutti i tuoi nipoti vivranno l'aurora,
muori in pace, vecchia combattente.
Stai per morire, vecchia Maria;
trenta progetti di sudario
ti diranno addio con lo sguardo
il giorno che te ne andrai.
Stai per morire, vecchia Maria,
rimarranno mute le pareti della sala
quando la morte si unirà all'asma
e consumerà il suo amore nella tua gola.
Queste tre carezze fuse nel bronzo
(l'unica luce che rischiara la tua notte)
questi tre nipoti vestiti di fame,
sogneranno le nocche delle tue vecchie dita
in cui sempre trovavano un sorriso.
Questo sarà tutto, vecchia Maria.
La tua vita è stata un rosario di magre agonie,
non hai avuto amore d'uomo, salute, allegria,
soltanto la fame da dividere coi tuoi.
E' stata triste la tua vita, vecchia Maria.
Quando l'annuncio dell'eterno riposo
velerà di dolore le tue pupille,
quando le tue mani di sguattera perpetua
riceveranno l'ultima, ingenua carezza,
penserai a loro... e piangerai,
povera vecchia Maria.
No, non lo fare!
Non pregare il dio indolente che per tutta una vita
ha deluso la tua speranza
e non domandare clemenza alla morte,
la tua vita ha portato l'orribile vestito della fame
e ora, vestita di asma, volge alla fine.
Ma voglio annunciarti,
con la voce bassa e virile delle speranze,
la più rossa e virile delle vendette,
voglio giurarlo sull'esatta
dimensione dei miei ideali.
Prendi questa mano di uomo che sembra di bambino
tra le tue, levigate dal sapone giallo,
strofina i tuoi calli duri e le nocche pure
contro la morbida vergogna delle mie mani di medico.
Riposa in pace, vecchia Maria,
riposa in pace, vecchia combattente,
i tuoi nipoti vivranno nell'aurora,
lo giuro.

 

Ernesto Che Guevara
Dedicata a una vecchia messicana incontrata nell'ospedale generale di Città del Messico, 1954.