November 2013. De senectute.

 

 

 

 

"El mestée del mes" è dedicato alla vecchiaia: a mese autunnale, autunnale periodo esistenziale, poi, essendone inesorabilmente coinvolto dal fuggir del tempo, disquisir m'è d'uopo. Non ho ritenuto esprimere alcuna mia considerazione in merito, ma ho inteso riportare brevissime riflessioni, notazioni, elucubrazioni di trittico di intellettuali composto da: un filosofo & storico, Norberto Bobbio, un filosofo & psicoanalista, Umberto Galimberti, un giornalista & scrittore, Massimo Fini. Chi tra voi ne condivide, purtroppo o per fortuna, la stagione di vita, le faccia oggetto di meditazione. L'introduzione è di un "canzonettaro romano de successo, che nun me piace, ma 'sto testo è l'eccezzione che conferma 'a reggola".
Il latino de "el mestée", titolo tra l'altro di opera di Cicerone, non è per snobismo culturale: "della vecchiaia" induce tristezza, "della terza età" trasuda stucchevole ipocrisia, "de senectute" invece lo trovo elegante, deferente e foneticamente armonioso.

 

 

 

 

 

 

 

I vecchi sulle panchine dei giardini succhiano fili d'aria e un vento di ricordi,

il segno del cappello sulle teste da pulcini,

i vecchi mezzi ciechi, i vecchi mezzi sordi.
I vecchi che si addannano alle bocce, mattine lucide di festa che si può dormire,

gli occhiali per vederci da vicino a misurar le gocce per una malattia difficile da dire.
I vecchi tosse secca che non dormono di notte, seduti in pizzo al letto a riposare la stanchezza,

si mangiano i sospiri e un po' di mele cotte,

i vecchi senza un corpo, i vecchi senza una carezza.
I vecchi un po' contadini, che nel cielo sperano e temono il cielo,

voci bruciate dal fumo e dai grappini di un'osteria,

i vecchi vecchie canaglie sempre pieni di sputi e di consigli.
I vecchi senza più figlie, questi figli che non chiamano mai,

i vecchi che portano il mangiare per i gatti e come i gatti frugan tra i rifiuti,

le ossa piene di rumori e smorfie e versi un po' da matti.
I vecchi che non sono mai cresciuti, i vecchi anima bianca di calce in controluce,

occhi annacquati dalla pioggia della vita,

i vecchi soli come i pali della luce e dover vivere fino alla morte che fatica.
I vecchi cuori di pezza, un vecchio cane e una pena al guinzaglio,

confusi inciampano di tenerezza e brontolando se ne vanno via.
I vecchi invecchiano piano con una piccola busta della spesa

e quelli che tornano in chiesa lascian fuori bestemmie e fanno pace con Dio.
I vecchi povere stelle, i vecchi povere patte sbottonate,

guance da spose arrossate di mal di cuore e di nostalgia,

i vecchi sempre tra i piedi chiusi in cucina se viene qualcuno.
I vecchi che non li vuole nessuno, i vecchi da buttare via.

 

 

 

 

 

 

 

 

Eppure anche oggi c'è una retorica della vecchiaia che non prende la forma, peraltro nobile, della difesa dell'ultima età contro il dileggio, se non addirittura il disprezzo, che vengono dalla prima, ma si presenta, soprattutto attraverso i messaggi televisivi, con una forma larvata e peraltro efficacissima di captatio benevolentiae verso eventuali nuovi consumatori. In questi messaggi non il vecchio, ma l'anziano, termine neutrale, appare ben portante, sorridente, felice di essere al mondo, perché può finalmente godere di un tonico particolarmente corroborante o di una vacanza particolarmente attraente. E così anche lui diventa un corteggiatissimo fruitore della società dei consumi, portatore di nuove domande di merci, benvenuto collaboratore dell'allargamento del mercato.
In una società dove tutto si può comprare e vendere, dove tutto ha un prezzo, anche la vecchiaia può diventare una merce come tutte le altre. Basta guardarsi attorno, allungare il proprio sguardo nelle case di riposo e negli ospedali, o nei piccoli appartamenti della povera gente che ha un vecchio in casa da sorvegliare e continuamente curare, perché non può essere lasciato solo neppure per un momento, per rendersi conto di quanto sia falsa la raffigurazione non disinteressata, ma interessatamente lusingatrice, del "vecchio è bello". Formula banale, adatta alla società del mercato, che ha sostituito l'elogio del vecchio virtuoso e sapiente. (Norberto Bobbio)

 

 

 

 

 

 

 

 

Il vecchio soddisfatto di sé della tradizione retorica e il vecchio disperato sono due atteggiamenti estremi. Li ho messi in particolare rilievo per indurci a riflettere ancora una volta sulla varietà dei nostri umori verso la vita nel pluriverso dei valori contraddittori in cui ci muoviamo, e quindi sulla difficoltà di comprendere il mondo e, dentro questo mondo, noi stessi. Tra questi due estremi vi sono infiniti altri modi di vivere la vecchiaia: l'accettazione passiva, la rassegnazione, l'indifferenza, il camuffamento di chi si ostina a non vedere le proprie rughe e il proprio indebolimento e si impone la maschera dell'eterna giovinezza, la ribellione consapevole attraverso il continuo sforzo, spesso destinato al fallimento, di continuare inflessibilmente il lavoro di sempre, o, al contrario, il distacco dagli affanni quotidiani, e il raccoglimento nella riflessione o nella preghiera, il vivere questa vita come se fosse già l'altra, lacerati tutti i vincoli mondani.
La vecchiaia non è scissa dal resto della vita precedente; è la continuazione della tua adolescenza, giovinezza, maturità. Rispecchia la tua visione della vita e cambia il tuo atteggiamento verso di essa, secondo che hai concepito la vita come una montagna impervia da scalare, o come una fiumana in cui sei immerso e corre lentamente alla foce, o come una selva in cui ti aggiri sempre incerto sulla via da seguire per uscire all'aperto.
C'è il vecchio sereno e quello mesto, il soddisfatto giunto tranquillamente alla fine delle proprie giornate, l'inquieto che ricorda soprattutto le proprie cadute e attende trepidante l'ultima da cui non riuscirà più a sollevarsi; chi assapora la propria vittoria e chi non riesce a cancellare dalla memoria le proprie sconfitte. Il vecchio, ormai fuori di senno, penoso non a sé ma agli altri, vittima di una crudele penitenza di cui lui e noi ignoriamo la causa. (Norberto Bobbio)

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mondo dei vecchi, di tutti i vecchi, è, in modo più o meno intenso, il mondo della memoria. Si dice: alla fine tu sei quello che hai pensato, amato, compiuto. Aggiungerei: tu sei quello che ricordi. Sono una tua ricchezza, oltre gli affetti che hai alimentato, i pensieri che hai pensato, le azioni che hai compiuto, i ricordi che hai conservato e non hai lasciato cancellare, e di cui tu sei rimasto il solo custode.
Che ti sia permesso di vivere sino a che i ricordi non ti abbandonino e tu possa a tua volta abbandonarti a loro. La dimensione in cui vive il vecchio è il passato. Il tempo del futuro è per lui troppo breve perché si dia pensiero di quello che avverrà. La vecchiaia, diceva quel malato, dura poco. Ma proprio perché dura poco impiega il tuo tempo non tanto per fare progetti per un futuro lontano che non ti appartiene più, quanto per cercare di capire, se puoi, il senso o il non senso della tua vita.
Concentrati. Non dissipare il poco tempo che ti rimane. Ripercorri il tuo cammino. Ti saranno di soccorso i ricordi. Ma i ricordi non affiorano se non vai a scovarli negli angoli più remoti della memoria. Il rimembrare è un'attività mentale che spesso non eserciti perché è faticoso o imbarazzante. Ma è un'attività salutare. Nella rimembranza ritrovi te stesso, la tua identità, nonostante i molti anni trascorsi, le mille vicende vissute. Trovi gli anni perduti da tempo, i giochi di quando eri ragazzo, i volti, la voce, i gesti dei tuoi compagni di scuola, i luoghi, soprattutto quelli dell'infanzia, i più lontani nel tempo ma più nitidi nella memoria. Quella strada nei campi che percorrevamo da ragazzi per giungere a una cascina un po' fuori mano, la potrei descrivere passo dopo passo, pietra dopo pietra. (Norberto Bobbio)

 

 

 

 

 

 

 

 

La vecchiaia è dura da vivere, non solo per il decadimento biologico, ma per una serie di destrutturazioni che in età giovanile sarebbero devastanti e al limite della psicosi, mentre nell'età senile non assumono necessariamente questo aspetto perché arginate dall'irrigidimento delle abitudini. La prima destrutturazione è tra l' "Io e il suo corpo": non più veicolo per essere al mondo, ma ostacolo da superare per continuare a essere al mondo. Un mondo che, per il vecchio, perde la sua fisionomia, perché diminuisce, se addirittura non si interrompe, quel dialogo tra corpo e mondo grazie al quale le cose si caricano delle intensioni del corpo e il corpo raccoglie quei sensi che sono genericamente diffusi tra le cose. Ora a far senso non è più il mondo, ma il corpo che la vecchiaia trasforma da soggetto di intensioni a oggetto d'attenzione; lo spazio che interessa si riduce alle dimensioni dell'organismo e il tempo al decorso monotono dei giorni a cui il vecchio non riesce a dar senso.
Il problema è che alla vecchiaia non riescono a dar senso neanche coloro che ci vivono accanto perché nessuno riesce a identificarsi con un vecchio, anzi tutti si difendono spasmodicamente da questa identificazione, e perciò si crea quella seconda destrutturazione tra l'"Io e il mondo circostante" che impoverisce la relazione e rende convenzionale, e perciò falsa, l'affettività. Senza l'identificazione un bambino cade nell'abisso dell'autismo, e molti silenzi dei vecchi sono abissi autistici in cui noi li abbiamo fatti precipitare con il nostro silenzio emotivo. (Umberto Galimberti)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A caratterizzare quest'età non è la tristezza, ma una noia sottile perché, per quante novità succedano, scopri che ognuna di esse che altre non è che una nuova formulazione di qualcosa di già visto. E questa noia disaffeziona dal tempo a venire e ti rende più familiare e quasi amica la fine. Hai imparato che la saggezza, che di solito si attribuisce a chi ha una certa età, altro non è che la somma delle esperienze che hai fatto e che non puoi trasmettere, perché l'esperienza degli altri non serve a nessuno, tanto meno ai giovani che devono fare la propria. A questa età allora capisci che chi ti sta intorno non è li per chiederti consigli o insegnamenti, ma ascolto. Un ascolto curioso e attento, soprattutto verso quel mondo tumultuoso e spesso incomprensibile che sprigiona la giovinezza.
Dal mondo esterno ti ritiri in quello interiore. meno vacanze, meno viaggi, meno spettacoli del mondo, che ti offre sempre meno novità, perché sta diventando in ogni dove sempre più uniforme. E allora prendi a percorrere tutti i sentieri mai frequentati della tua anima, e scopri che il mondo altro non è mai stato che la tua visione, la tua interpretazione del mondo. In fondo dal tuo Io non sei mai uscito. E la vecchiaia è un'ottima occasione per uscire da sé e, attraverso l'ascolto, scoprire i mondi degli altri di cui mai ti eri davvero incuriosito. (Umberto Galimberti)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Direi con una parola che ho la vecchiaia malinconica,
intesa la malinconia come la consapevolezza
del non raggiunto e del non più raggiungibile.
Vi corrisponde l'immagine della vita come una strada,
ove la meta si sposta sempre in avanti,
e quando credi di averla raggiunta,
non era quella che ti eri raffigurata come definitiva.
La vecchiaia diventa allora il momento
in cui hai la piena consapevolezza
che il cammino non solo non è compiuto,
ma non hai più il tempo di compierlo,
e devi rinunciare a raggiungere l'ultima tappa.


Norberto Bobbio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma come dev'essere un vecchio? Naturalmente mite, dolce, sensibile, perché se si commuove troppo "ha l'arteriosclerosi", se è gioviale "non accetta la vecchiaia". Deve prendere parte alla conversazione, ma guai se ripete un aneddoto. Deve avere interessi, ma guai se progetta qualcosa come fosse un ventenne. La vecchiaia quindi, prima che un decadimento, è uno stile di vita imposto dagli altri, che ai vecchi concedono uno spazio espressivo molto ridotto, oltrepassato il quale il vecchio o è giudicato trascurato, disordinato, sciatto, o ambizioso, vanitoso, ridicolo. E tra l'essere considerato scialacquatore o avaro, impotente o maniaco sessuale, senza personalità o testardo, imprudente o vigliacco, non si dà via di mezzo.
Per i vecchi vale la legge del tutto o nulla. Forse perché la prossimità della morte, che ogni vecchio segnala, attiva in ciascuno di noi quell'angoscia originaria, inscritta nel nostro destino di mortali, che non trova forma migliore d'esorcismo se non quella di scaricarsi sui vecchi che impudicamente la rappresentano.
Che ne è a questo punto della depressione senile? La conseguenza del decadimento biologico o una condizione spesso indotta dall'ambiente circostante quando non addirittura autoimposta? (Umberto Galimberti)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le culture primitive compensavano gli inconvenienti biologici della vecchiaia con quei vantaggi culturali concessi dalla selezione della razza umana che, nel corso della sua evoluzione, ha privilegiato i fenomeni di encefalizzazione. In linea con questo processo della specie, il vecchio era depositario del sapere e dell'esperienza e, quando moriva, come dice Max Weber, moriva "sazio" e non "stanco" della vita.
Oggi tecnologia e scienza possono vicariare con maggiore efficacia il ruolo del vecchio come depositario di informazioni. Dalla fotografia ai media, dai computer a internet, oggi disponiamo di archivi di informazioni che spiazzano la saggezza senile che perciò diventa superflua, e i vecchi, che non ne sono più i depositari, diventano inutili come gli organismi invecchiati nelle prime tappe evolutive, al punto che la loro sopravvivenza viene affidata alla misericordia sociale o a quegli impeti di benevolenza non dissimili a quelli che "si riservano alle foche monache o ai rospi smeraldini". Eppure, se nell'età della tecnica il vecchio è inutile per il suo patrimonio cognitivo, continua ad essere significativo per il suo patrimonio etico-affettivo, che si traduce in equilibrio, ponderazione, prudenza, carità, dolcezza, pratiche che difficilmente potrebbero uscire dai terminali di una macchina.
E così, per essere accettati, i vecchi devono esprimere tutte queste virtù da cui sono dispensati i giovani: devono far tacere il desiderio sessuale che non si estingue con l'età, devono rinunciare ai contatti corporei che si addicono ai giovani, devono essere allegri ma con misura, devono partecipare alla vita familiare e sociale senza pretendere di essere ascoltati, devono essere autonomi e indipendenti, due modi per dire "soli". (Umberto Galimberti)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Negli ultimi tempi la vecchiaia è uscita dal segreto intimo, quasi indicibile, delle persone che invecchiano, per diventare materia di pubblica discussione e riflessione. Non perché siamo diventati più teneri con i vecchi, e neppure perché la nostra cultura ha fatto cadere tutti i tabù, ma perché l'aumento della speranza di vita, che tutti augurano e si augurano pur di esorcizzare la morte, minaccia una catastrofe sociale dai devastanti effetti previdenziali, sanitari e assistenziali.
Ma questo interessamento ai problemi della vecchiaia da parte di psicologi, sociologi, medici, e oggi, ultimi benarrivati, gli studiosi di genetica, non deve trarre in inganno. I loro consigli, le loro pianificazioni, le loro ricette, i loro farmaci non hanno come scopo quello di riportare il vecchio, se non al centro, almeno all'interno della dinamica sociale da cui, nelle società avanzate(che sono quelle in cui davvero si invecchia), è stato escluso, ma semplicemente quello di neutralizzarlo con una serie di comfort che lo fanno sentire solo e inutile come prima, ma accudito.
Solo e inutile non per il destino biologico, ma per le condizioni storico-culturali che caratterizzano il nostro tempo, che proprio nella vecchiaia incontra il suo paradosso. Da un lato infatti i progressi della medicina e delle condizioni sociali di vita hanno allungato la vecchiaia e accresciuto il numero dei vecchi, dall'altro il progresso tecnico che caratterizza la nostra cultura ha fatto del vecchio un incompetente, non più all'altezza dei tempi e quindi inutile. (Umberto Galimberti)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ognuno di noi ha, in partenza, un organo più debole degli altri, che è il primo a cedere. Per me era la vista. E così è stato. Ma anche altri organi che erano la tua forza e magari il tuo vanto si indeboliscono. Cibi che divoravi senza problemi diventano improvvisamente indigesti. Il tuo fegato, che aveva sempre filtrato alcol in dosi industriali, dà segni di sofferenza dopo una mezza bottiglia di vino. Ti metti a fare in casa, spostando piccoli pesi, lavoretti di ordinaria amministrazione che avevi sempre fatto in souplesse, ricavandovi anzi un certo piacere perché ti distendevano i nervi e ti distoglievano dal pensare, e doèpo un po' ti accorgi, con stupore, che sei stanco morto. L'antica elasticità delle giunture è perduta. Se stai accovacciato un po' a lungo fai fatica a rialzarti. Se stai disteso per terra, sul duro, per rimetterti in piedi devi ricorrere a tre o quattro contorsioni laddove un tempo ti bastava un agile balzo.
Un mattino ti accorgi che hai dei piccoli borzi sul mento che rendono difficile la rasatura. Chiedi spiegazioni al tuo barbiere: "E' il suo dopobarba"; "ma se lo uso da trent'anni". Si, lo usi da trent'anni ma adesso la tua pelle non lo tollera più. Tutto si complica. Tutto cala. Tutto diminuisce. Curiosamente una sola cosa cresce: degli orribili peli nel naso e nelle orecchie.
L'aspetto più drammatico della vecchiaia non è tuttavia la decadenza fisica, ma l'impossibilità di un progetto di vita. Esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il tempo. Manca il futuro. Manca la speranza. Sorella Morte ha già alzato la sua falce. E' vero che si può morire a qualsiasi età, anche a vent'anni, e che la morte è certa. Ma una cosa è immaginarla in un futuro indefinito, altra è quando ti cammina a fianco. Una cosa è se si tratta di una certezza lontana, remota, altra è se sai che sei al finale di partita. E che non ci saranno supplementari. (Massimo Fini)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il vecchio detesta gli imprevisti. Anche un banale cambiamento di programma lo manda in fibrillazione. Si irrigidisce, come le sue arterie. Ma così ci si chiude ancor di più, ci si isola ulteriormente. E in un perverso circolo vizioso, più ci si isola, più si perde fiducia e non si affrontano nemmeno cose che in realtà si potrebbero fare ancora tranquillamente. Non più protagonisti, ma nemmeno comparse della vita, viviamo di resoconti. Poi neppure quelli ci interessano più. Chiusi nella monade della nostra solitudine, fisica e psicologica, la detestiamo, ma la compagnia degli altri, dopo un po', ci stanca e ci annoia. Tutto appare un déjà vu. E in parte è così.
L'esperienza, la famosa esperienza, è una brutta bestia. Ti basta cogliere in una ragazza certi tic, per ora appena accennati, e comunque mascherati e resi accettabili dalla sua giovinezza, per capire che razza di rompicoglioni sarà tra dieci anni. Di un giovane che vuole rovesciare il mondo sai già che finirà impiegato di banca o che, se arriverà ad avere un po' di potere, sarà peggio di quelli che oggi contesta. (Massimo Fini)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C'è anche la dolcezza malinconica di contemplare il proprio tramonto, nella consapevolezza del passaggio del testimone alle giovani generazioni. Ci sono i figli. Se li hai amati, e ti hanno amato, sono una consolazione. Ma anche questa è un'arma a doppio taglio. Perché credo che non ci sia cosa più dolorosa per un figlio di assistere alla decadenza dei propri genitori. Ma come, il tuo bel papà, l'eroe della tua infanzia, l'uomo "forte e protettivo", che ti ha insegnato a nuotare, ad andare in bici, a giocare a pallone, a sciare,a tenere in mano una racchetta da tennis o una mazza da baseball, e che la sera ti addormentava raccontandoti storie favolose, il tuo mito, adesso è a malapena in grado di badare a se stesso?
Quel papà che durante le gite in bici si metteva dietro di te, un po' al largo verso il centro della strada, per proteggerti dalle macchine, adesso sta ancora alle tue spalle ma perché arranca e tu devi rallentare, frenare, fermarti e far finta di essere stanco, per non staccarlo e umiliarlo. Quel papà che non vedevi tanto spesso ma su cui sapevi di poter contare in ogni momento, che era il tuo punto di riferimento, l'approdo sicuro, adesso non c'è più.
Adesso sei tu il suo bastone, anche se non te lo dice, sta per conto suo e si accontenta di guardarti vivere da lontano. Perché non bisogna caricare i figli dei propri problemi, pesare loro addosso con i propri bisogni, nemmeno affettivi. E nei loro occhi, nascosto tra le pieghe del loro sguardo limpido, in cui tu riconosci ancora il bambino che sono stati fino a non molto tempo fa, cogli il turbamento e lo sconcerto per un simile ribaltamento di posizioni. (Massimo Fini)

 

 

 

 

 

 

 

 

Oggi è proibito essere vecchi. E la vecchiaia, nelle nostre società, ha perso anche uno dei suoi pochi lussi: quello di potersi abbandonare alla propria età e ai suoi inevitabili limiti.
"Vecchio è bello", naturalmente. Figuriamoci se si osa dire apertamente il contrario una società tartufesca che offende la realtà sostituendola con le parole e ha nella rimozione una delle sue principali caratteristiche.
"Vecchio è bello". Così si legge non solo sui mensili specializzati intitolati pudicamente alla "terza età", ma anche sui quotidiani, sui settimanali, e così fa credere, interessata, la pubblicità.
"Vecchio è bello", a patto che rinneghi se stesso. E' bello se appare giovane, se se la dà da giovane, se fa il giovane, se si comporta come un giovane, se consuma, possibilmente, come un giovane. Se invece è vecchio e lo dimostra, allora è out e viene emarginato senza pietà.
Particolarmente penosa, oggi, è la vecchiaia della donna che, oltretutto, dura più a lungo perché inizia prima e finisce dopo. Un tempo, in fondo non tanto lontano, la donna, dopo aver sfornato tre, quattro o più figli, raggiunta l'età della menopausa, si ritirava dalla competizione cedendo il ruolo alle più giovani, lasciava che i suoi capelli imbiancassero, faceva la nonna, e, appagata dal fatto di aver comunque compiuto la propria funzione biologica, specifica e sociale, si metteva tranquilla. La donna sapeva che c'era un tempo per tirare i remi in barca, a vantaggio suo e della serenità della sua vecchiaia.
Oggi la donna occidentale, seguendo gli ineludibili e peraltro irraggiungibili modelli di pubblicità, deve essere sempre bella, levigata, curata, abbronzata, snella e, soprattutto giovane. O perlomeno apparirlo. Altrimenti è, di fatto, respinta. E quindi via col lifting, i ritocchi chirurgici, i seni rifatti, le diete assassine, il collagene, i labbroni tumefatti, cui le donne ricorrono sempre più spessa in età giovane, ad anticipare i tempi, una competizione parossistica che, come certe medicine, ha l'effetto paradosso di farle sembrare più vecchie di quel che sono. Ci sono in circolazione degli autentici mostri. (Massimo Fini)

 

 

 

 

 

 

 

 

E qui non bastano gli antidepressivi
così frequentemente somministrati alle persone anziane,
perché va bene la biologia,
ma non dimentichiamo mai che l'uomo
è un animale culturale e per giunta l'unico animale
che sa di dover morire, per cui la depressione,
prima che una malattia,
può essere considerata la condotta "più razionale"
che può essere adottata da chi anticipatamente
conosce quale sarà l'atto finale
in cui si raccoglie tutto il senso della sua vita.


Umberto Galimberti