Desember 2013. Rolihlaha.

 

 

 

 

Ero esitante se dedicare a Rolihlahla un Post Scriptum o un intero Mestée del Mes. Qualcosa andava fatto, date le circostanze, per cui, dopo momenti di riflessione, ho deciso per il secondo, poiché il tema andava proposto più ampiamente che con un semplice e conciso PS. Quello che mi ha reso dubbioso sulla scelta è stato, in occasione della morte da un lato l'irritante unanimismo apologetico degli imperialisti più ipocriti, dei più retrivi conservatori, dei sinceri democratici, delle anime liberali e quelle comuniste, dei benpensanti, dei cattivi maestri, dei diversi molteplici opposti abbracciantisi sul feretro, dall'altro il dato oggettivamente inconfutabile che, dopo 20 anni, il nuovo Sudafrica è stato un lampante fallimento.
Quando un'azione o una figura politica determinano monolitica positività di giudizio vi è da diffidare: si manifesta inevitabile la certezza che tale azione o figura politica, una volta preso il potere, poco o nulla abbiano inciso nella realtà economico-sociale, non intaccando sostanzialmente gli interessi di classe esistenti, tracciando percorsi funzionali agli equilibri di potere interni e internazionali. Fosse morto negli anni dell'opposizione, della lotta armata da lui sostenuta, delle rivolte nelle township o nei bantustan, avrebbe avuto un capezzale virtuale e mediatico simile a quello che ebbe Che Guevara.
Non intendo affatto criticare, svilire la levatura dell'uomo, del suo essere coerentemente rivoluzionario nel periodo dell'apartheid, di essere simbolo universale della lotta contro il razzismo: dico solamente che avrei preferito che Rolihlahla fosse rimasto un patrimonio "nostro"(chi conosce il sito sa cosa intendo) e che il suo divenire politico fosse stato il naturale prosieguo dei suoi valori, valori che avrebbero dovuto essere fondanti nella formazione del nuovo Sudafrica. Rolihlahla, la sua opera, sono stati l'ennesima storica "incompiuta", un sogno infranto.
Come d'uopo, di seguito alcuni appunti di questi giorni di fine anno. Chiude un'intervista sul tema a Nadine Gordimer. Le foto sono della rivolta di Soweto del giugno 1976 e manifestazioni avvenute nei giorni successivi.

 

 

 

 

 

Rolihlahla Mandela.
Mandela era il cognome assunto dal nonno, il nome Rolihlahla (letteralmente troublemaker, colui che provoca guai) gli fu attribuito alla nascita. Nelson gli fu invece assegnato alle scuole elementari, mentre Madiba era il suo nome all'interno del clan di appartenenza dell'etnia Xhosa.

 

 

 

 

 

 

 

 

Come dicono da quelle parti, alla fine lo hanno "lasciato andare".


Nelson Mandela si è congedato dal mondo giovedì sera alle 20,50 nella sua casa di Houghton, a Johannesburg. Per un intervallo di tempo che è sembrato infinito, l'annuncio della morte è rimasto sospeso sopra il Sudafrica. E con esso le ipotesi, i mezzi gossip sulla regia occulta che poteva, doveva esserci dietro alla scelta del momento in cui dare la notizia. Per non turbare ora gli esiti della diatriba familiare sul luogo della sepoltura, ora l'agenda di Obama in visita, ora le manovre politiche di Zuma e chissà cos'altro. Bazzecole, rispetto a quanto la scomparsa del Padre Fondatore rischia di turbare i già turbolenti equilibri su cui poggia la Rainbow Nation.
Madiba si è spento lentamente, circondato dai suoi cari e dal paese intero, 95 anni compiuti lo scorso 18 luglio. Non era scontato. Fatto, più unico che raro tra i grandi rivoluzionari africani del secolo scorso, Mandela non è stato fatto fuori in uno dei tanti complotti orditi al crepuscolo dell'epoca coloniale, non ha fatto la fine di Lumumba, Cabral, Sankara, ma ha avuto tutto il tempo di diventare il mito che era. Un mito concreto e vivente. Un miracolo.
Ma non un santo, circostanza energicamente smentita quando percepì il diffondersi della venerazione. Semmai il combattente, il difensore del diritto più basilare di ogni uomo che si rispetti: essere libero nella propria terra, a prescindere dalle barriere di razza, genere, ceto sociale. Quindi l'uomo che subisce 27 anni di ingiusta reclusione e mantiene la lucidità, non cade mai nella trappola. Il militante tosto che dalla "scienza del pugilato" deduce la metafora perfetta del suo ideale etico e politico. Zero colpi bassi, massimo rispetto per l'avversario, anche se ottuso e malvagio come il régime razzista di Pretoria.
Mandela non arretra, non sbanda, sa incassare e attendere il momento propizio, elegantemente schiva e con precisione risponde. Poi, molto poi, farà tesoro di questo senso del ring anche nelle vesti di statista. Capace di condensare in una partita di rugby, indossando una maglia per altri versi odiata, quella verde degli Springboks, simbolo altrimenti di esclusione, il senso più profondo e lungimirante della sua politica.
"Se parli a qualcuno in una lingua che lui capisce le tue parole saranno comprese, ma se gli parli nella sua lingua quelle stesse parole gli arriveranno dritte al cuore". È il fine stratega che pratica l'effetto sorpresa della compassione. Sente l'obbligo della Verità e della Riconciliazione, come recita pomposamente il nome della commissione da lui fortemente voluta, per guardare al passato in spregio a ogni sete di vendetta. Troppo scottato dalla barbarie per poterla tollerare a parti inverse, o peggio ancora in forma interetnica, come stava effettivamente avvenendo.
Gli riesce l'acrobazia di evitare che il paese esploda in mille pezzi nel bel mezzo della transizione. Un altro miracolo. Così Mandela è diventato il grande vecchio di una saggezza infinita, quello che "la gloria non deriva dall'essere infallibili ma dalla capacità di rialzarsi dopo un fallimento", quello che "il coraggio non è assenza di paura ma il trionfo su di essa", che "se vuoi fare pace con il nemico devi lavorarci insieme, così diventerà tuo socio", quello che "un buon leader deve fare un passo indietro quando tutto va bene e uno avanti se si mette male", che "un popolo si giudica da come tratta i suoi bambini". Eccetera.
La manna di citazioni che piove da scritti e discorsi va dal bianco e nero tagliente di "voglio vivere ma sono pronto a morire" ai tardi toni epici, al registro della vittoria, il tentativo disperato di raccontarsi senza autocelebrarsi alla fine del Long Walk to Freedom. Mandela, o il crescendo frastornante dell'epopea che ha portato i sudafricani a liberarsi dell'apartheid. Che non inizia quando il mondo si appassiona ai gigantismi morali del detenuto n°46664, ma all'indomani del massacro di Sharpeville, nel 1960, quando Mandela entra in clandestinità e capisce che l'opzione guerriglia dell'Umkhonto we Sizwe è l'unica via che resta. O prima ancora, era il 1944, quando diventa chiaro che a colpi di garbate petizioni come quelle che l'African National Congress rivolge al governo la lotta non sarà mai produttiva.
Con la Youth League dell'ANC, Madiba avrà un ruolo forte nel rinnovare la grammatica della rivolta, tra azioni non violente, resistenza passiva, boicottaggi, pratiche di disobbedienza civile e scioperi organizzati. Tutto finalizzato alla conquista della piena cittadinanza, l'abolizione delle discriminazioni razziali, la ridistribuzione delle terre, i diritti sindacali e il diritto all'educazione per tutti. Sarà la vera fissazione di una vita, l'educazione, "l'arma più potente". Nessuno nasce per odiare l'altro, sosteneva Madiba, l'odio gli viene insegnato dopo. E se si può insegnare l'odio si può insegnare anche il suo contrario, che poi sarebbe pure più naturale da imparare se da qualche parte hai un'anima, una coscienza, un recettore sensibile. Talvolta però l'educazione all'odio e l'odio per il diritto di tutti all'educazione coincidono.
Non per niente i siti all'estrema destra del nazionalismo boero, ossessionati da un Sudafrica ostaggio di "negri", "giudei" e "comunisti", ieri come oggi, raccontano che "il sistema educativo dell'Impero dell'Africa del sud lo istruì fino a farne un avvocato". C'era in effetti questa possibilità, ma non quella che i neri finiti nei guai potessero poi permetterselo, un avvocato.
Negli anni '50 lo studio legale Mandela & Tambo sopperiva proprio a quella mancanza. Un modo come un altro per creare fastidi al régime, che da lì all'ergastolo con cui si chiude il famoso processo di Rivonia non gli darà più tregua. Né lui gliene concederà, calmo e risoluto com'era, utilizzando al meglio le poche armi di cui dispone. Tra queste la consapevolezza di avere un sorriso dirompente, charme, carisma. E quella poesia di Henley che rim¬bomba nella testa... "Non importa quanto sia stretta la porta / Quanto piena di castighi la vita / Io sono il padrone del mio destino / Sono il capitano della mia anima".
Mandela muore imbattuto (invictus), ma mica tanto vittorioso. Il paese che lascia è un capolavoro incompiuto, con la sua bellissima Costituzione e una realtà che non può esserne certo diretta conseguenza: le disuguaglianze sono rimaste tali, l'economia resta saldamente nelle mani dell'élite bianca, il culto del libero mercato ha spazzato via ogni pulsione con¬divisa. E il solo emergere di una classe nera di nuovi ricchi rampanti non può essere considerato un traguardo.
È sotto la guida di Madiba uomo libero che l'ANC rassicura l'Occidente puntando su una forma di democrazia liberale in luogo del socialismo, con buona pace di tanti dei valori per cui molti sudafricani avevano dato la vita. Se al disastro sociale oggi si aggiunge un clima politico avvelenato da correnti e corruzioni, le speculazioni già iniziate sulla sua eredità non solo morale e il profilo deludente del Sudafrica nel ruolo di superpotenza regionale, il bicchiere appare decisamente mezzo vuoto. Mentre una "testa calda" come Julius Malema ha trasformato la Youth League in una polveriera e da destra il profilo ragionevole dell'Alleanza Democratica seduce chi ha smesso di credere al partito che fu di Mandela.
I veloci passaggi dal simbolico al fattuale, dalla rivoluzione al marketing nazionale, non bastano più. La Nazione Arcobaleno è solo uno stato d'animo, coscienza e incoscienza nazionale al tempo stesso. Complice forse la frettolosa musealizzazione dell'apartheid, cioè delle sue rappresentazioni più abominevoli, complice l'introiezione degli stessi modi che si intendeva estirpare, una violenza tatuata sulla pelle dei sudafricani, quale ne sia il colore. Si potevano forse immaginare dopo la presidenza Mandela gli assalti xenofobi del 2008, con i sudafricani poveri delle township che davano la caccia ai poverissimi immigrati dai paesi confinanti, cittadini di quella che era stata la cintura solidale dei Frontline States? Dell'imbarazzo di Mandela non è dato sapere, tanto la sua voce ormai risuonava flebile e lontana.
Scompare così l'uomo su cui sono stati girati più film, scritti più libri, dedicate più statue, piazze, parchi, ponti, scuole. E naturalmente più canzoni, un colossale repertorio internazionalista che inizia sotto casa con le pastose polifonie stile Nkosi Sikelele e il commovente "Bring him back home" di Hugh Masekela, per poi esplodere nel mondo a partire dagli Specials Aka di Jerry Dammers, l'impenitente antifa' inglese che anni addietro aveva sposato il punk allo ska giamaicano. Free Nel¬son Mandela, è indignazione più gioia, rabbia danzata con grazia, è la serenità di stare dalla parte giusta. Da lì in poi tutti a tributargli omaggi. Fino al giro di campo in carrozzella per certi versi impietoso, prima della finale del Mondiale di calcio 2010, un altro dei suoi sogni più politici che si realizzava. A quel punto sipario, e dimissioni anche dal duro lavoro di icona planetaria. Mandela è morto piano piano. Ma solo ora si è liberato della sola prigionia che poteva ancora affliggerlo, la condizione appunto di mito vivente. È evidente che per tutto il resto non morirà mai. (Marco Boccitto, 2013)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quanta ipocrisia sulla morte di Nelson Mandela.


Messaggi di cordoglio da tutto il mondo, capi di Stato e comuni cittadini di ogni angolo del pianeta uniti nel dolore e nel ricordare uno degli ultimi grandi personaggi del '900. Mandela messaggero di pace; Mandela idolo della lotta alla libertà; Mandela uomo di speranza. Dall'Inghilterra agli USA, dall'Italia alla Francia, tutti in fila per esprimere il proprio cordoglio ad un uomo che ha trascorso 27 anni della sua vita in carcere per combattere contro l'apartheid. Un uomo che, però, sino a qualche anno fa era ancora nella lista nera dei terroristi stilata dagli Stati Uniti.
D'altronde, se ha trascorso quasi 27 anni in carcere è per aver combattuto contro un sistema, quello dell'apartheid, imposto e difeso dalle potenze coloniali occidentali. D'altronde, se è stato catturato, è stato grazie al ruolo della CIA che ha aiutato la polizia sudafricana ad arrestare il terrorista Mandela. La Thatcher, ex primo ministro inglese, aveva più volte ritenuto Mandela un terrorista, esattamente come fece Reagan, ex presidente americano, che in più occasioni aveva definito Mandela un pericoloso terrorista. E per giunta comunista.
Ma gli Stati Uniti hanno fatto molto peggio: hanno inserito Mandela e gli altri membri dell'ANC (African National Congress) nella lista nera americana dei terroristi. E la cosa assurda è che Mandela è rimasto in quella lista sino al 2008, ovvero sino a cinque anni fa, nonostante avesse nel frattempo vinto il premio Nobel per la pace e nonostante avesse avuto centinaia di premi e riconoscimenti internazionali. Mandela era dunque, per gli Stati Uniti e l'Inghilterra, un pericoloso terrorista. Solo nel 2008 gli Stati Uniti tolgono Mandela dalla lista nera dei terroristi, cosa che gli impediva di viaggiare tranquillamente negli USA.
Il governo inglese e quello statunitense erano molto vicini al governo segregazionista sudafricano, quello dell'apartheid per intenderci, tanto da opporsi al regime di sanzioni elevate contro Pretoria, mentre sono state proprio quelle sanzioni e il boicottaggio internazionale che hanno permesso di sconfiggere quella vergogna. Reagan aveva posto il veto al Congresso statunitense per difendere il regime sudafricano dalle sanzioni (risultando però sconfitto per un solo voto). Un congresso, quello statunitense, spaccato in due nel decidere se difendere o meno una dittatura segregazionista. Metà del congresso era, detta più esplicitamente, a favore dell'apartheid o comunque la tollerava e sosteneva.
Eppure oggi Mandela è ricordato da tutti come un eroe, un simbolo di pace e di speranza. Diventato un mito, una figura e un simbolo. Idolatrato, anche grazie ad Hollywood e alla capacità della nostra società dello spettacolo di creare una icona, in tutto il mondo. Ben 3 presidenti americani, Clinton, Bush e Obama, parteciperanno ai solenni funerali in memoria del leader sudafricano, nonostante gli Stati Uniti avessero più volte provato a bloccare le sanzioni contro il regime segregazionista sudafricano e nonostante sino al 2008 non poteva muoversi liberamente negli Stati Uniti, in quanto ufficialmente un terrorista. E ora gli Stati Uniti sembrano appropriarsene, facendone un loro mito, un loro simbolo, un loro esempio di libertà. Sembra quasi che Mandela abbia combattuto, e pagato con 27 anni di carcere, una lotta comune con gli Stati Uniti e il mondo occidentale. Sembra quasi che Mandela fosse un alleato degli Stati Uniti in quella battaglia contro l'impero del male (per citare Reagan), in quella semplificazione manichea tipica del mondo hollywoodiano.
Eppure Mandela ha combattuto contro un regime di segregazione e razzismo voluto dal colonialismo europeo e statunitense. Voluto e appoggiato, sino agli anni ottanta, proprio dagli Stati Uniti e dall'Inghilterra e, nel Medio Oriente, da Israele unico grande alleato del regime razzista sudafricano. Israele che lo stesso Mandela ha più volte condannato come un regime simile all'apartheid sudafricano. Trovo ipocrita quell'appropriarsi di Mandela da parte di quei governi che sino a qualche anno lo definivano un terrorista e che, a più riprese, hanno posto il veto ad alcune sanzioni chieste dalla comunità internazionale contro il regime segregazionista dell'apartheid. Eppure ora sono là, in prima fila, a brandire la bandiera del Mandela campione di libertà ed appropriarsi, così, di un simbolo e un'icona che non è la loro, ma che anzi anche contro di loro combatteva. (Massimo Ragnedda, 2013)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La battaglia di Madiba non è bastata a estirpare i morbi del Paese: una diseguaglianza sociale tra le più alte del pianeta, la disoccupazione giovanile attorno al 50% e una classe dirigente incapace di seguire il cammino della libertà. Il Sudafrica che Mandela ha contribuito a costruire è dotato di una Costituzione (nata nel 1996), di un collaudato sistema parlamentare, di servizi di base, di scuola ed educazione. Nel 2005, lo Stato è entrato come membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell'Onu e nel 2010, nonostante l'opposizione di alcuni analisti, ha fatto il suo ingresso nei Brics, il gruppo delle economie emergenti (che includono anche Brasile, India, Cina e Russia). Negli ultimi 15 anni il suo Prodotto interno lordo (Pil) è cresciuto senza quasi conoscere crisi e la popolazione nera (l'80% del totale) ha potuto godere di una nuova fetta di sviluppo, di nuove libertà e ricchezze.
Ma, nel complesso, la transizione dal regime segregazionista a una democrazia matura ed egualitaria sembra comunque aver fallito. L'African National Congress, il partito della maggioranza nera a cui appartiene il capo di Stato Jacob Zuma, non è stato all'altezza della sua missione. Nonostante sia arrivato alla stanza dei bottoni con la massima investitura popolare e ancora oggi sia capace di assicurarsi il 60% dei consensi, il presidente non è riuscito ad abbattere la disuguaglianza.
Stando al coefficiente GINI, un indicatore che misura le differenze nella distribuzione del reddito assegnando il valore 1 ai Paesi con il maggiore divario, il Sudafrica non solo non ha fatto passi avanti, ma è addirittura arretrato: nel 1993 l'indice era allo 0,59, mentre nel 2009 è cresciuto a 0,63. I più svantaggiati, secondo l'Istituto per le relazioni razziali di Pretoria, sono ancora una volta i neri: stando all'ultima rilevazione (del 2008), il 20% della popolazione più ricca del Sudafrica era ancora composta per l'83% da bianchi, e soltanto per l'11% da cittadini di colore, per lo più legati al partito di governo (il resto sono meticci e immigrati).
L'organizzazione Corruption Watch, che ha aperto un ufficio in Sudafrica nel 2012, ha ricevuto in un anno oltre 1.200 segnalazioni di casi di corruzione. Per mettere un bavaglio alla stampa, il parlamento ha varato ad aprile 2013 il Secrecy bill, una norma secondo la quale i cronisti possono finire in carcere, bollata come liberticida dagli attivisti di Human Rights Watch e poi rifiutata dal presidente Zuma. "L'eredità di Mandela è stata macchiata e offuscata dalla perdita progressiva dei paletti morali che aveva stabilito quando era leader", ha commentato persino Frederik Willem de Klerk, l'ultimo presidente bianco e premio Nobel per la pace (spesso contestato) assieme allo stesso Madiba, per il ruolo svolto nella transizione. Oggi, paradossalmente, è il partito di Mandela la classe dirigente contro cui combattere.
Ed è forse questo il fallimento più cocente. Ma se molti sono pronti a puntare il dito contro i risultati dei dirigenti sudafricani, pochi vanno a fondo con l'analisi. L'ex ministro Ronald Kasrils è un'eccezione. Nella sua biografia intitolata "Armato e pericoloso", il politico ha ricordato come nel 1994 i neri abbiano occupato la politica, lasciando però il comando delle leve economiche della nazione nelle mani della minoranza del 20% di bianchi. Il Sudafrica ha abbracciato il libero mercato, cedendo ad altri le proprie risorse nazionali: l'ultimo tentativo di nazionalizzazione delle miniere di platino è tramontato nel 2009, con l'elezione dell'attuale presidente Zuma. La nuova classe dirigente ha trasformato l'occupazione del palazzo nella propria personale fonte di ricchezza più o meno lecita, trasformando la classe media in un esercito di impiegati pubblici e la politica in uno dei pochi mezzi di ascesa sociale.
Il nuovo ordine che Mandela ha contribuito a costruire, sostengono i critici, non ha cambiato i rapporti di forza esistenti. "Oggi i burocrati politici sono i nuovi miliardari", ha scritto sul New York Times l'intellettuale sudafricano Zakes Mda, "guidati da un presidente, Jacob Zuma, che palesemente ha utilizzato milioni di dollari dei contribuenti per ampliare la sua residenza privata per ospitare il suo harem e una falange di figli".
African Trade Unions (Cosatu), il sindacato un tempo collante sociale e forza propulsiva del movimento anti-apartheid, è accusato di flirtare con il partito al governo, in una commistione di interessi da cui i più poveri si sentono esclusi. Nell'autunno del 2012, 75 mila minatori hanno scioperato illegalmente, seguiti dai camionisti e dai lavoratori del settore tessile. Le ragioni della mobilitazione stanno nelle statistiche: secondo i dati del South African Institute for Race Relations, la disoccupazione giovanile supera il 48%. Per aver un raffronto, nell'Africa subsahariana è al 12% e nel Maghreb travolto dalla Primavera araba al 24.
Qualche risultato, certo, c'è stato: tra il 1996 e il 2010, la fetta di popolazione sudafricana che vive con meno di due dollari al giorno è calata di sette punti percentuali, passando dal 12% al 5%. Ma non basta. Troppi sono stati lasciati indietro e la lotta in fondo alla scala sociale è rimasta senza legge. L'immigrazione, in arrivo da altri Paesi dell'Africa nera, ha innescato una inaspettata xenofobia, trasformata in qualche caso alla violenza di massa: nel 2008 sono stati uccisi 60 migranti dal Mozambico e nel giugno 2013 i migranti somali sono stati presi di mira dai fratelli neri. La violenza del resto è di casa: in Sudafrica ci sono 2,9 milioni di armi registrate, circa una ogni 15 persone.
Il movimento che punta il dito contro i frutti amari della lotta anti apartheid è già nato e si è diffuso soprattutto tra i giovani neri delle università. Per i suoi attivisti "il Sud Africa è ancora una nazione suprematista bianca ma gestita dall'ANC". E l'accordo raggiunto da Mandela con l'ultimo governo bianco è stato una "truffa perpetrata ai danni dei neri". Quella del leader anti apartheid, arrivano a dire i più duri, è stata una "cosmetica della riconciliazione", che non ha cambiato la sostanza delle cose. Giudizi durissimi condivisi da una piccola parte della popolazione: per la maggioranza dei sudafricani Madiba è ancora l'eroe, il padre della nazione. Tuttavia, l'adesione alla sua battaglia, anche mentre lui era al potere, è stata utilizzata per scopi poco nobili. Forse, nel suo cammino verso la libertà, avrebbe avuto bisogno di meno seguaci e di più compagni capaci di avanzare al suo fianco. (Giovanna Faggianato, 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Perché è vero che Mandela è stato l'uomo della resistenza non violenta, della pacificazione, della "nazione arcobaleno", dell'amnistia, della filantropia. Ma è stato anche e non solo quel Mandela. C'è pure un'altra faccia di Mandela, quella del militante, del cospiratore, che non è opposta ma complementare alla prima. Che non è il rovescio "cattivo" della faccia "buona". È altresì il Mandela che non si vuole ricordare perché, alla nostra società assuefatta alla violenza ignobile e insensata che viene compulsivamente narrata o descritta dai TG ai film, dalla musica ai videogiochi, a questa società tanto caratterizzata dalla violenza fine a se stessa, riesce invece difficile accettare e riconoscere l'esistenza di una violenza "nobile", una violenza motivata dal senso di giustizia e tendente al giusto. A questo rifiuto della violenza "positiva" si unisce poi il cliché, inconsciamente razzista, per cui l'africano nero è sempre buono, simpatico e mansueto, ma di conseguenza docile e incapace di ribellarsi all'ingiustizia.
Ecco allora che trova la sua utilità ricordare l'altra faccia di Mandela, il militante rivoluzionario. Il giovane Mandela seguace di Anton Lembede e del suo nazionalismo africano "integralista", che rifiuta la collaborazione coi bianchi e la commistione con le ideologie occidentali, incluso il comunismo (posizioni queste che correggerà alcuni anni dopo). Il Mandela che, come afferma nella sua autobiografia, sceglie la resistenza non violenta non perché persuaso dal messaggio etico gandhiano, bensì perché la ritiene l'unica tattica adatta alla situazione. Il Mandela che, di fronte alla distruzione di Sophiatown e alla deportazione dei suoi abitanti, decide che la non violenza cessa di essere la giusta opzione, e fonda MK, il braccio armato dell'ANC. Il Mandela che, quando gli viene offerta la liberazione in cambio della rinuncia alla lotta armata, rifiuta perché ritiene che l'ANC non potrà deporre le armi finché non l'avrà fatto il regime. Questo è l'altro Mandela. E, checché ne dica certa propaganda xenofoba da un lato o il "politicamente corretto" non-violento dall'altro, è un Mandela che ha il diritto alla celebrazione e all'elogio non meno di quello più noto, "gandhiano" e pacificatore. (Daniele Scalea, 2013)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nell'aprile del 1994, le televisioni di tutto il mondo mostrarono sterminate code di sudafricani che, per ore, con pazienza e orgoglio, restarono ad attendere un momento a lungo sperato: il primo voto e la fine della segregazione razziale. A distanza di quasi venti anni si può affermare che le speranze di quei milioni di donne e uomini sono state disattese. La lotta per un Sudafrica veramente democratico è stata fermata dalle politiche neoliberali adottate dall'African National Congress.
Il brutale massacro di Marikana dello scorso agosto, così tanto simile alle stragi dei tempi dell'apartheid, nel quale hanno perso la vita 47 minatori in sciopero per l'aumento del loro salario (appena 250 euro al mese dopo 18 anni di democrazia), rappresenta perfettamente il paradosso di questa nazione.
A fronte della straordinaria concentrazione di ricchezza ancora esistente, un recente studio di Citigroup afferma che il Sudafrica possiede tutt'oggi il sottosuolo più ricco del pianeta, stimando il valore delle sue riserve minerarie in oltre 2.5 bilioni di dollari, nel dopoguerra questo paese si distingueva, esclusa la popolazione di origine europea, per l'indice di mortalità più alto del mondo. Più della metà degli uomini di origine africana viveva confinata nei Bantustan (che coprivano appena il 13% della sua superficie), territori in cui il potere bianco relegò, e talvolta deportò, le popolazioni locali in base alle etnie di provenienza. La restante parte abitava le township, baraccopoli limitrofe a tutte le città dei "bianchi", nelle quali era ammassata, senza godere di alcun diritto civile, la forza lavoro nera che sorreggeva l'intera economia sudafricana. In queste zone la miseria era estrema. Le scarpe giunsero soltanto nel 1979, grazie alla Croce Rossa.
Nonostante la risoluzione di condanna verso le politiche di apartheid, votata dall'ONU nel 1962, il veto opposto da Stati Uniti, Inghilterra e Francia, potenze che beneficiavano delle esportazioni del Sudafrica, impedì l'espulsione, proposta con la mozione del 1974, del paese dalle Nazioni Unite. Così, sulla rotta del Capo di Buona Speranza, trasportando oltre il 20% del petrolio consumato negli USA e il 70% delle materie prime strategiche (in particolare platino, cromo e manganese) dell'Europa occidentale, continuarono a navigare oltre 2.000 bastimenti l'anno e le blande sanzioni economiche applicate non intaccarono affatto l'economia e il regime del National Party.
Al momento degli accordi di pace, seguiti alla straordinaria lotta di liberazione, il Sudafrica era una paese profondamente diviso. La popolazione di origine europea aveva il 7° reddito pro-capite più alto al mondo, mentre quella africana il 120°. Con l'affollamento delle città da parte della moltitudine di africani liberate dai sordidi ghetti della segregazione, dopo l'elezione di Mandela, i "bianchi" cominciarono a spostarsi in quartieri residenziali, lontani dai centri delle principali città, nei quali continuano a vivere tuttora, asserragliati in abitazioni lussuosissime, a metà tra ville in stile hollywoodiano e fortezze completamente circondate dal filo elettrico spinato e da guardie armate private.
Nei primi quindici anni del Sudafrica libero, accanto alla figura carismatica e internazionalmente riconosciuta di Mandela, si è distinta quella di Thabo Mbeki. Vicepresidente del primo quinquennio e poi alla guida della "nazione arcobaleno" fino al 2008, è stato Mbeki a definire gli indirizzi economici del paese. Nel 1994, l'Alliance, coalizione elettorale composta dall'ANC, dal CPSA e dal COSATU, la principale e più combattiva federazione sindacale sudafricana, con 1.8 milioni di iscritti, avviò, al fine di ridurre l'ingiustizia sociale, il Programma di Ricostruzione e Sviluppo (RDP), un insieme di misure miranti alla creazione di servizi primari, lavoro, abitazioni e riforma della proprietà terriera.
Dopo due anni appena, l'RDP venne sostituito da un nuovo piano strategico, quello per la Crescita, Occupazione e Redistribuzione (GEAR), che avrebbe dovuto consentire, secondo le promesse di Mandela e Mbeki, l'arrivo di investimenti stranieri e, pertanto, del benessere generale. Con il GEAR, in realtà, a fare il loro ingresso in Sudafrica furono il neoliberismo e i suoi effetti devastanti. Dopo aver accettato di ripagare il debito pubblico (25 miliardi di USD) accumulato nell'era dell'apartheid, scelta che rese necessario l'avvalersi di un prestito del Fondo Monetario Internazionale e, dunque, di sottostare alle sue ricette economiche , col GEAR il Sudafrica avviò una stagione di massicce privatizzazioni, di liberalizzazione degli scambi miranti all'importazione di merci a costi bassissimi, di ingenti tagli alla spesa accompagnati da corposi sgravi fiscali per tutte le grandi società (la cui tassazione è scesa dal 48% del 1994 all'attuale 30%), di deregolamentazione del mercato.
A dispetto delle promesse di maggiore efficienza, di creazione di nuovi posti di lavoro e conseguente riduzione della povertà, queste misure portarono all'aumento dei prezzi di elettricità, acqua e trasporti; all'abbassamento dei salari e alla flessibilità del lavoro; ai tagli al settore pubblico, in particolare sanità, scuola e pensioni, e al peggioramento della situazione ambientale, con l'enorme emissione di CO2 dovuta anche alla quantità di elettricità fornita alle multinazionali al prezzo più basso del mondo, e, infine, alla finanziarizzazione dell'economia con una crescita senza creazione di veri posti di lavoro (secondo l'Economist, il Sudafrica è il mercato emergente economicamente più vulnerabile). Qualsiasi seria analisi dell'attuale situazione economico-sociale del Sudafrica non può prescindere, quindi, da una rigorosa riflessione critica del GEAR e delle sue nefaste conseguenze.
A questa "prima economia", sempre più integrata nel mercato globale e vincolata ai settori minerario e finanziario, fu affiancata una "seconda", marginale e simile alle ricette del nobel Muhammad Yunus. Attraverso la "miracolosa" trasformazione dei poveri in piccoli imprenditori e mediante la seducente illusione secondo la quale il micro-credito era la possibile panacea di tutti i mali, quest'ultima ha contribuito, anche in Sudafrica, a una depoliticizzazione della povertà e ha favorito la penetrazione del mercato in ambiti delle relazioni sociali da esso, in precedenza, ancora preservati.
D'altronde, la "tecnicizzazione" della questione sociale, ovvero la rimozione delle sue cause economico-politiche, è un fenomeno oggi sempre più diffuso. Mbeki ha guidato questa trasformazione anche mediante l'utilizzo di una retorica di sinistra, tinta di nazionalismo africano. Non a caso la sua politica è stata definita "Talk left, walk right", ovvero "dire cose di sinistra, mentre si va a destra". Impostazione dalla quale non si è affatto discostato Jacob Zuma, l'attuale presidente, che, nonostante fosse stato eletto nel 2009 enfatizzando la sua collocazione nella sinistra dell'ANC, ha tradito le aspettative di cambio auspicate dal COSATU e si è contraddistinto per una netta continuità col passato.
La conquista dei diritti politici è stato un risultato importantissimo che non può essere sottovalutato, tantomeno in un paese con la storia drammatica del Sudafrica. Tuttavia, la svolta promessa dall'Alliance si è arrestata sulla soglia della questione sociale. Di fatto, l'ANC ha rimosso il tema della redistribuzione delle ricchezze dalla sua agenda e, rispetto al 1994, le diseguaglianze si sono addirittura accresciute (al tempo il salario di un lavoratore nero corrispondeva al 13,5% di quello di un bianco; oggi tale rapporto è calato al 13%).
L'aumento del disagio sociale nelle aree urbane indica che anche la "Guerra alla povertà", dichiarata dal governo nel 2008, è stata perduta. Il numero dei disoccupati è superiore a un quarto della forza lavoro del paese, un dato maggiore di quello dei tempi dell'apartheid, e la percentuale dei senza impiego sarebbe superiore al 30% se nel conteggio fossero inclusi anche i discouraged workers, cioè quanti hanno smesso di cercare un'occupazione. Inoltre, sono diventati precari e retribuiti con un salario inferiore mezzo milione dei precedenti posti di lavoro, mentre molti di quelli da poco creati vengono retribuiti con meno di 20 euro al mese.
Questo drammatico quadro è peggiorato con gli effetti della crisi, ovvero a causa della bolla immobiliare (rispetto alla fine del secolo scorso i prezzi erano aumentati del 389%); del calo dei settori minerario e manifatturiero, dovuto alla forte riduzione della domanda globale; del declino degli investimenti, e della perdita di un milione di posti di lavoro nel corso del solo 2009. Nel "nuovo Sudafrica" le ingiustizie ereditate dal regime segregazionista si sono ampliate. La nascita di una borghesia "nera", politicamente influente quanto economicamente debole, di un'altra elite predatoria affiancatasi a quella già esistente, ha arricchito un gruppo di uomini legati all'ANC, ma non ha certo mutato la condizione del popolo sudafricano. L'apartheid razziale si è trasformato in apartheid di classe, parola oggi non più di moda, ma sempre attualissima. (Marcello Musto, 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nadine Gordimer prende il tè del pomeriggio senza latte, ma si concede biscotti al ginger molto saporiti. Per camminare usa il bastone e ha la faccia ammaccata, a causa di una frenata brusca della sua auto, ma lo spirito è quello vivace di sempre. Nella casa coloniale di Johannesburg dove vive, disegnata dallo stesso architetto che progettò gli Union Buildings di Pretoria, si respira la travagliata storia del Sudafrica. Non solo perché tra queste mura, davanti al caminetto del soggiorno, hanno preso forma le novelle che hanno fatto conoscere al mondo le complesse dinamiche del suo Paese, ma anche perché qui si è costruito il Sudafrica del post apartheid.
"Dopo la liberazione di Madiba -ricorda- offrii la mia casa agli esponenti dell'African National Congress e del Partito Nazionale, che avevano bisogno di un rifugio sicuro, lontano da occhi indiscreti, dove negoziare il futuro del Paese. Ora però questo futuro è a rischio, e il nostro sogno rischia di svanire". Sui divani dove siamo seduti si incontrarono i protagonisti della transizione democratica, F.W. De Klerk e Nelson Mandela, amico della scrittrice sudafricana dai tempi del processo di Rivonia. Tre premi Nobel, due per la Pace e uno per la Letteratura, nella stessa casa e allo stesso momento. Una situazione difficile da immaginare in qualsiasi altro luogo del mondo, ma che ascoltando i racconti della Gordimer assume i contorni di una semplice conversazione tra amici di lunga data.
"Io stavo al piano superiore, indaffarata con i protagonisti dei miei romanzi, mentre al piano inferiore si discuteva di come tenere insieme il Paese che usciva dagli anni terribili dell'apartheid. Un regime, non dimentichiamolo mai, che durò così a lungo grazie ai finanziamenti e le armi inviate dall'Europa".
Quando incontrò per la prima volta Nelson Mandela?
"Lo conobbi grazie ad Anthony Sampson, un giornalista inglese che aveva fondato Drum, la prima pubblicazione realizzata dai neri di Johannesburg. Lui conosceva Mandela e il giorno della sentenza al processo di Rivonia, insieme al mio grande amico e avvocato di Madiba, George Bizos, mi invitarono ad andare con loro".
Come fu quella prima visita?
"Durante un'interruzione del processo, Bizos mi chiamò e mi chiese di tenergli la borsa, fingendo di essere la sua segretaria. Così, grazie a questo stratagemma, riuscii a scendere nella cella dove c'erano Mandela e altri esponenti dell'ANC. I loro volti erano l'immagine del coraggio e della determinazione. La pena di morte era ancora in vigore, ed erano consapevoli che ci sarebbero state poche probabilità di evitarla, ma credevano alla loro causa come si crede ad una religione. Gli parlai pochi istanti, prima di tornare tra il pubblico ad ascoltare la sentenza, che condannò lui e i suoi compagni al carcere duro di Robben Island".
Avete avuto altri contatti durante i lunghi anni di prigionia?
"Era quasi impossibile. Però attraverso Bizos riuscivamo ad avere qualche informazione. Nonostante la sua lontananza, lo spirito di Madiba era sempre con noi".
È vero che Mandela lesse una delle sue novelle, "Burger's Daughter", mentre era detenuto a Robben Island?
"Non so come sia riuscito ad averla, ma era bravissimo ad ottenere giornali e libri di contrabbando. Quel romanzo raccontava la storia di una famiglia in cui la politica veniva prima di tutto. Ricevetti una sua lettera piena di elogi, in cui scriveva che bisognava raccontare quelle cose. Fu una soddisfazione indescrivibile. Conservo ancora la lettera, al piano di sopra, ma è privata e non la mostro a nessuno".
Nel 1990, subito dopo la liberazione, Mandela la incontrò.
"Chiese di vedermi pochi giorni dopo. Per me fu bellissimo. Una grande emozione, dopo lunghi anni di attesa. Mi disse: adesso siamo pronti per costruire un nuovo Sudafrica. Poi gli assegnarono il Nobel, e mi invitò ad andare con lui a Oslo nella delegazione ufficiale: fu meraviglioso vederlo ricevere quel premio".
Quando è stato il vostro ultimo incontro?
"Quasi un anno fa. Bizos andava spesso a trovarlo nella sua casa di Houghton, fuori Johannesburg, e quella mattina decise di portare anche me, pensando che gli avrebbe fatto piacere. Era ora di colazione, che per Madiba significava le undici. Ci sedemmo in sala da pranzo, con lui a capotavola. Dopo una breve chiacchierata ci spostammo in salotto, dove Nelson ha una speciale poltrona, visti i problemi di deambulazione. Chiedeva a George notizie sui loro amici di lunga data, molti dei quali non ci sono più. Io ero seduta al suo fianco, ma era evidente come già allora la sua mente fosse altrove. Spesso non era presente. Credo non sia a conoscenza di ciò che gli gravita attorno, è come se fosse rimasto nel passato".
La figlia Makaziwe ha fatto causa proprio a Bizos, per togliergli la gestione del patrimonio del padre. Cosa pensa delle lotte interne alla famiglia per l'eredità?
"Una cosa orribile, disdicevole. Quello che sta succedendo è molto inappropriato, soprattutto perché Mandela non ha mai lottato per cose materiali. Quando ho saputo delle accuse contro George sono rimasta scioccata e meravigliata, perché è una persona onesta di cui Nelson si fidava molto. È davvero triste".
Il 2014 sarà un anno importante per il Sudafrica: ci saranno le elezioni, e si celebreranno anche i vent'anni dalle prime votazioni democratiche. L'ANC ha raggiunto i suoi obiettivi?
"No. Allora eravamo troppo indaffarati ad eliminare il regime dell'apartheid, e pensavamo che una volta liberi tutto sarebbe stato facile. Eravamo ingenui e non ci concentrammo sul futuro, sui problemi in arrivo, e su come ricostruire il Paese".
Gli insegnamenti di Mandela sono stati seguiti?
"Mi pare ovvio di no. La liberazione c'è stata, ma la giustizia manca ancora. Oggi vige una cultura incentrata sulla corruzione, di cui sono responsabili anche l'Anc e lo stesso presidente Jacob Zuma. Basti pensare alle accuse nei suoi confronti relative ad una mazzetta presa su un accordo commerciale per l'acquisto di armi: ha detto che si sarebbe sottoposto al giudizio della legge, ma il processo non è mai cominciato. Oppure lo scandalo di Nkandla, la sua residenza: Mandela vive in una casa bella, ma normale, che gli è stata regalata, Zuma si è costruito una cittadella, con i soldi pubblici. Questo fenomeno però va capito, senza giustificarlo".
In che senso?
"È un'eredità del colonialismo. Per secoli i neri non hanno avuto nulla: da quando hanno ottenuto la libertà e il potere politico vogliono tutto, ed in parte è comprensibile. Ma Zuma non ha seguito gli insegnamenti di Mandela ed è un pessimo esempio per i suoi ministri e per il popolo sudafricano".
Dunque l'ANC non ha onorato il suo leader storico?
"Tutta questa adulazione è comprensibile, ma non è quello che Madiba avrebbe voluto. Il modo migliore per onorarlo sarebbe attraverso la giustizia e il rispetto della Costituzione. Lui vorrebbe vedere questo Paese cambiare e diventare libero davvero".
Qual è l'eredità principale lasciata da Mandela?
"La sua umanità. È riuscito ad essere un nazionalista nero, senza mai smettere di essere un umanista. Pochi perseguitati politici sanno tendere la mano all'oppressore che gli teneva lo scarpone sul collo, ma lui è stato una garanzia per tutti".
Alle prossime elezioni ci saranno nuovi partiti come Agang, fondato dalla compagna di Steve Biko Mamphela Aletta Ramphele. Non crede ci sia la possibilità per un ribaltone politico?
"Temo di no. L'ANC sta perdendo molta credibilità, ma purtroppo gli altri partiti sono troppo piccoli e non riescono a trovare un'alleanza. Forse con uno scarto minore, ma Zuma vincerà di nuovo. Almeno credo". Esistono timori che nel momento in cui Mandela non ci sarà più, il Sudafrica precipiterà nell'instabilità sociale.
Cosa ne pensa?
"Certo, ma questo potrebbe capitare anche se Madiba vivesse per sempre. C'è già instabilità, basti pensare alle industrie minerarie e agli scioperi dei lavoratori, che chiedono una vita migliore e salari più appropriati. Poi la disoccupazione giovanile, in particolare tra la popolazione nera, è una vera bomba sociale. Tutto questo provoca risentimento, e il risentimento genera la violenza".
Cosa bisognerebbe fare per affrontare i problemi più gravi?
"Per cambiare queste dinamiche serve riformare il sistema dell'istruzione. Nelle scuole delle township e delle zone rurali non arrivano neanche i testi scolastici. In realtà l'educazione per la popolazione nera non è cambiata dai tempi dell'apartheid. Abbiamo persone intelligenti, ma quando si arriva a certi livelli servono conoscenze appropriate, che oggi ancora mancano".
Il presidente americano Obama, che ha da poco visitato il Paese, ha proposto una partnership economica per rilanciare il Sudafrica. È la strada giusta da seguire?
"Sono solo parole. Cosa propone, in concreto? Prendere soldi in prestito? Alzare le tasse? Alla fine anche gli americani sfruttano le nostre miniere e non danno un vero aiuto concreto alla nostra economia".
Cosa può evitare che il sogno della vostra vita, una volta sparito Mandela, vada in frantumi?
"La nostra determinazione a resistere. È difficile per tutti, anche per i giornalisti, che continuano ad essere minacciati da leggi sulla censura simili o peggiori di quelle dell'apartheid. Io vedo e temo i problemi che abbiamo davanti, ma non sono disperata. Non lo sono per una ragione molto concreta: se la nostra gente è riuscita a superare la terribile prova dell'apartheid, possiamo vincere qualunque avversità". (Intervista di Paolo Mastrolilli & Giuseppe Simoncelli, luglio 2013)

 

 

 

 

 

 

 

 

Che piangano dunque pure, e giustamente, la scomparsa di Mandela coloro che credono nella libertà e nella dignità dell'uomo. Ma che evitino di farlo coloro che continuano a mantenere i popoli sotto il giogo dell'imperialismo militare. E anche coloro che stanno dalla parte degli oppressori, e contro quella degli oppressi che hanno l'ardire di combattere per liberarsi da quel giogo nei paesi occupati militarmente, dall'Afghanistan alla Palestina. (Piergiorgio Odifreddi, 2013)