Setember 2014. Green.

 

 

 

 

Per la distruzione della foresta pluviale,
si ringraziano i consumatori di tutto il mondo.

 

 

 

 

 


 

 

Sono accidentalmente incappato in questo filmato, e non ho potuto fare a meno di dedicargli "el mestée del mes". Green, l'orango femmina, che ti accompagnerà nei suoi ricordi immaginari, è una stilettata inferta alla nostra coscienza sempre più sopita, sempre più indifferente, sempre più colpevole. Non ci sono parole nel documentario, sarebbero superflue, solo immagini e suoni: le scene spaventose della distruzione della foresta pluviale indonesiana ed i lamenti degli oranghi, agonizzanti a terra per la mancanza di cibo e riparo, caricati in sacchi di stoffa e trasportati in piccole strutture dove qualcuno tenta di salvarli.
Si abbattono gli alberi, si brucia il terreno, si distruggono gli animali per creare coltivazioni intensive di palme da olio. La catena delle conseguenze è molto lunga, è vero: fra la morte di decine di migliaia di oranghi, il rischio di estinzione degli elefanti, la scomparsa delle tigri, la distruzione della bio diversità ed il nostro carrello della spesa, passano migliaia di chilometri, centinaia di lavoratori, mille trasformazioni e tante pubblicità.
Ma il collegamento c'è e Rouxel ce lo butta in faccia, senza mezze misure e solo con la forza delle immagini e di un montaggio che fa quello che dovrebbe davvero fare: raccontare una storia di una piantagione di palme da olio. L'olio di palma è il secondo olio vegetale per tonnellate prodotte nel mondo. E' presente nei dolci, nelle merendine confezionate, nei cosmetici e in quello che viene definito bio diesel ma che di bio non ha proprio niente, tanto che anche la United States Environmental Protection Agency (EPA) lo ha tolto dalla lista dei combustibili che possono essere definiti ecologici.
Anche l'industria della carta e del legno hanno il loro ruolo in questo documentario, perché è dalla cellulosa degli alberi abbattuti che si ottiene la nostra carta per le stampanti, per i giornali, per i cartelloni pubblicitari, per le confezioni dei prodotti che compriamo ed è sempre da quegli alberi che si ottengono alcuni dei più pregiati parquet delle nostre case.
L'Indonesia è lontana, ma non troppo. "Green" ha come merito, non solo quello di essere un bel documentario, ma anche di mettere in chiaro una delle accezioni più terribili del termine "globalizzazione": quello che sta accadendo in quella parte di mondo (e non solo) ci riguarda molto da vicino, perché, come scrive lo stesso Rouxel nei titoli di coda del documentario "per la distruzione della foresta pluviale si ringraziano i consumatori di tutto il mondo".
Con il filmato -per inciso vincitore di 20 awards in diversi festival specializzati-, ne "el mestée del mes", un paio di foto e un articolo-intervista di F.J.Smecker & D.Jensen riferibile al tema ma rapportato a una dimensione planetaria.

 

 

 

 

 

 

 


Non si può uccidere un pianeta e viverci sopra.


Mettiamo in luce la struttura della violenza che mantiene in attività l'economia mondiale. Con un intero pianeta che viene massacrato sotto ai nostri occhi, è terrificante vedere la cultura stessa responsabile di questo, la cultura della civiltà industriale, alimentata da una fonte finita di combustibili fossili, in primo luogo da una fornitura di petrolio in diminuzione, spinta in avanti solo per alimentare il suo insaziabile appetito di "crescita". Illusa da miti di progresso e sofferente di psicosi da tecnomania complicata da dipendenza da riserve di petrolio esauribili, la società industriale lascia al suo passaggio un crescendo di atrocità.
Un elenco molto parziale includerebbe il disastro chimico di Bhopal, numerose fuoriuscite di petrolio, l'occupazione illegale dell'Iraq a colpi di uranio impoverito, l'Afghanistan, il "montaintop removal" (rimozione delle cime delle montagna, tecnica di estrazione del carbone), la fusione nucleare di Fukushima, la rimozione permanente dei grandi pesci dagli oceani (senza menzionare completamente il collasso sistemico di quegli oceani), la sostituzione di comunità indigene con pozzi di petrolio, le miniere di coltan per i telefoni cellulari e le Playstation lungo il confine fra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda, dalle quali risultano le guerre tribali e la quasi estinzione del gorilla dei bassipiani orientali.
Come se l'estinzione di 200 specie al giorno non fosse abbastanza, il cambiamento climatico, un risultato diretto della combustione di combustibili fossili, sì è rivelato non solo imprevedibile quanto reale, ma distruttivo quanto imprevedibile. Le caratteristiche erratiche ed imprevedibili di un pianeta che cambia e della sua atmosfera in trasformazione stanno diventando la norma del ventunesimo secolo, il loro impatto accelera ad un ritmo allarmante, portando questo pianeta più vicino, prima o poi, al punto di inabitabile orrore. E ancora l'apatia collettiva, l'ignoranza e il negazionismo auto imposto di fronte a tutto questo sfruttamento ed alla violenza fa marciare questa cultura più vicino all'autodistruzione.
Persa nelle fantasie misteriosamente confortanti di crescita infinita, produzione e consumo, molta gente si attacca a cose come Facebook, Twitter, "Jersey Shore" e musica pop senz'anima come se la sua vita dipendesse da questo, identificandosi con una realtà che è artificiale e costruita, che asseconda il desiderio piuttosto che la necessità, che nasconde delicatamente la violenza che c'è dall'altro lato di questa economia, una violenza così diffusa che non solo siamo complici di ciò ad un certo livello (per esempio, se sei un contribuente, aiuti a dare sussidio alla fabbricazione di armi di distruzione di massa), ma anche vittime di ciò.
Come ammoniva Chris Hedges nei sui libri "L'Impero dell'illusione", "La fine dell'alfabetizzazione" e "Il trionfo dello spettacolo", ogni cultura che non sa distinguere la realtà dall'illusione ucciderà sé stessa. Inoltre, ogni cultura che non sa distinguere la realtà dell'illusione ucciderà ogni cosa e tutti gli altri sulla sua strada come ucciderà sé stessa. Mentre il mondo brucia, mentre le specie si estinguono, mentre le madri allattano i loro figli con latte materno contaminato da diossina, mentre reattori nucleari fondono giù nel Pacifico e la diffusione aerea dell'uranio esaurito danneggiano vite innocenti, rende perplessi il fatto che così poche persone combattano contro un sistema che come realtà per la maggior parte dei viventi ha l'orrore. E coloro che combattono, che si oppongono alla cultura che sta dietro a tale abuso grossolano e lo chiama col suo nome -un mega-stato genocida (specialmente se credi che le vite dei non umani siano importanti come la vostra lo è per voi e la mia lo è per me)- vengono trattati con ostilità e odio, scherniti, perseguitati e persino torturati.
Con così tanto in gioco, perché la gente non tappa le orecchie ai balordi che predicano un futuro di economie dalla crescita infinita? E perché così tanta gente continua a mettere al primo posto "l'economia", a prendere il capitalismo industriale per come lo conosciamo come dato di fatto e non combatterlo, difendendo ciò che rimane del mondo naturale?
"Una delle ragioni per cui non ci sono persone che lavorano per far crollare il sistema che sta uccidendo il pianeta è che le loro vite dipendono dal sistema", mi ha detto l'autore ed attivista ambientale Derrick Jensen dalla sua casa in California dove l'ho intervistato al telefono di recente. "Se la tua esperienza è che il tuo cibo viene dal negozio di alimentari e la tua acqua dal rubinetto, allora difenderai alla morte il sistema che ti porta quelle cose perché dipendi da loro", ha spiegato Jensen. "Se la tua esperienza è, tuttavia, che il tuo cibo viene da un terreno e la tua acqua da un ruscello, be', allora difenderai alla morte quel terreno e quel ruscello. Quindi, parte del problema è che siamo diventati così dipendenti da questo sistema che ci sfrutta e ci uccide che è diventato quasi impossibile per noi immaginare di viverne al di fuori ed è molto difficile per noi viverne fisicamente al di fuori."
"L'altro problema è quella paura che abbiamo di avere ancora qualcosa da perdere. Ciò che voglio dire con questo è che in realtà amo la mia vita adesso, così come molta gente. Abbiamo molto da perdere se questa cultura dovesse crollare. Una ragione primaria per la quale così tanti di noi non vogliono vincere questa guerra -o persino riconoscere che sia in corso- è che abbiamo dei benefici materiali dal saccheggio di questa guerra. Non sono davvero sicuro di quanti di noi rinuncerebbero alle nostre automobili e cellulari, docce calde e luce elettrica, ai nostri negozi di alimentari e vestiti. Ma la realtà è che il sistema che porta a queste cose, che porta agli avanzamenti tecnologici ed alla nostra identità come esseri civilizzati, ci sta uccidendo e, più importante, sta uccidendo il pianeta." Anche in assenza del riscaldamento globale, questa cultura ucciderebbe ancora il pianeta, facendo fuori branchi di balene e stormi di uccelli, facendo saltare le cime delle montagne per accedere agli strati di carbone e bauxite, eliminando interi ecosistemi.
Tutta questa violenza inflitta ad un intero pianeta per far funzionare un'economia basata sulla nozione folle ed immorale che possiamo sostenere le società industriali, il tutto mentre buttiamo la vita e gli ecosistemi del pianeta basati sulla terra. E la fantastica retorica che promulgano coloro che insistono sull'adattamento a questi cambiamenti -che la tecnologia troverà una soluzione, che ci possiamo adattare, che il pianeta può e si conformerà alle soluzioni nel mercato- è pericolosa.
"Un'altra parte del problema," mi ha detto Jensen, "sono le narrazioni che stanno dietro al modo di vivere di questa cultura. Le premesse di queste narrazioni ci accordano i diritti ed i privilegi esclusivi di dominio su questo pianeta. Che tu aderisca alla religione della Scienza o della Cristianità, queste narrazioni ci dicono che la nostra intelligenza e le nostre capacità ci permettono diritti e privilegi esclusivi di esercitare il nostro volere sul mondo, che è qui perché noi lo usiamo. Il problema di queste storie, che voi ci crediate o no, è che queste hanno effetti reali sul mondo fisico. Le storie che ci hanno raccontato sul mondo plasmano il modo in cui percepiamo il mondo plasma il modo in cui ci comportiamo nel mondo. Le storie del capitalismo industriale -che possiamo sostenere economie dalla crescita infinita- plasma il modo in cui questa cultura si comporta nel mondo. E questo comportamento sta uccidendo il pianeta.
Nel mondo reale non ci può essere una scissione fra cultura e natura, ma in questa cultura si può e questo ha affetti reali sul mondo fisico. Non si può vivere in un pianeta ed ucciderlo allo stesso tempo." Il problema si trova con un'economia di produzione industriale quando apri la parola "produzione". Come Jensen chiarisce nel suo libro "La cultura del far credere", la produzione è essenzialmente la conversione del vivente nel morto: animali in salumi, montagne e fiumi in lattine d'alluminio per la birra, alberi in carta igienica, petrolio in plastiche e computer (un computer contiene dieci volte la propria massa in combustibili fossili).
Stare senza carta non è essere verdi, o forse sì, a seconda di quale sfumatura di verde stiamo parlando qui. Di fondo, ogni bene col quale si viene in contatto è imbevuto di petrolio, fatto di risorse, contrassegnato, per come la mette Jensen, dalla trasformazione del vivente in morto: la produzione industriale. E con conflitti e guerre siamo condotti o istigati da questa cultura ad accedere (rubare) le risorse necessarie per alimentare la colossale macchina di questa economia, questa cultura liquida, massacrando intere comunità di persone non industrializzate... i vecchi, i bambini che si attaccano alle loro madri mentre droni cacciano spettatori barcollanti... l'innocente ed il vulnerabile riportato come "danno collaterale.
Questo è un prezzo accettabile che dobbiamo pagare, così ci viene detto. Negli Stati Uniti vengono perdute più vite settimanalmente a causa di cancri evitabili ed altre malattie di quante se ne perdano in 10 anni di attacchi terroristici. E le multinazionali per le quali questa cultura combatte dall'altra parte dell'oceano, sono le stesse organizzazioni imputabili di queste morti interne settimanali. La lista di vittime le cui vite sono soggette ad assalti violenti ed estinzioni per alimentare la "produzione" di questa cultura è lunga e variegata quanto volete.
"Un'economia di crescita infinita non è solo folle ed impossibile" -ha sottolineato Jensen- è anche ingiuriosa, con questo intendo che è basata sulla stessa presunzione di forme di abuso più personali. Di fatto è la consacrazione macroeconomica del comportamento di abuso. Il principio guida del comportamento di abuso è che chi abusa rifiuta di rispettare o di conformarsi a limiti o confini messi dalle vittime. Le economie della crescita sono essenzialmente incontrollate e spingeranno oltre ogni confine posto da nessun altro che non siano i perpetratori.
E chi abusa con successo si assicurerà sempre che ci sia qualche 'beneficio' per la vittima, in questo caso, per esempio possiamo guardare la TV, possiamo avere il computer e l'accesso per giocare online - otteniamo 'benefici' che ci tengono sostanzialmente allineati. "Inoltre, secondo le storie del capitalismo industriale, questo sistema economico deve costantemente aumentare la produzione per crescere e cos'è, dopotutto, la produzione? Di fatto è la conversione del vivente nel morto, la conversione di foreste viventi in "two-by-four" (tipo di taglio di legname), fiumi viventi in bacini stagnanti per generare elettricità, pesce vivente in bastoncini di pesce ed infine tutto questo in soldi. E cos'è in realtà il PIL? E' una misura di questa conversione del vivente in morto. Più rapidamente il mondo vivente viene convertito in prodotti morti, più alto è il PIL. E queste semplici equazioni sono complicate dal fatto che quando il PIL scende, spesso la gente perde il lavoro. Non c'è da meravigliarsi che il mondo venga ucciso."
"E se prendessimo qui in considerazione il riscaldamento globale - ah e io credo l'ultimo studio sul riscaldamento globale abbia menzionato fra le righe del fatto che il pianeta sia sulla strada per riscaldarsi fino a 29 gradi (Fahrenheit) nei prossimi 80 anni... se questo non venisse immediatamente ridotto, nessuno sopravviverà a questo... E così tutte le cosiddette soluzioni al riscaldamento globale danno il capitalismo industriale per scontate. Qui vediamo lo stesso comportamento di abuso: le narrazioni non vengono create intorno alla percezione dei perpetratori, per esempio chi ha il potere, ma vengono spinte su di noi da loro, quindi noi arriviamo a credere alle narrazioni e le accettiamo come dati di fatto. E, essenzialmente, dare per scontato il capitalismo industriale quando si tratta di soluzioni al riscaldamento globale è assolutamente assurdo e folle. Non è in contatto con la realtà fisica. Inoltre ha effetti disastrosi sulla realtà fisica. Se spingi un pianeta a conformarsi ad una ideologia si ottiene quello che si ottiene.
"Poco prima ho avuto una conversazione con un anarchico che si lamentava del fatto che fossi "troppo ideologico" e che la mia ideologia fosse 'la salute della Terra'. Be', in realtà la Terra non è e non potrà mai essere un'ideologia: La Terra è fisica. E' reale. Ed è fondamentale. Senza suolo non c'è terreno sano e senza terreno sano non mangi, muori. Senza acqua potabile e pulita muori." E questo è uno dei problemi della nostra cultura: la mancanza di capacità di separare ideologia -il tipo di ideologia che contiene il massimo piacere e dominio- dai bisogni del mondo naturale. E così, se le soluzioni al riscaldamento globale non affrontano immediatamente i bisogni fondamentali del pianeta, beh... siamo fottuti.
"Ci si dovrebbe chiedere," ha insistito Jensen, "se gli squali martello potessero fornire delle soluzioni, se gli indigeni potessero fornire soluzioni e se ascoltassimo le soluzioni che stanno già fornendo, queste soluzioni darebbero per scontato il capitalismo industriale? La linea di fondo è che le soluzioni capitaliste al riscaldamento globale provengono dai sostenitori del capitalismo, da coloro che sono in carica e che sono responsabili di averci sfruttato e distrutto e, più importante, il pianeta".
Negli anni 40, in Germania, i "camion a gas" di Arthur Nebe erano ampiamente in uso. Coloro che li guidavano non hanno mai pensato a sé stessi come degli assassini, solo come ad uno qualsiasi pagato per guidare un camion, per fare un lavoro. Oggi, coloro che lavorano per Boeing, Ratheon, Weyerhaeuser, Exxon Mobil, BP, il Pentagono... si vedranno sempre come impiegati, non assassini. Vedranno sempre sé stessi come qualcuno che fa un lavoro che dev'essere fatto.
Quei membri di questa cultura che ciecamente seguono senza interrogarsi le narrazioni della cultura, che si identificano con la patologia di questa cultura, si vedranno sempre solo come altri membri della società. Per questa gente, l'assassinio di un pianeta sembra economico; sembra normale dopo essere stati spinti fuori dalla consapevolezza da carriere, stili e mode. Potrebbe sentirsi come un niente assoluto dopo essere stata stordita da radio commerciali, sitcom, smart phone, video game... Ma dall'altro lato di queste scintillanti distrazioni c'è un'incessante serie di violenze, povertà, degrado ambientale.
"L'altro giorno ho visto quell'adesivo per auto della destra che dice 'Potrai avere la mia pistola quando la prenderai dalle mie mani morte e fredde', ma non sono solo le pistole: dovremo staccare artigli rigidi da volanti, flaconi di spray per capelli, telecomandi di televisori e da bottiglie da due litri di Jolt Cola," ha ammonito Jensen. "Ognuna di queste cose individualmente e tutte collettivamente sono più importanti per molta gente delle lamprede, dei salmoni, dei gufi maculati, degli storioni, delle tigri e delle nostre stesse vite. E questa è una parte enorme del problema. Quindi, naturalmente, non vogliamo vincere. Perderemmo la nostra TV via cavo. Ma io voglio vincere. Col mondo che viene ucciso, io voglio vincere e farò qualsiasi cosa serva per vincere."
Oggi, 200 specie si sono estinte, un'altra comunità indigena scomparirà da questo pianeta per sempre, un'intera foresta sarà abbattuta e milioni di vite umane saranno costrette a sopportare le agonie di carestia, guerra, malattia, sete, della perdita della loro terra, della loro comunità, del loro stile di vita. Le persone che si sono fatte avanti per dire che ciò che questa cultura sta facendo al pianeta è sbagliato, non sono abbastanza. Bene, eccoci gente: ciò che questa cultura sta facendo a noi stessi, quello che sta facendo al pianeta è sbagliato. Dannatamente sbagliato. E prima sostituiremo questa economia, prima potremo dissolvere queste illusioni tossiche e le loro narrazioni formative. Solo allora, potremo cominciare a vivere vivere le vite libere che siamo nati per vivere e vincere la battaglia. (F.J.Smecker, 2011)