November 2014. Megatransect.

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo il reportage di esplorazione narrato nel "mestée del mes de febrar", ecco che dall'Amazzonia peruviana balziamo piè pari con "november" nella foresta pluviale congo(Congo Brazzaville)-gabonese per un trek incredibile. Testo, mappa, qualche foto, ma soprattutto il video dell'evento.

 

 

 

 

 

 

 


Alle 12.39 del 18 dicembre 2000, J. Michael Fay e la sua squadra sbucano fuori dalla foresta e calcano la riva dell'Oceano Atlantico. "Wow", dice Fay. "Wow". Poi, con l'aria più naturale del mondo, aggiunge: "Ecco, è proprio qui che volevo arrivare ". È il 456esimo giorno di Megatransect: un percorso di 3200 chilometri a piedi, un' esplorazione di proporzioni storiche."

 

 

 

 

 

 

 


In fila dietro di loro marciano altri nove pigmei, carichi di provviste e di attrezzature stipate nei borsoni impermeabili. Inoltre, la brigata è composta da un cuoco, un responsabile dell'accampamento, diversi assistenti, Michael "Nick" Nichols con le sue macchine fotografiche, e il sottoscritto. Fay ha scelto il percorso con grande cura. Si tratta di attraversare a piedi il cuore incontaminato dell' Africa centrale: 2000 chilometri tra foreste tropicali e paludi, dal Congo nordorientale sino alla costa del Gabon. Per farlo, impiegherà almeno un anno. Lungo il cammino, verrà rifornito di provviste paracadutate dagli aerei; all'occorrenza un telefono satellitare lo metterà in contatto col mondo; riposerà se necessario, ma l'intenzione è di compiere il tragitto in un unico viaggio, senza interruzioni. Attraverserà un tratto settentrionale del bacino del fiume Congo, risalirà uno spartiacque per poi discendere lungo un altro importante bacino fluviale, l'Ogooué.
Ogni grande impresa ha bisogno di un nome, perciò Fay ha battezzato la sua "Megatransect": "mega" per le spropositate dimensioni, mentre transect, transetto, è il termine utilizzato dai biologi per indicare una linea, di solito retta, lungo la quale il ricercatore si sposta per rilevare la presenza di specie animali e vegetali, e censirne i popolamenti su base statistica. Quel parolone, "Megatransect", ha fatto storcere un po' il naso agli addetti ai lavori, che l'hanno preso tutt'al più come una boutade. Ma benché Fay sia un tipo dalla battuta facile, stavolta i motti di spirito sono fuori luogo. Dietro l'apparente follia dell'avventura si cela un'impresa grandiosa e importante: tracciare, in base a una serie di osservazioni, di calcoli e di misurazioni, il profilo delle grandi foreste dell' Africa centrale, prima che esse soccombano, con la loro magnificenza, all'inesorabile voracità dell'uomo.
E adesso via con le misurazioni. Yves Constant Madzou, un giovane e brillante congolese dell'équipe, si ferma in testa al sentiero, e lega il capo di una funicella a un piccolo albero. Mi fermo accanto a lui, incuriosito. In gergo la funicella è detta "topofilo". L'altro capo è avvolto attorno a un rocchetto conico, racchiuso in un Fieldranger 6500, che è uno strumento usato dai forestali per misurare le distanze percorse a piedi. Il filo scorre alle spalle di chi cammina, mentre il Fieldranger calcola i metri percorsi, all'incirca come un odometro conta i chilometri percorsi da un'automobile. Ogni rocchetto basta a misurare una distanza di sei chilometri. Madzou ne ha con sé una mezza dozzina, ma ve n'è un'infinità di scorta. A fine giornata, esaurito il compito, il filo scompare, inghiottito dalle termiti e da altre creature della giungla. Questo sistema, semplice come il metodo di Pollicino, ha un margine d'errore di 30 centimetri al massimo: un'accuratezza superiore a quella garantita dal Gps (sistema di posizionamento globale) e dalle carte topografiche.
Mi balena un pensiero impertinente: se la spedizione di Fay porta a compimento il progetto, ruzzoleranno nella giungla 2000 chilometri di filo. Quella funicella mi pare il simbolo dei tanti ossimori riassunti in questa spedizione: alta e bassa tecnologia, maestose ambizioni e microscopici esemplari, folle audacia e gelidi calcoli, potenza e fragilità, il trionfo della natura selvaggia e i piccoli frammenti decidui di filo. Lungo la via, Fay raccoglie dati di vario genere e con vari strumenti, fra cui una videocamera digitale, un registratore digitale, una macchina fotografica anch'essa digitale, un Gps, un termoigrometro, un computer portatile, un compasso per tracciare digitale, una lente d'ingrandimento (per sbirciare minuscoli campioni), un block notes e una matita. E, naturalmente, il top o filo.
Siamo partiti da meno di un' ora quando, percorrendo la riva di un torrente, sprofondiamo nel fango sino ai polpacci. "Ancora un po', e qui sarà tutta palude", si rallegra Fay. Il biologo è in tenuta da giungla, a modo suo: sandali di gomma, calzoncini, T-shirt leggera, sintetica, di quelle che si possono sciacquare ogni sera e rinfilare l'indomani, e il giorno dopo ancora, e poi tutti i giorni finché si disintegra. Meglio i sandali rispetto alle scarpe da ginnastica o agli stivali di gomma perché, dice Fay, il terreno della foresta nel Congo nordorientale è piatto e fangoso, e i tratti di terra dura sono intervallati da affioramenti d'acqua coperti di foglie e rigagnoli d'acqua scura, ognuno in genere contornato da paludi. Il viaggiatore deciso a seguire una linea retta, stabilita dalla bussola, è spesso costretto a muoversi affondando in poltiglie melmose; a guadare, immerso sino alla vita, corsi d'acqua torbida che scorrono dolcemente su un fondo di sabbia bianca, e a risalirne le sponde sguazzando un'altra volta in mezzo al fango, per poi strizzare i vestiti e riprendere il cammino.
Serve la risolutezza di Fay per arrivare in certi posti, altrimenti irraggiungibili ai viaggiatori che s'avventurano in perfetto stile safari. Fay sfodera il suo taccuino impermeabile giallo. Annota un dato: feci d'elefante, fresche. Farfalle papilionidi azzurre e nere guizzano nei raggi di sole che penetrano la volta arborea. Prende nota di alcuni frutti caduti da una Vitex grandifolia. Botanico di formazione, prima di dedicarsi al dottorato di ricerca sui gorilla di pianura, Fay padroneggia in modo superlativo la varietà di piante da cui dipende la sopravvivenza dei grandi mammiferi. Sembra conoscere ogni albero, ogni rampicante, ogni erba. Sa tutto sulle abitudini alimentari dell'elefante di foresta (Loxodonta africana cyclotis, la sottospecie più piccola dell' elefante africano che si è adattata ai boschi e alle umide radure del bacino del Congo), e sui cicli vitali delle piante che producono i suoi frutti preferiti. Dall'esame delle feci filamentose è in grado di dire se uno scimpanzé ha mangiato o no un certo frutto ricco di lattice. Sa identificare un albero di dubbia classificazione odorandone l'interno della corteccia. Vede la foresta sia nei particolari, sia nel suo insieme. Ma ecco che si china pensieroso su un escremento di una civetta zibetto. E scarabocchia un appunto sul quaderno.
"Uhm! Ci sarà proprio da divertirsi", dice, poi riprende il cammino. Mike Fay non è certo il primo di uno stuolo di bianchi piuttosto eccentrici decisi ad attraversare a piedi il bacino del Congo. Anzi, è buon ultimo in una grande tradizione che, nell'epoca vittoriana, annoverò esploratori del calibro di David Livingstone, di Verney Lovett Cameron, di Savorgnan de Brazza e Henry Morton Stanley. Alla stregua di Stanley e di certi altri, Fay ha una predisposizione naturale al comando, un carisma personale, e quella conoscenza pratica della psicologia che gli consentono di spronare i suoi uomini nelle circostanze più difficili. Nato nel New Jersey, cresciuto facendo la spola con la California, Fay ha ormai trapiantato definitivamente le proprie radici. "Voglio morire qui", dice indicando le foreste dell'Africa centrale. "Non tornerò mai a vivere negli Stati Uniti". Quel che invece lo distingue dagli esaltati, seppur leggendari, esploratori vittoriani è che egli non viaggia al servizio di Dio o dell'Impero, né tantomeno per arricchire i forzieri del re del Belgio.
Fra i suoi sostenitori, è vero, figurano in primo luogo la Wildlife Conservation Society (Wcs) di New York, per cui lavora sul campo, e la National Geographic Society. Ma la prima molla è il suo impegno privato per la tutela dell'ambiente. L'obiettivo più immediato è raccogliere una quantità smisurata di informazioni -di diversa natura e però concatenate fra loro- sulla ricchezza biologica degli ecosistemi che egli attraverserà, e valutare allo stesso tempo la presenza e l'impatto dell'uomo su questi ambienti. Fay compilerà interi quaderni, rilevando sul campo l'abbondanza di feci d'elefante, tracce di leopardi, nidi di scimpanzé e alberi secolari. Registrerà i canti degli uccelli, per permettere in seguito agli esperti di identificarli. Archivierà le letture della longitudine e della latitudine (eseguite automaticamente ogni 20 secondi durante i suoi spostamenti), ricavate con precisione grazie al Gps Garmin e all'antenna assicurata col nastro catramato all'interno del suo cappello. Individuerà la presenza dei gorilla dall'odore e dagli steli masticati di fresco di Haumania danckelmaniana, una bitorzoluta pianta monocotiledone che gli animali sgranocchiano come il sedano. Tutti questi dati, alla fine, confluiranno, ordinati, in un archivio di dimensioni e complessità finora senza precedenti, allo scopo ultimo di far gestire saggiamente queste risorse dai manager e dai politici che decideranno il destino dell'ambiente in Africa.
"Non è un'operazione scientifica", acconsentiva Fay prima della partenza. Neppure, però, una trovata pubblicitaria, ribatteva respingendo l'accusa che gli è stata mossa. Il suo proposito, spiegava, è: "quantificare una passeggiata nei boschi". C'è, poi, una seconda molla altrettanto irresistibile. Lui non lo ammette apertamente, perciò lo farò io al suo posto: Mike Fay è uno di quegli uomini che non si riesce a domare, con una passione incorreggibile per le terre selvagge. E tuttavia compiere la traversata di 2000 chilometri non sarà facile, nemmeno per lui. Dovrà affrontare una quantità di rischi, che potrebbero costringerlo a fermarsi: terribili malattie, bracconieri armati, guerre civili. Fay sa bene cosa siano la malaria e la filariosi; è consapevole del virus Ebola, e ha scoperto suo malgrado d'esser soggetto al "verme del piede": un parassita che dallo sterco d'elefante può infilarsi nei piedi dell'uomo, scavarsi un passaggio nelle dita per poi morirvi, procurando infezione. Ma la sfida più impegnativa lo aspetta alla fine: riuscirà a sostenere l'utilità di quella raccolta enciclopedica di dati? Riuscirà, nella pratica, a tradurre la sua omerica impresa in una tutela reale delle foreste africane?
Dopo un paio di chilometri, con un gesto imperioso della mano, Fay fa segno di fermarsi. Restiamo immobili, senza fiatare, quand'ecco che compare un giovane elefante maschio, che viene dritto verso di noi. Ndokanda, prudente, scivola in coda alla fila: sa bene infatti che un elefante di foresta, miope e irritabile com'è, è di gran lunga più pericoloso, per dire, di un leopardo. Fay imbraccia la videocamera. Il pachiderma, che non riesce ancora a distinguerci né a sentire il nostro odore poiché siamo sottovento, continua ad avanzare. Il video registra, in silenzio. Quando è a soli cinque metri da Fay, e a circa dieci da noi (troppo vicino per i nostri gusti), Fay, tranquillo, gli fa: "Hello, ciao!". L'elefante si spaventa, si gira di botto e, a coda ritta, si volatilizza. Lunghezza delle zanne, 40 centimetri circa, recita Fay. Età, dieci o dodici anni, indovina. E appunta tutto nel quaderno. Fay è un quarantatreenne robusto, col mento aguzzo e il naso affilato. Dietro le lenti tonde e affumicate della montatura di metallo, assomiglia maledettamente a Roman Polanski da giovane. Ti scappa una sciocchezza o una parola sgradevole, e lui ti fissa in silenzio come un airone, affamato o no, che guata un pesce. In cammino però è di buona compagnia, arguto di spirito e generoso d'intelletto. Imprime alla marcia un ritmo impietoso: si parte allo spuntar del giorno e non ci si ferma mai, né per mangiare né per riposare, tranne se ha qualcosa da annotare sul suo quaderno giallo. Il che, grazie al cielo, accade spesso.
Lasciamo il campo appena dopo l'alba, il terzo giorno, e seguiamo il corso del fiume Mopo lungo una rete di piste di elefanti. Adesso siamo in meno, visto che Nick Nichols se n'è andato con l'assistente a fotografare dei gruppi di pigmei Bambendjellé; starà via per qualche settimana. Mi avvio assieme a Fay e Madzou mentre la squadra fa colazione, il che ci consente di osservare la foresta nella quiete. All'inizio camminiamo senza problemi, protetti dall'alta volta degli alberi Gilbertiodendron dewevrei: il sottobosco è rado e appiattito dal calpestio degli elefanti, come spesso avviene nei luoghi dove c'è una predominanza di G. dewevrei, altrimenti detti bemba dai pigmei. Poi, discostandosi dal fiume, verso i terreni più elevati, il bemba lascia il posto a una foresta più eterogenea. Gli squarci nella volta arborea danno luce a un chiassoso sottobosco di arbusti, arboscelli, rampicanti, monocotiledoni spinose e liane, che ci costringe ad arrancare a testa bassa dietro all'apripista di turno. Le zone più fitte di questa vegetazione colonizzatrice per i pigmei si chiamano kaka: una coincidenza casuale, ma calzante, col vocabolo popolare e scatologico in uso in altre lingue. Insomma, quel che è kaka agli occhi di un pigmeo, è "una fottutissima foresta di m .. ": per voi e per me.
Oggi spetta a Bakembe, più giovane e robusto di Ndokanda, il compito di aprirci un varco attraverso il kaka. Di tutte le piante spinose, la più diabolica in assoluto è Haumania danckelmaniana, già citata come leccornia molto ricercata dai gorilla. È un vero supplizio per chi va nel sotto bosco: aggrovigliandosi su se stessa e sulle altre piante rende impenetrabile il kaka e, malgrado le mille attenzioni, trova il modo di escoriarti le caviglie e le dita dei piedi. Anche un esperto del Congo come Fay cammina con gli occhi incollati a terra, attento a ogni passo, per contenere il martirio dei piedi. Del resto, Fay andrebbe a occhi bassi comunque, perché è lì a terra che si trova la gran parte dei dati: escrementi, impronte, graffi lasciati sui tronchi degli alberi per marcare il territorio, steli masticati, tracce a serpentina disegnate dal muso dei potamoceri che grufolano tra le foglie, tane di pangolino e di oritteropo, foglie e frutti caduti.
Il Gps di Fay ci informa dove siamo; con la sua carta e le nostre bussole, invece, stabiliamo la direzione da seguire. In queste terre non si vedono sentieri tracciati dall'uomo: i pigmei che frequentano la foresta lasciano pochi segni del proprio passaggio. Fay si ferma a osservare un mucchietto di feci di gorilla, in cui distingue semi di Maranthes glabra: un indizio di quel che l'animale ha mangiato di recente. Più avanti, trova una buca scavata da un elefante evidentemente alla ricerca di sali minerali; e ancora più in là, ecco un'impronta di cefalofo dei boschi, una delle più grosse antilopi della foresta. Le osservazioni finiscono tutte nel quaderno, assieme alla data e all' ora esatta del rilevamento; il dato verrà, a sua volta, messo in rapporto con le coordinate lette sul Gps, cioè con la latitudine e con la longitudine, e con un margine di errore fino a trenta metri. Perciò, negli
anni a venire, basterà interrogare la macchinosissima banca dati di Fay per determinare l'esatta posizione spazio-temporale di questa montagnola di escrementi di gorilla.
(...)
Superato il Mopo, ci avviciniamo di soppiatto a un gruppo di gorilla che mangiano placidi in un bai, una radura paludosa in mezzo alla foresta. Ci accostiamo a una trentina di metri da una femmina, che si aggira beata fra steli di Hydrocharis. Ha un faccione allungato e tranquillo, gli occhi scuri nascosti sotto la fronte sporgente. Il pelo in testa è rosso fiammante: un carattere piuttosto frequente tra i gorilla adulti di pianura. Ha braccia enormi, mani grosse e delicate. Fay sta sgattaiolando lungo il perimetro del bai quand'ecco che la femmina, sollevato il capo, gli punta addosso gli occhi: l'intensità di quello sguardo pare zittire la foresta. Per un po' ha l'aria perplessa, guardinga, minacciosamente severa. Poi riprende a mangiare. Fay cattura la scena col teleobiettivo. In seguito mi confida che in quella manciata di secondi, mentre la femmina lo squadrava, lui non riusciva più a muovere neanche un muscolo: era rimasto lì fermo, immobile, senza osare né un passo né un gesto, benché una mosca tse-tse nel frattempo gli succhiasse il sangue da un piede. È evidente che la video camera sta diventando uno dei suoi strumenti preferiti: Fay può annotare le sue osservazioni sulla pista sonora, e memorizzare data e ora. Perciò si scatena: riprende gli alberi più imponenti, con un pigmeo in posa tra le radici tabulari per rendere le dimensioni. Filma varani e grandi ragni sconosciuti. Fissa l'obiettivo, sa il cielo perché, anche sul sottoscritto che arranca immerso per metà nel fango.
Ogni tanto fa una panoramica lenta a 360 gradi per mostrare la struttura avvolgente di un tratto di foresta. E quando lo avviso che gli si è attaccata una sanguisuga a una ferita della caviglia, riprende anche quella. Poi mi passa la videocamera, per farmi immortalare Madzou mentre abbrustolisce il molesto parassita con la fiamma dell'accendino. A mezzogiorno Fay ispeziona un altro monticello di sterco fresco d'elefante; c'infila dentro un dito. Chissà cosa prevedeva il menù del pachiderma. Via via che ne estrae semi di varia forma e grandezza, e li mette da parte, recita una sfilza di nomi scientifici: "Panda oleosa, Tridesmostemon omphalocarpoides, Antrocaryon klaineanum, Duboscia macrocarpa, Tetrapleura tetraptera, Drypetes gossweileri, e questo affarino cos'è? Non ricordo, aspetta... ma certo, è Treculia africana".
E mentre mi accovaccio accanto a lui per appuntarmi tutti quei nomi, mi fa: "A proposito, è proprio così che si prende il verme del piede: standosene nelle feci di elefante". Ci accampiamo sulla sponda di un affluente del Mopo. I pigmei tirano su un bastone per reggere il telone impermeabile principale, e piazzano davanti al fuoco un tronco per farci accomodare. Secondo il topofilo, così ci dice Madzou, oggi abbiamo percorso 10.186 metri. Marcia breve, ma proficua. Dopo il tramonto, però, sentiamo uno strano rumore, una ventata violenta che cresce, misteriosa, sempre più intensa. Caspita, è un elefante che carica l'accampamento: un treno merci provvisto di zanne che ci sta piombando addosso. Mentre i pigmei schizzano di lato per mettersi in salvo, dal fuoco si sprigiona una pioggia di scintille, come se ci avessero gettato dentro dei fuochi d'artificio. Poi, di colpo com'è apparso, l'animale svanisce. Nessun ferito, per fortuna. La cena è servita, e l'irruzione del pachiderma in cucina viene presto dimenticata: una distrazione di poco conto per concludere nel più classico dei modi una tipica giornata della spedizione Megatransect...
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Eccoci qui, infatti, il pomeriggio del quinto giorno di marcia, a varcare i confini del Parco nazionale Nouabalé-Ndoki. Attraversiamo il fiume Ndoki su canoe scavate nei tronchi, prese in prestito al piccolo imbarcadero del parco, poi risaliamo a forza di remi un profondo canale d'acqua nera fra distese ondeggianti di erba Leersia, infine proseguiamo a piedi. Un'ora prima del tramonto scoppia un temporale spaventoso: la pista s'allaga e diventa un torrente color cemento. Due giorni dopo, costeggiamo il perimetro di Mòeli Bai, un'ampia radura molto frequentata da elefanti e gorilla.
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Nel pomeriggio ci attardiamo con un gruppo d'incauti scimpanzé, venuti a raccogliersi accanto a noi. È un' esperienza davvero inconsueta, visto che gli scimpanzé dell'Africa centrale hanno in genere terrore degli esseri umani, da cui vengono cacciati e mangiati. Eppure questi se ne stanno appollaiati, con gran baldanza, sugli alberi proprio sopra di noi: gridano e farfugliano, tutti eccitati; ci rovesciano addosso docce di urina, prive di malizia ma dall'odore pungente; si grattano, tubano, e ci studiano incuriositi. Protetti come sono dalle foreste inesplorate, probabilmente non hanno mai visto prima d'ora l'uomo, e perciò non ne hanno timore. Dave Morgan, un giovane ricercatore di scimpanzé che ci accompagna in questo tratto di viaggio, calcola 11 individui. È un incontro magico, irripetibile, sia per noi che per loro. Ma dopo un paio d'ore assieme agli scimpanzé riprendiamo il cammino, col primo crepuscolo che ci sorprende ancora lontani da un posto adatto dove accamparci. Non vogliamo trascorrere una notte senz'acqua, perciò procediamo tentoni nel buio, sistemandoci le lampade frontali, aprendoci la strada attraverso il kaka. Finalmente sbuchiamo in un'area umida, neppure pianeggiante, vicino a un rigagnolo fangoso: Fay annuncia che fa al caso nostro. li mattino dopo, di buon'ora, sentiamo di nuovo gli scimpanzé, che strepitano vicino al campo.
Con ogni probabilità è lo stesso gruppo di ieri, che ci ha seguiti e ha trascorso la notte nei paraggi. Quel senso di mistero, di comunione quasi soprannaturale, non fa che aumentare quando, l'ottavo giorno di viaggio, entriamo nel Triangolo di Goualougo. Alle 4.15 del mattino, già sveglio nella tenda, mi preparo ad affrontare il percorso della giornata. L'operazione consiste nell'applicare nastro catramato sulle ferite e sulle escoriazioni delle dita dei piedi, dei calcagni e delle caviglie. Viaggiare alla maniera di Mike Fay sottopone i piedi a dura prova. Non tanto per la distanza del percorso, quanto per il modo e per i luoghi in cui si cammina. Ormai, dopo una settimana a seguire Fay attraverso paludi e fiumiciattoli, mi sono convertito alla sua dottrina sull'abito più acconcio da adottare nella foresta: sandali di gomma, calzoncini e un'unica maglietta da sciacquare e asciugare in continuazione. Resta però irrisolto il problema dei piedi, di come curarli: un po' perché sono piagati dai tagli, le contusioni e le ferite inesorabilmente inferti dai fusti spinosi di H.danckelmaniana, e un po' perché il fango sabbioso delle paludi congolesi provoca lo stesso effetto di un paio di calzini di carta vetrata: nei punti in cui le fasce del sandalo sono a contatto con la pelle, si produce un'escoriazione. Così ho preso l'abitudine di spennellarmi i piedi con la tintura di iodio, mattina e sera, e di fasciarli col nastro catramato per coprire le vecchie ferite, ed evitarne altre. È una roba che tiene a meraviglia, anche se si arranca il giorno intero per le paludi. Inutile dire che, le prime sere, tirar via lo strato di nastro non è stato affatto piacevole; ma tutto diventa più facile quando, col tempo, sui piedi non restano più peli. Oltre a un rotolo di normale nastro argentato, ne ho un altro più piccolo, verde, meno rigido del primo, e mi diverto a combinare i colori: croci verdi in cima al piede e sul tallone, argento sulle dita. Potrei lanciare una nuova moda. Se le mie scorte di tintura di iodio e di nastro adesivo durano per un' altra settimana, e se regge anche il mio equilibrio mentale, allora sono a posto.
Delimitato da un lato dal fiume Goualougo, e dall'altro dal fiume Ndoki, il Triangolo di Goualougo è un'area a forma di cuneo che si allunga verso sud dal confine meridionale del Parco nazionale Nouabalé-Ndoki. Ciò significa che, dal punto di vista ecologico, il Triangolo è una continuazione del parco, benché non ne faccia parte legalmente; e che è isolato, rispetto al mondo esterno, dal corso dei due fiumi. Il Triangolo abbraccia all'incirca 363 chilometri di foresta primaria e di palude, e racchiude, fra l'altro, un ottimo habitat per gli scimpanzé, un dedalo di piste di elefanti, e una quantità incalcolabile di grandi alberi di sapele. Tutto ciò tuttavia cade in un' area data in concessione alla Congolaise Industrielle des Bois (Cib), la più grande impresa di legname rimasta a tutt' oggi nel Congo nordorientale. Fra le due segherie, il cantiere navale, l'ospedale e le squadre di taglialegna, la Cib dà lavoro a circa 1200 persone, soprattutto nei centri di Kabo e Pokola, lungo il fiume Sangha. Malgrado l'azienda abbia mostrato una certa disponibilità a collaborare con la Wildlife Conservation Society (Wcs) per gestire una zona periferica a Sud del parco (in particolare, controllando il commercio delle carni di scimmia e di gorilla), le sorti del Triangolo di Goualougo suscitano preoccupazione e attenzione sempre maggiori. Fay, in un primo tempo, sperava di far includere nel parco anche queste terre così preziose; quando però vennero delineati i confini, nel '93, il Goualougo restò fuori.
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A passeggio con Fay nel Triangolo, il percorso si trasforma in un seminario itinerante di botanica forestale, con lui che ci interroga su questa o su quell' altra pianta. Ecco un Entandrophragma utile, appena più costoso sul mercato ma ben più raro del suo stretto parente, Entandrophragma cylindricum. I suoi frutti ricordano le patate dolci, ma nerastre e adornate da piccole radici filamentose, e non vanno confusi col frutto a forma di banana di un'altra specie di Entandrophragma, la candollei. Ed ecco un'altra specie ancora: Entandrophragma angolense. Ai miei occhi, è ovvio, sono soltanto tronchi colossali di nove metri di circonferenza, che si lanciano verso il cielo e le cui chiome si perdono nella volta arborea, tanto che non riesco neppure a distinguerne la forma delle foglie.
Il giovane ricercatore Morgan e il pigmeo Madzou sono allievi scrupolosi; Fay è un insegnante severo ma efficace: alterna stilettate e generosità, e non si stanca mai di attingere alla sua riserva inesauribile di scienza, all'amore per l'architettura vivente della foresta. Richiama l'attenzione di Morgan sulla corteccia di Gambeya lacourtiana, fine, segnata da solchi, eppure compatta; non va scambiato però per quella di Combretodendron macrocarpum, che ha solchi più sottili, e a sua volta è diversa da ... una bella catasta di legna che aspetta di essere spedita da Kabo. La buona notizia del giorno è che non abbiamo trovato alcun prezioso albero di P. elata (il caviale di cui sopra), almeno lungo questa linea di marcia attraverso il Goualougo; quella cattiva, invece, è proprio l'abbondanza di varie specie di Entandrophragma, il "pane e burro" della Cib.
Lasciamo il triangolo e rientriamo nel parco, risalendo e guadando il corso del fiume Goualougo. È l'undicesimo giorno di cammino. La sera, ci sistemiamo accanto a una piccola piscina naturale: una pozza dal fondo sabbioso, profonda circa mezzo metro. È un paradiso. Metto per un po' i piedi in ammollo, poi stacco il nastro catramato: che deliziosa sensazione di sollievo. Pulisco i piedi con cura, il resto del corpo più sommariamente e, approfittando del lusso di un' acqua profonda e pulita, mi lavo anche i capelli. Sciacquo i calzoncini e la maglietta, li strizzo e li rimetto addosso. Tutto sommato è stata una bella giornata, ravvivata da un altro incontro con uno spavaldo gruppo di scimpanzé. Per cena, fufu: un pastone a base di farina di manioca, condito con una specie di salsa. Come dessert, ci spetta forse una manciata di albicocche secche. E poi, una notte di sonno beato sulla nuda terra; poi ancora, si ricomincia col nastro catramato, e poi di nuovo, si riparte per un altro giorno di cammino. Adesso che ho preso lo stesso ritmo di Fay, capisco la sua passione per questa foresta perfida, spietata.
Seduto davanti al fuoco, Fay applica sui piedi straziati una pomata antisettica. Gli sono penetrati nelle dita i parassiti, e sono morti dentro, magari incavolati quando si sono accorti che non era un elefante ... Spalmandola, la pomata si mescola a schizzi di fango, e diventa una gelatina untuosa e grigia. No, afferma Fay, quaggiù non si scappa a questa tortura. Bisogna badare bene ai piedi e cercare di evitare le infezioni: non c'è altro da fare. Se non ne puoi più dal dolore, ti fermi per qualche giorno: te ne stai coi piedi in alto, li fai riposare, e aspetti, finché si rimarginano. Ecco la sua ricetta. Non oso immaginare in che stato debbano ridursi i suoi piedi perché Fay si rassegni a tutto questo. Al termine del tredicesimo giorno, ci accampiamo su un pianoro sopra le sorgenti del Goualougo, che qui è appena un esile ruscelletto.
Oggi, secondo le misurazioni del Fieldranger, abbiamo percorso una distanza di 13.012 metri. La nostra posizione è 2°26,297' Nord, 16°36,809' Est, che a me vuol dire ben poco, non però alla monumentale banca dati di Fay. Evviva! dovrei esultare. Eppure, mi dispiace: oggi si conclude la mia traversata con Fay (almeno per ora: conto di raggiungerlo nel prossimo futuro, per seguire un altro tratto della spedizione). Domani torno verso la civiltà: ripercorrerò i nostri passi, seguendo la funicella e gli squarci aperti dal machete, fino al fiume Sangha. Andrò con Morgan e tre pigmei. E Fay? Lui proseguirà in direzione Nord Est, raggiungerà Nick Nichols, tornerà giù attraverso il Parco Nouabalé-Ndoki, e andrà verso le concessioni della Cib e altre foreste dell' Africa centrale.
Megatransect è solo agli inizi: trascorsi 13 giorni, ne mancano suppergiù altri 400. Restano montagne d'appunti da prendere sul campo, nastri video e audio da riempire, dati da inserire nei computer, e chilometri di topofilo da srotolare. Poi, si dovrà affrontare la grande sfida: organizzare ed elaborare la colossale mole di materiale. Che servirà a misurarsi su un altro campo, più infido e inafferrabile: quello della politica. Prima di lasciarci, Michael Fay m'aveva confidato: già lo so: raggiunta la costa del Gabon, darò chissà cosa per potermi voltare, e riprendere a camminare.

 

 

 

 

(...)
Ma dopo otto mesi di cammino, sembra arrivato anche per lui(Fay) il momento di ammettere che l'avventura, forse, sta per concludersi. E purtroppo, non in modo felice. Uno dei suoi uomini, un giovane pigmeo Bambendjellé di nome Mouko, giace febbricitante, quasi in punto di morte. L'epatite lo sta consumando in fretta, come un fiammifero. Ma non è tutto. Negli ultimi giorni, Fay è stato costretto a tornare sui suoi passi per aggirare una palude impossibile da attraversare. I suoi dodici Bambendjellé -anche quelli in salute- sono ormai esausti e pronti ad abbandonare la spedizione. E tra breve arriveranno al problematico confine con il Gabon, che potrebbe rivelarsi un'altra fonte di tensioni: i gabonesi non hanno intenzione di concedere alcun visto a una banda di pigmei congolesi.
Inoltre, un commerciante musulmano è scomparso, viaggiando da un villaggio all' altro, lungo uno dei pochi sentieri battuti percorsi anche da Fay. Così, quando le autorità cominciano a indagare, Fay teme che i loro sospetti cadano su di lui e la sua banda, e che decidano di fermarli per interrogarli. Dopo aver interrotto la marcia per curare Mouko, si è trovato bloccato in un villaggio dove l'acqua è davvero imbevibile. Le provviste sono agli sgoccioli, e Fay non ha neppure qualche spicciolo per comprare delle banane. Insomma, Megatransect è in un megaguaio. Se Mouko muore, pensa Fay, sarò costretto a togliere le tende e ad arrendermi. Dovrà abbandonare il sogno di mettere insieme tutti i dati sulla foresta, che avrebbero formato un racconto dettagliato e ininterrotto. Non finirà di scrivere sull'ultimo dei taccuini gialli che va riempiendo, uno dopo l'altro, di particolari preziosi: ogni mucchio di feci d'elefante, nido di scimpanzé o tana di oritteropo, specie e circonferenza di ogni grande albero.
Interromperà la sua marcia. Se Mouko muore, pensa Fay, lascerò perdere tutto e riporterò il suo corpo a casa. Ma facciamo un passo indietro, a qualche mese prima. Che l'impresa fosse a dir poco temeraria era chiaro fin dalla partenza, alla fine di settembre '99. Ma Fay è una persona fuori dal comune. E infatti, i primi tre mesi di marcia sono stati poco più di uno scherzo, per lui. Poi, però, procedere è diventato sempre più difficile. Dopo aver attraversato il Parco nazionale Nouabalé-Ndoki e il lussureggiante Triangolo di Goualougo, e aver proseguito verso Sud lungo il bacino inferiore del fiume Ndoki, fra gli accampamenti sorti sempre più vasti e numerosi nelle aree date in concessione alle multinazionali del legname, Fay e la sua squadra hanno deviato verso Ovest, inoltrandosi in un territorio selvaggio tra i fiumi Sangha e Lengoué, entrambi affluenti del Congo.
Cosa li aspetta laggiù? Certo non un villaggio, né una strada: sulla carta geografica la zona è indicata come una compatta macchia verde. Così, quando è possibile, Fay segue le piste degli elefanti, altrimenti si affida alla bussola, indicando la direzione all'uomo armato di machete in testa alla colonna. Il compito di apripista tocca a un infaticabile pigmeo di nome Mambeleme. Fay lo segue a ruota, brandendo taccuino e videocamera, tallonato a sua volta da Yves Constant Madzou, il giovane biologo congolese che gli fa da apprendista scientifico. Molto più indietro, fuori portata di orecchio per non spaventare gli animali, viene il grosso della spedizione: dodici portatori pigmei e Jean Gouomoth, un bantu Bakwele soprannominato Fafa. È una sorta di sergente tuttofare, nonché il cuoco della spedizione. Riescono ad avanzare a buon ritmo per parecchie settimane, senza stancarsi eccessivamente. Finché, poco a poco, si ritrovano letteralmente sommersi da un tipo di vegetazione che lascia di stucco perfino Fay, esperto botanico. In vita sua, non ha mai visto nulla del genere.
"Un mare compatto di marantacee", la descriverà Fay. Le marantacee sono una famiglia di piante erbacee tropicali di cui fanno parte specie molto rigogliose, come Haumania liebrechtsiana, che può dar vita a formazioni incredibilmente fitte. Quella in cui si è infilata la spedizione comincia a Est del Sangha, e si estende verso Ovest; ma dove finisce? Per rispondere a questa domanda, Fay dovrebbe saper leggere in una sfera di vetro. Non resta altro che mandare avanti Mambeleme, come un tagliaerbe umano, e seguirlo. A volte, in un' ora, riescono ad avanzare solo di 60 passi. In un'intera giornata (dieci ore di cammino), percorrono poco più di un chilometro. I fusti verdi svettano per 5 metri d'altezza, i rami aggrovigliati in ogni direzione, le foglie protese avidamente verso il sole. "Un ambiente davvero claustrofobico", racconta Fay una volta emerso da quell'incubo. "Era come scavare un tunnel alla luce del sole". Sul cammino, tronconi di fusto e rami recisi feriscono a sangue gambe e braccia.
Trovare un po' d'ombra è quasi impossibile, perché gli alberi alti a sufficienza sono pochi. Anche l'acqua scarseggia; ogni pomeriggio gli uomini si affannano a cercare qualche pozza d'acqua potabile vicino cui accamparsi. E quando si fermano, ci vuole almeno un'altra ora per disboscare una piccola radura dove piantare le tende. Per non impazzire e non odiare ogni singolo fusto di quell'inferno di marantacee, Fay impara a calarsi in uno stato quasi zen, fatto di autocontrollo, sopportazione e umiltà. Quanto a Mambeleme e agli altri pigmei, si consolano recitando una sorta di mantra: "Eyali djamba. Njamba, eyaliboyé. È la foresta. È fatta così". Ma non è certo questa la foresta che Mike Fay aveva pensato di esplorare. È qualcosa d'altro, una spaventosa distesa di piante tutte uguali, che in seguito battezzerà l' "Abisso verde'.
Una volta raggiunto il Sangha, lo attraversano a bordo di piroghe, e proseguono verso Ovest. Il paesaggio, però, non cambia. Anche se in precedenza Fay ha sorvolato la zona col suo Cessna, non si è reso conto, pur volando a bassa quota, di quanto sia difficile attraversarla a piedi. È stato messo in guardia, però, dagli abitanti dei villaggi sul Sangha, che cacciando e pescando da quelle parti hanno imparato a stare alla larga da quell'incubo senza piste: "È impossibile: non potete riuscirci. Vedrete, dovrete tornare indietro, e tornerete qui". Fay risponde: "Abbiamo le carte, abbiamo una bussola, e abbiamo le medicine dell'uomo bianco. Ce la faremo". Ha ragione. Ma ci vorranno dieci settimane di viaggio in condizioni disperate. A capodanno è ancora nell'Abisso verde, e non ne uscirà che ai primi di marzo.
"Abbiamo bevuto acqua di palude per tre settimane di fila. Non abbiamo visto acqua fresca per quasi un mese", ricorda Fay. "Ci è capitato di dover bere acqua da una pozza di fango senza poterla bollire, ed è un miracolo che sia successo solo una volta". Era un ex termitaio, scavato da un oritteropo o da qualche altro insettivoro, che si era riempito d'acqua piovana. L'acqua è piena di terra in sospensione, marrone come caffellatte. Anche il cibo è un problema: l'ultimo rifornimento è avvenuto al fiume Sangha, grazie a Tomo Nishihara, un ecologo giapponese su cui si può sempre contare. Ma mancano parecchi giorni al prossimo appuntamento, e c'è il rischio che non bastino neppure le razioni di emergenza. CosÌ, Fay e Tomo, col telefono satellitare, concordano un rifornimento aereo: sacchi di manioca da 20 chili e casse di sardine da 50 scatolette l'una, lanciate senza paracadute da un aeroplano che li sorvolerà a bassa quota. Il lancio è un successo: solo un pacco si rompe sul ramo di un albero, lasciando cadere una nevicata di polvere di manioca e 50 scatolette di sardine sfasciate.
Gli uomini si rimpinzano di tutte le sardine che riescono a recuperare, poi riprendono la marcia. Altri problemi, invece, sono meno facili da risolvere: tensioni reciproche, malumori. Ci sono giorni, che diventano settimane, in cui non manca solo l'acqua fresca, ma non si riesce neppure a parlare in maniera civile. Non tutti sono riusciti a trovare una propria versione del mantra Njamba, eyaliboyé. Quando raggiungono il fiume Lengoué, Yves Madzou ormai ne ha abbastanza, e neppure Fay lo sopporta più. I due concordano che Yves abbandoni la spedizione per dedicarsi, come si dice in questi casi, ad altri interessi. Dopo tutto, è un essere umano. Al contrario, sembra, di Fay, che prosegue la marcia. Dopo sei mesi, Fay e il suo gruppo si fermano a riposare e a fare rifornimento nell'accampamento di Ekania, lungo il corso superiore del fiume Mamhili.
Si trovano all'interno di un' altra meravigliosa zona del Congo, il Parco nazionale di Odzala. Il parco è famoso per le grandi popolazioni di elefanti di foresta e di gorilla che si possono scorgere nei bai, delle radure erbose che si aprono qua e là nella foresta. Sali minerali, ciperacee commestibili e altre piante appetitose sono un richiamo non solo per elefanti e gorilla, ma anche per bufali, sitatunga, antilopi bongo e potamoceri, che talvolta accorrono numerosi. Inutile dire che Fay è impaziente di visitare i bai: finora li ha potuti scorgere soltanto dall'aereo. Tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta i bracconieri hanno ucciso molti elefanti di Odzala; poi la gestione del parco è stata affidata a Ecofac, un programma di conservazione delle foreste tropicali finanziato dalla Commissione europea. Le ronde antibracconaggio e il posto di guardia permanente istituito sul Mambili inferiore, previsti dal programma, hanno stroncato il traffico d'avorio lungo il fiume.
Ma ai viaggiatori benintenzionati -non interessati alle zanne- è ancora consentito l'accesso a Odzala lungo il Mambili, un fiume color cioccolato dal corso superiore stretto e accidentato per via dei molti alberi caduti. Ed è proprio questa la via scelta da Tomo per trasportare i rifornimenti a Ekania. La pista d'atterraggio più vicina dista una decina d'ore di viaggio su una canoa a motore: ma stavolta, a bordo ci sono anch'io. All'arrivo avvisto Fay, a torso nudo e abbronzatissimo, con una zazzera di capelli grigi più incolta di quanto ricordassi. Sta riprendendo il nostro sbarco da sotto la tettoia della veranda; ci saluta con la mano, senza staccare l'occhio dall'obiettivo. Gli rispondo con un saluto militare. Il fatto è che comincia a sembrarmi un comandante geniale ma mezzo matto, perso in una qualche sua guerra personale, circondato da un esercito di seguaci malconci che lo servono come schiavi. Insomma, una specie di Comandante Kurtz-Marlon Brando di Apocalypse Now, solo molto più magro.
È la prima volta che rivedo Fay dall'ottobre dell'anno scorso, e cioè da quando -il 13mo giorno di viaggio- ho lasciato la spedizione Megatransect per tornare nel mondo civile. Oggi, 182mo giorno di cammino, le ossa delle sue spalle sono molto più sporgenti: a occhio e croce direi che ha perso tra i 10 e i 15 chili. Le gambe però sono quelle di un maratoneta, e dietro gli occhiali di metallo lampeggia ancora il suo solito sorriso tranquillo e distaccato. Mentre gli vado incontro, in questa sperduta giungla equatoriale, mi sento come Stanley che incontra il dottor Livingstone. "Più vado avanti", dichiara Fay, "più sono contento di aver compiuto questa spedizione". È curioso che dica "aver compiuto" anziché "star compiendo"; dopotutto, è ancora a metà strada. Perché? Immagino che per Fay sia stata più difficile la fase preliminare, cioè la preparazione della spedizione e la ricerca dei soldi, e che il viaggio vero e proprio equivalga a rastrellare il piatto alla fine di una mano di poker.
Perdita di peso a parte, e se si esclude una bronchite e qualche infezione ai piedi causata dai parassiti, ha goduto di buona salute. Da quel che mi racconta, sembra che il suo corpo abbia raggiunto una sorta di equilibrio con l'inclemenza della foresta. Sui suoi piedi si nota del tessuto cicatriziale rosa, e contro la pelle abbronzata spiccano le strisce più chiare delle fasce dei sandali. Nessun attacco di malaria, o febbre gialla. E, cosa altrettanto importante, si è divertito la maggior parte del tempo. Mi racconta le dieci settimane passate nell'Abisso verde come "la prova più dura che mi sia capitata nella vita". Ora però è nella dolce Odzala, dove pascolano il bongo e il bufalo. Ha un nuovo assistente per la botanica, Gregoire Kossa-Kossa, un allegro congolese esperto di foreste prestatogli dal Ministero delle Foreste e della Pesca.
Fafa (il cuoco-caposquadra) ora ha un ruolo più importante, perché adesso si occupa lui della raccolta dati prima affidata a Yves. E Mambeleme, che sfoggia un braccio destro sviluppatissimo e un machete quasi consumato dalle affilature, si è rivelato un campione nell'aprire le piste. Quanto al resto della squadra, nel complesso sembrano piuttosto in forma. Nel frattempo, la raccolta dei dati è continuata. Ne emerge un ritratto del Parco nazionale di Odzala molto interessante, e in parte inedito. Un esempio? In una lontana foresta in una pianura alluvionale, Fay ha avvistato un colobo satana. È la prima volta che la presenza di questa rara specie di scimmia viene documentata all'interno del parco. Come prevedeva, Fay ha avvistato molti elefanti nei bai di Odzala, mentre non ha praticamente trovato tracce di piste e di feci di questi animali nei lunghi spostamenti fra un bai e l'altro. Quindi non è corretto dedurre, dalla presenza di pachidermi nei bai, l'esistenza di una popolazione altrettanto abbondante su tutto il territorio. Le rilevazioni annotate sui taccuini di Fay si aggiungeranno ai dati sulla distribuzione degli elefanti raccolti dai ricercatori di Ecofac.
Questi taccuini, forse, riserveranno altre sorprese. Ed è possibile che Megatransect si riveli tutt'altro che una bella scampagnata a fini pubblicitari, come sostengono i suoi detrattori. Sto pensando (e non è la prima volta che mi capita) che forse Fay non è così pazzo come sembra. Trascorso qualche giorno a Ekania, ci rimettiamo in marcia. Siamo diretti alle sorgenti del Mambili e a un grande bai chiamato Maya Nord, vicino al quale c'è un altro campo di Ecofac, utilizzato da studiosi di elefanti e troupe di documentaristi. Di solito si arriva a Maya Nord risalendo per qualche ora il Mambili a bordo di una canoa a motore, fino al punto in cui gli operai di Ecofac hanno aperto una buona pista che porta al campo. Noi, invece, prendiamo un'altra strada: tagliamo in diagonale all'interno della foresta e arriviamo dalla direzione opposta. La sera ci ritroviamo seduti attorno al fuoco con alcuni congolesi che lavorano al campo. Il discorso cade sui viaggi in barca lungo il corso superiore del Mambili. Ma noi non siamo arrivati in barca, butta lì Fay. Ah no? Chiedono loro stupiti. E come siete arrivati? Abbiamo camminato, dice Fay. Camminato? Da Ekania sin qui? Ma non c'è pista. E Fay: è vero, e allora?
All'alba del 188mo giorno siamo al bai. Illuminati dalle prime luci del mattino, vediamo 18 elefanti che bevono e frugano nella corrente in cerca di sali minerali. Un po' in disparte c'è una femmina anziana, emaciata, quasi alla fine, la pelle grigia che casca attorno alle ossa del cranio e del bacino. In mezzo al branco c'è un maschio possente, che agita avanti e indietro una proboscide ritta come un periscopio per cogliere nell'aria gli odori che segnalano pericolo. Ecco, ci ha sentiti. L'atmosfera cambia quasi impercettibilmente, poi il maschio dà il via a una guardinga ma decisa ritirata. Uno dopo l'altro, gli elefanti si allontanano sguazzando nell'acqua bassa verso il lato opposto del bai, per svanire fra gli alberi. Quando il sole è ormai alto, gli animali sono scomparsi. E a mezzogiorno siamo di nuovo in marcia anche noi.
Il programma di Fay, una volta lasciato l'alto Mambili, prevede di scalare la scarpata che forma lo spartiacque tra il bacino del Congo e quello di un fiume minore, l'Ogooué, che attraversa il Gabon e sfocia nell'Atlantico. lo mi sgancerò da loro ancora una volta il 195mo giorno: la mia via d'uscita è il prossimo appuntamento per i rifornimenti con Tomo. Risalire il Mambili con un carico è piuttosto arduo, e Tomo deve ricorrere a tre barcaioli e a una sega elettrica. Il viaggio di ritorno, seguendo la corrente, per fortuna è più semplice, e se tutto va bene dovremmo raggiungere la pista di atterraggio in un paio di giorni.
Il giorno prima della mia partenza Fafa è costretto a letto dalla febbre malarica, così tocca a Fay sovrintendere alla distribuzione dei rifornimenti: sacchi di manioca, riso e zucchero, scatolette di burro d'arachidi e di sardine, pesce sotto sale, barattoli di pepe e di cipolla secca, olio da cucina, barrette di muesli, sigarette, un bel po' di pile a lunga durata, una catasta di scodelle nuove di plastica colorata, e un pacco di alghe, che Tomo ci consiglia di cucinare insieme al pesce sotto sale.
lo e Fay decidiamo di incontrarci ancora da qui a due mesi in un luogo davvero suggestivo: le inselberg(cioè "montagne-isole"), uno straordinario paesaggio di cupole di granito che si ergono come gelatine di pietra a Minkébé, una foresta del Gabon nordorientale. Si tratta di una foresta molto ricca sotto il profilo ecologico, ma che nasconde anche una serie di minacce dal punto di vista microbiologico: ricordo che molti mesi fa (eravamo ancora nella sede della National Geographic Society a Washington), Fay l'ha indicata in rosso sulla carta geografica come "regione di Ebola': E adesso è qui, tutto allegro, mi dà appuntamento laggiù, "dall'altra parte dello spartiacque continentale, sulla strada verso l'Oceano Atlantico". Ancora non sa cosa lo aspetta durante questa traversata.
Ripercorrendo il sentiero per raggiungere la barca di Tomo, stringo la mano a Kossa-Kossa, a Fafa, e a tutti i pigmei della squadra, ringraziandoli per la compagnia e l'aiuto che mi hanno offerto. Questi pigmei mi affascinano. Fay li ha spinti con blandizie e minacce per centinaia di chilometri, strappandoli alla loro foresta natia e catapultandoli in un mondo alieno. Hanno dovuto affrontare sfide inimmaginabili e terribilmente stressanti, ma ce l'hanno fatta. Mi ricordano quei marinai portoghesi, incolti ma leali e capaci di adattarsi a ogni circostanza, che seguivano per mare Ferdinando Magellano. Li saluto nel mio pessimo lingala: "Na kotala yo, na sanza mibalé", ci vediamo tra due mesi. Una previsione decisamente mancata. Fay impiegherà ben tre mesi a raggiungere le inselberg, e lungo il cammino vivrà alcuni momenti davvero difficili, i peggiori da quando ha lasciato l'Abisso verde.
Quando finalmente lo raggiungo sul luogo dell' appuntamento, Mambeleme e tutti gli altri se ne sono già andati. Fay e la sua squadra hanno seguito in direzione Nord la cresta dello spartiacque, che forse un tempo è stata la riva di un lago o di un fiume. Com'era nei piani, Kossa-Kossa lascia la compagnia per tornare alle sue occupazioni quotidiane mentre gli altri puntano a Ovest, per inoltrarsi in una striscia di territorio congolese incuneata nel Gabon. Si dirigono verso il fiume Ouaga, ed è qui che incontrano la palude di cui parlavamo all'inizio. A prima vista sembra attraversabile, e invece si fa sempre più ostile via via che gli uomini vi si addentrano. Le insidie aumentano passo dopo passo, finché la palude diventa un inferno di rafie e pandani giganti che si levano da un fondo d'acqua nera e di fango alto più di un metro. Le lunghe foglie dei pandani, racconta Fay, sono armate da file di "orribili spine, aguzze come artigli di gatto".
Il gruppo trascorre due notti confinato in una piccola macchia di alberi: gli uomini hanno costruito piattaforme di tronchi per tenere le tende sollevate dalla melma. Proseguendo, Fay si accorge che la strada peggiora: acqua più profonda, niente alberi ma sempre più vegetazione spinosa. A occhio e croce, li aspettano altri cinque giorni di marcia in quelle condizioni, col rischio che, al primo acquazzone, il livello dell'acqua salga e li intrappoli. Alla fine, Fay deve capitolare: torna sui suoi passi e compie una lunga deviazione attraverso una zona di cui non ha neppure la carta. Una volta aggirata la palude di Ouaga, s'imbattono in una pista tracciata dall'uomo: è solo un sentiero, ma in quella striscia di Congo è più prezioso di un'autostrada, perché collega i villaggi. E infatti, quel sentiero li conduce al villaggio di Poumba, dove vengono raggiunti da due brutte notizie. La prima è che, a causa delle crescenti incomprensioni fra i due Paesi, attraversare la frontiera col Gabon non è mai stato così difficile; la seconda è che, a complicare il tutto, lungo quel sentiero di recente è scomparso un commerciante musulmano d'oro e d'avorio, in circostanze che sembrano indicare un possibile delitto. Dal punto di vista della polizia locale, è quanto meno inquietante che la scomparsa del commerciante coincida con il materializzarsi di un curioso gruppetto di persone formato da un uomo bianco con un seguito di pigmei, in rapida marcia verso la frontiera col Gabon. Cosa ancor più sospetta, quell'uomo sostiene che sta compiendo una traversata del continente, per contare le tane di oritteropo e studiare le feci di elefante.
Fay è lacerato tra l'esigenza di muoversi e il timore di mostrarsi in preda al panico. Come se non bastasse, Mouko ha il terzo attacco di malaria in due settimane. Ma a questo, pensa Fay, si può rimediare con una dose di chinino. Nei giorni seguenti, però, Mouko diventa sempre più debole. Non riesce a portare il suo carico, anzi, talvolta deve essere trasportato a sua volta. I sintomi sembrano indicare che è affetto da epatite, e non da malaria: le sue urine sono scure, gli occhi gialli e il chinino non fa effetto. Fay, mentre porta il carico di Mouko, rallenta il passo e riflette sul da farsi. Non vuole comunicare le sue incertezze, ma non sa davvero che pesci prendere.
Il 241mo giorno annota: "I pigmei pensano che Mouko stia per morire". Mouko, oltre che malato, sembra ormai non aver più voglia di vivere, e anche gli altri si sono rassegnati alla sua morte. Fay diventa l'infermiere di Mouko. Ordina agli uomini di non usare la manioca di Mouko né il suo piatto, di non praticargli salassi sulla schiena né di prendere iniziative che possano favorire il diffondersi dell'infezione. Fay confida al taccuino: "Non ne posso più di fare da papà a 13 bambini. Grazie a Dio non ho mai avuto figli: è troppo gravoso. Meglio essere soli in questo lavoro, dipendere solo da se stessi. Il problema, in un gruppo come il nostro, è quello di essere come un unico organismo: se una parte è malata, o andata, l'intero organismo ne soffre". Per altri dieci giorni, la vita di Mouko rimane appesa a un filo. Si dirigono verso Garabinzam, un villaggio all'estremità occidentale del sentiero, navigando su un affluente del fiume Ivindo, che arriva nel Gabon.
Durante l'ultimo giorno dell'avvicinamento a Garabinzam, la squadra copre 14 chilometri; per la maggior parte del tempo, Mouko viene portato sulle spalle da Kati. Quella sera Fay scrive: "Devo rimandare a casa questi ragazzi. Basta guardarli per capire che sono distrutti, allo stremo. Sono amici, e mi piacerebbe tenerli con me, ma equivarrebbe a tradirli: non sarebbe giusto". Qualche giorno dopo, Fay abbandona la linea di marcia, e, insieme, ogni proposito di continuare. Vuole portare via Mouko lungo il fiume. L'idea è di raggiungere il villaggio alla confluenza dell'Ivindo, dalla parte del Gabon; da lì, se sopravvive, Mouko potrà essere trasportato in un ospedale a Makokou. Nel frattempo, Fafa riporterà gli altri a casa, nelle loro foreste circa 400 chilometri a est. Quanto a Fay, riprenderà il cammino dal Gabon.
Inevitabilmente, nelle sue rilevazioni vi sarà un buco di una quarantina di chilometri, da Garabinzam sino alla frontiera. Ciò rappresenta un neo nella sua grandiosa impresa, ma è anche (a mio giudizio, non suo) un segno dell'umanità di Fay. "Lasciata Garabinzam, tutto bene", annota sbrigativo il 24 maggio 2000, 248mo giorno della spedizione Megatransect. Ma aggiunge: "I pigmei non mi hanno neppure salutato".
Mouko è sopravvissuto, ed è tornato a casa. Fay ha dovuto ricominciare da zero: ha messo insieme una nuova squadra con gente proveniente dai villaggi e dalle miniere d'oro dell'alto Ivindo. Ha trovato Bebe, un pigmeo Baka giovane e sveglio dotato di un buon orecchio per gli animali e di un braccio forte per il machete, che in breve si è guadagnato i galloni di apripista; ha assunto un nuovo cuoco e altri otto pigmei e bantu capaci di resistere alle durezze della foresta; ma soprattutto ha ritrovato l'energia e l'entusiasmo per continuare. Hanno cominciato percorrendo un lungo arco nella foresta di Minkébé per individuare vari punti di interesse, tra cui spiccavano le inselberg. Ed è qui che, scendendo da un elicottero a noleggio atterrato in qualche modo su un'altura, rivedo Fay. È il 292mo giorno di spedizione.
A parte l'abbronzatura più intensa e i capelli più lunghi e più bianchi, Fay non sembra cambiato: stesso paio di calzoncini, stessi sandali, stesso sorriso caustico. Gli ho portato un chilo e mezzo di caffè forte macinato e Dispatches di Michael Herr, uno di quei libri sulla guerra in Vietnam che gli piacciono tanto. Ma la sua mente è altrove. Mi racconta di aver notato alcuni segnali, delle tendenze interessanti. E fa l'esempio dei gorilla. Ne avevamo parlato mesi prima: nella foresta di Minkébé, mi conferma, si nota un'inquietante mancanza di gorilla. Dopo aver attraversato la frontiera non ha udito neppure una volta il suono di un gorilla che si batte il petto, e ha visto solo un mucchietto di escrementi. Basti pensare che nel Parco nazionale di Odzala, su un'estensione simile, ha contato tre o quattrocento mucchietti.
Gli elefanti abbondano, e così cefalofi, potamoceri e scimmie. I gorilla invece no. Perché? L'ipotesi di Fay è che siano stati annientati dal virus Ebola. La foresta di Minkébé (oltre 30 mila chilometri quadrati nel Gabon nordorientale) rappresenta una delle ultime grandi aree di natura incontaminata rimaste in Africa centrale. Su buona parte di questa zona gravano le minacce del disboscamento, dello sterminio degli animali della foresta per nutrire le squadre di taglialegna, e del bracconaggio per l'avorio. Il governo del Gabon però ha preso di recente un'encomiabile decisione: ha destinato una parte consistente di questo territorio (5617 chilometri quadrati) alla creazione della riserva di Minkébé, una zona protetta; e ora c'è la possibilità che la riserva sia estesa anche a tre grandi aree adiacenti. Il Ministero delle Acque e delle Foreste del Gabon, con l'aiuto tecnico(e una discreta pressione) del Wwf, sta considerando la possibilità che una riserva più estesa presenti dei vantaggi non solo in termini ecologici, ma anche economici.
In un momento in cui crescono le preoccupazioni mondiali per i gas serra e i cambiamenti climatici, altre nazioni e parti in gioco potrebbero essere disposte a compensare il Gabon (è la logica che sottende gli accordi di Kyoto) se quest'ultimo mantenesse vaste riserve di sostanza organica incombusta; come, per l'appunto, Minkébé. Prima di ampliare la riserva, però, è necessario condurre studi sul terreno. Perciò, negli ultimi anni, un piccolo gruppo di scienziati e operatori forestali ha svolto una serie di spedizioni conoscitive a Minkébé, sia nella riserva già esistente che nelle aree candidate all'ampliamento. Sono state scoperte vere e proprie meraviglie naturali (foreste, paludi, incantevoli inselberg, reti di corsi d'acqua), tutte ricche di specie e praticamente mai sfiorate dalla mano dell'uomo; ma è stata anche riscontrata la quasi totale assenza di gorilla e scimpanzé notata anche da Fay. Non è sempre stato così. Nell'84, gli scienziati Caroline Tutin e Michel Fernandez hanno pubblicato un articolo sull'''American Journal of Primatology" in cui presentavano il loro censimento delle popolazioni di gorilla e scimpanzé in tutto il Gabon. Tutin e Fernandez stimarono che a Minkébé vivessero allora 4171 gorilla, una densità di popolazione non straordinaria ma significativa.
Il testo prosegue narrando l'incidenza di tre epidemie di Ebola negli anni '90 che nella zona di Minkébé avrebbero, secondo una ipotesi sostenuta da alcuni studiosi tra cui Fay stesso, decimato scimpanzè e gorilla, trasmettendo l'epidemia all'uomo che o ne aveva catturato e macellato qualche esemplare o se ne era cibato.
Dopo due settimane trascorse vagando nel regno di Ebola, sbuchiamo fuori dalla foresta e imbocchiamo una strada di laterite rossa. Accecati dal sole, arriviamo nel villaggio di Minkouala, dove ben presto ci raggiunge il fido Tomo con altri rifornimenti. La sera del 307mo giorno ci ritroviamo accampati in un boschetto di banani dietro la casa di un funzionario locale, fra un deposito di spazzatura e un generatore a gas. Stasera la squadra è in libera uscita, e metà degli uomini hanno raggiunto Makokou in autostop, per farsi una bevuta e trovare qualche donna.
Il mattino dopo uno dei pigmei sarà in prigione (ha semidistrutto un bar), e Fay sarà costretto ad affrontare una nuova tornata di seccature politiche, crisi personali, e piccoli ricatti, un tipo di compiti che trova di gran lunga meno gradevoli dell'attraversare una palude. Ma in un modo o nell'altro, riuscirà a rimettere in marcia la squadra; lascerà la strada rossa e si ritufferà nel suo lussureggiante universo. Per ora, se ne sta per ore nella sua tenda, riversando sul portatile l'ultima messe di dati raccolti. Negli ultimi 14 giorni, m'informa, abbiamo avvistato 997 escrementi di elefante, e neppure uno di gorilla. Non abbiamo sentito neanche un gorilla percuotersi il petto. E quanti rami di marantacee masticati da denti di gorilla e sputati via abbiamo trovato? Zero. Cifre che ci danno la misura più precisa possibile, al momento, del mistero di Minkébé; risolverlo sarà un altro paio di maniche.
Quanto a me, è giunto di nuovo il momento di partire. Prendo la strada di laterite, arrivo alla pista d'atterraggio di Makokou, dove m'imbarco su un Cessna. Il pilota venuto a recuperarmi è un giovane francese, Nicolas Kozon: era lui che girava in tondo sull'Abisso verde mentre Tomo bombardava di mani oca e di sardine Fay e gli altri della squadra a terra. Mentre ci dirigiamo verso Libreville, la strada e i villaggi scompaiono, finché non vediamo nient'altro che una sconfinata distesa verde. Sotto di noi, a perdita d'occhio, non c'è che la maestosa volta arborea. Nicolas è divertito e perplesso dalla grandiosità e al tempo stesso dalla bizzarria di un'impresa epica come Megatransect. Gli descrivo la routine quotidiana, le distanze percorse, le paludi attraversate, e gli spiego quali prove dovrà ancora affrontare Fay. Arriverà alle grandi cascate del fiume lvindo poi girerà a Ovest. Attraverserà la ferrovia e due strade, ma per il resto rimarrà sempre nella foresta, seguendo la via che si è tracciato e tenendosi lontano il più possibile dagli insediamenti umani, e proseguirà così fino all'oceano. Percorrerà la riserva di Lopé, e poi una grande regione poco conosciuta attorno al massiccio di Chaillu. Se tutto va bene, ci sono ancora quattro mesi di viaggio. Dopo aver attraversato il Gamba, un ex complesso di riserve di caccia e aree protette lungo la costa a Sud di Port-Gentil, sbucherà sulla spiaggia. Spera di arrivare lì a fine novembre, dico a Nicolas. Lui abbozza un sorriso e mi domanda: "E dopo cosa farà, tornerà in America a nuoto?".

 

 

 

 

Michael Fay, lo sguardo rivolto a Ovest, fissa la distesa d'acqua davanti a sé. Purtroppo, non si tratta dell'Oceano Atlantico: la costa sudoccidentale del Gabon, sua meta finale, dista ancora 30 chilometri. È il 453esimo giorno di Megatransect, la sua estenuante, maniacale spedizione a piedi attraverso le foreste dell' Africa centrale, e Fay si è appena imbattuto in un ostacolo imprevisto. Non il peggiore che si sia mai trovato di fronte, ma la faccenda si presenta comunque piuttosto seria: le piogge stagionali hanno trasformato una pozza d'acqua in una sorta di lago lungo, stretto e scuro, denso di foglie e detriti. La superficie dell'acqua è nera come ebano lucido, punteggiata qua e là da grandi alberi con radici e parte del tronco sommersi. Quanto è profondo? Fay non ne ha idea. Una settantina di metri più avanti, la foresta lascia il posto a una macchia, anch'essa allagata; un intrico di vegetazione fitta e arbustiva costituita da rami bassi e radici intrecciate come mangrovie, che forma una barriera impenetrabile alla vista e, immaginiamo, anche al nostro passaggio.
Per quanto si estende quella macchia prima di arrivare al terreno asciutto? Fay non sa neanche questo. "È il momento della verità, credo", proclama. Afferra il machete dalle mani di Emile Bebe (il giovane pigmeo Baka che gli ha fatto da apripista per centinaia di chilometri nel Gabon), si sfila lo zaino, ed entra in acqua nella sua abituale tenuta anfibia (sandali e bermuda), sondando il lago nero di fronte a sé con un lungo bastone. lo, Bebe, e altri due compagni di viaggio (il fotografo Michael "Nick" Nichols e Phil Allen, operatore di National Geographic Television) restiamo sulla sponda a guardarlo. Ben presto, ecco l'acqua arrivare alla vita di Fay, poi al petto e infine alle ascelle; dopodiché, vediamo solo una testolina e due braccia esili sparire fra la vegetazione. Con l'aiuto di una liana mi arrampico sulla base di un albero e mi porto a due metri di altezza sull' acqua, per cercare almeno di sentire cosa sta succedendo.
Sono preoccupato per Fay: è lì tutto solo, col rischio di essere attaccato dai coccodrilli. Da queste parti non si incontra il coccodrillo del Nilo, ma una specie più piccola, Osteolaemus tetraspis, o coccodrillo nano. Mi rendo conto però che preoccuparmi è del tutto inutile: se un coccodrillo lo afferrasse davvero, da qui non potrei fare nulla. Sento i colpi di machete e una serie di imprecazioni alternate a quelle che sembrano delle canzoncine demenziali. Aspettiamo. Ormai è andato via da mezz'ora, poi da quaranta minuti. Restiamo in attesa. Nel frattempo, veniamo raggiunti dal resto della compagnia: altri due pigmei Baka e sette Bantu, carichi di pesanti apparecchiature scientifiche, attrezzature da campeggio e provviste, a cui si aggiunge il tecnico forestale gabonese Augustin Moungazi, incaricato di catalogare e censire gli alberi.
"E il capo dov'è?". Laggiù, da qualche parte. Gli uomini scrutano la nera superficie del lago, con espressioni che vanno dalla preoccupazione al terrore. La maggior parte di loro sta con Fay da sette mesi, dal suo ingresso in Gabon e sono già passati attraverso momenti come questo. La situazione non promette niente di buono, ma hanno visto di peggio. Dopo circa un' ora, lascio il mio trespolo. Bebe si accende una sigaretta. Nick punta la Leica su qualsiasi cosa anche solo vagamente interessante. Scacciamo le mosche che trasmettono le filarie; mangiamo cracker, noccioline e gli altri miseri snack che cerchiamo di spacciare per pranzo. In silenzio, ci chiediamo se Fay riuscirà a tornare indietro, e, in caso contrario, come faremo a uscire da quella foresta senza il nostro squinternato leader. Finché, a un certo punto, udiamo delle grida. Fay, attraversata la macchia, ha trovato terreno asciutto e ora sta tornando indietro: si è fermato a portata di voce e, attraverso la vegetazione e la pesante aria equatoriale, urla istruzioni ai suoi uomini, per lo più in francese. Lo ammetto, il mio francese è penoso, e quello di Nick e Phil è anche peggio; perciò, ce ne stiamo lì imbambolati. Il problema è che anche gli uomini della squadra, francofoni, sembrano confusi.
Se riuscissimo a capire quello che Fay sta gridando, gli obbediremmo con piacere. Ma è come sentire uno stizzoso colonnello della Legione straniera che urla ordini alle reclute attraverso un materasso. In un certo senso Fay aveva ragione nel dire che questo era il momento della verità. Se Fay è venuto quaggiù a studiare la foresta, io sono venuto per studiare lui, e non c'è nulla come le avversità per comprendere il carattere di una persona. Ma questa situazione è ancora troppo confusa, incerta, per cercare di trarne una qualche conclusione che si avvicini alla verità. Cosa vuole davvero Fay? Ci sta chiedendo di star fermi qui, o di muoverci? Dobbiamo raggiungerlo? E se si, in che modo? Tagliamo un po' di legna e costruiamo una zattera, o cerchiamo di arrivare da lui a nuoto? La voce che giunge dalla boscaglia sembra esprimere solo impazienza e ottuse certezze. Sta chiamando a raccolta le sue truppe per un ultimo, eroico slancio? O forse, stressato dai lunghi mesi di marcia e dal difficile compito di imporre la disciplina a un gruppo di volontari, confuso dall' avvicinarsi della meta e dai sentimenti ambivalenti che ciò gli provoca, Fay è in pieno esaurimento nervoso?
Queste domande continueranno a perseguitarmi per diversi giorni. Mi interrogherò ancora su quel mistero che è J. Michael Fay e sulla non semplice questione della leadership. Ma è innegabile che, in questo mattino del 453esimo giorno, Megatransect, la grande impresa di Fay, sia giunta a un punto cruciale. È in questa circostanza che si rivelano e si confrontano tanto la logica che l'ha guidata quanto lo slancio che essa ha assunto strada facendo. La logica era quella di percorrere un cammino a zigzag dall'angolo nordorientale della Repubblica del Congo sino alla costa sudoccidentale del Gabon: una distanza di almeno 2000 chilometri che attraversa grandi estensioni di foresta completamente disabitata, senza strade, lungo la quale raccogliere dati sulla vegetazione, le forme di vita e lo stato delle foreste. È come se queste aree di foresta, che si susseguono senza soluzione di continuità, fossero dei pezzi di carne, e il percorso di Fay il bastoncino che li infilza l'uno dopo l'altro, creando un ultimo, grande spiedino di natura tropicale rimasto in Africa.
A questo, però, va aggiunto tutto ciò che si è accumulato durante 452 giorni di marcia continua: l'attraversamento di innumerevoli paludi fangose, torrenti, problemi di rifornimento, notti trascorse a pancia vuota ed elefanti nervosi a cui non sarebbe dispiaciuto trasformare lo stesso Fay in uno spiedino; le infinite ore trascorse a ridere e a scherzare con gli uomini attorno al fuoco, gli scoppi d'ira, e i molti momenti nei quali è sembrato quasi impossibile che Fay e i suoi compagni riuscissero a farcela, e che invece hanno superato. La logica adottata da Fay imponeva che questa ciclopica traversata non subisse salti o interruzioni, anche se purtroppo non è stato possibile evitare una piccola lacuna nel percorso: è accaduto quando, al confine tra Congo e Gabon, Fay ha dovuto deviare il suo itinerario per accompagnare in ospedale Mouko, un pigmeo della squadra, sul punto di morire di epatite.
Questo salto di una trentina di chilometri lungo il percorso ha lasciato in Fay un senso di incompiutezza, eppure ha continuato ad andare avanti, lasciandosi alle spalle quell'episodio. E adesso è come se quello slancio, guadagnato con ogni chilometro percorso (più vicini ai 3200, in effetti, che ai 2000 progettati in origine) e con tutte le crisi superate, gli renda intollerabile il pensiero di essere bloccato, ancora una volta, a soli 30 chilometri dalla costa, la sua meta. Fay ha presentato il piano della sua impresa alla National Geographic Society (suo sponsor principale) e alla Wildlife Conservation Society (suo datore di lavoro) in un prospetto di 48 pagine, in cui indicava il suo itinerario e le varie aree di foresta su una mappa a più colori. Le aree da lui delineate erano 13, a partire dalla foresta Nouabalé-Ndoki, nel Congo nordorientale, per poi proseguire, scendendo in diagonale, in direzione Sud Ovest. L'ultimo anello della catena è il Gamba, un agglomerato di riserve faunistiche e aree di caccia abbandonate che si stende lungo la costa atlantica. Attualmente, quest'area sta subendo un'opera di riorganizzazione da parte del governo gabonese che, con l'aiuto del World Wildlife Fund, vuole creare un complesso di zone protette per conservare lungo tutta la spiaggia un habitat favorevole a elefanti, ippopotami, coccodrilli nani e altre specie a rischio.
Ognuna delle 13 aree confina con un'altra, ed è circondata da zone antropizzate (siano queste una strada, una ferrovia, una serie di villaggi lungo il fiume), ma -e qui sta la chiave di tutto- al suo interno non contiene praticamente tracce di impatto umano. Nonostante alcuni esperti da salotto stentino a crederci, esistono ancora ampie estensioni di foresta africana non invase dall'uomo. L'idea di Fay era appunto di percorrerle a piedi con una piccola squadra, e di misurare con diversi strumenti e da vari punti di vista il rapporto fra l'assenza di impatto umano e la ricchezza ecologica della foresta.
(...)
La giornata è cominciata male fin dal principio. Fay è tornato dalle sue abluzioni mattutine nello stagno vicino nel quale siamo accampati raccontando di essere stato attaccato da una decina di sanguisughe. Qualche pacifica sanguisuga ogni tanto non è un grosso problema: non sono dolorose, e in genere non causano infezioni o malattie. Ma quelle che ci danno il buongiorno la 453esima mattina di viaggio sono tutt'altro che pacifiche. Queste sanguisughe si avventano su di noi come banchi di barracuda, avvinghiandosi alle caviglie e ai polpacci e resistendo, tenaci e scivolose, ai nostri tentativi di liberarcene. Ce le ritroviamo sotto le fasce dei sandali, fra le dita dei piedi, attaccate a ogni piccola ferita. Che diamine, di cosa sono vissute prima del nostro arrivo?
Mentre ci disinfestiamo dalle sanguisughe saltellando nell'acqua bassa ora su un piede ora sull'altro, Bebe (anche lui afferrandosi i piedi fra un colpo di machete e l'altro) abbatte un alberello per gettare un ponte sul punto più profondo dello stagno. Ci passiamo su, in fila come equilibristi, e una volta all'asciutto ci liberiamo dalle ultime sanguisughe per poi proseguire. Dopo qualche minuto sentiamo le scimmie che saltano fra la volta arborea. Fay ricorre al suo solito trucchetto: imita il fischio dell' aquila coronata. Spaventate, le scimmie emettono un coro di roche grida d'allarme (kaa-ko! kaa-ko!), che permette a Fay di identificarle: sono Cercocebus torquatus torquatus, cercocebi dal collare, che da queste parti chiamano kako. Fay scarabocchia sul taccuino il nome della specie, la durata dell'incontro, poi sul registratore digitale incide un campione di cinque minuti dei loro vocalizzi.
Proprio poco fa mi ha detto che questa specie di cercocebo, dagli inconfondibili capelli a spazzola rosso carota, è diffusa solo nelle foreste vicine alla costa dell' Atlantico; infatti, nell' attraversare il Congo e il Gabon orientale non ne ha avvistato nessuno, mentre ha visto parecchi cerco cebi crestati. Perciò, questo incontro è un buon segno: significa che siamo entrati nell'area costiera. Camminiamo di buon passo lungo una pista di elefanti per circa un' ora, finché non ci ritroviamo di fronte a un laghetto scuro stretto e lungo. "Brutte notizie, ragazzi", annuncia Fay. A quanto pare, spiega, la stagione delle piogge si fa ancora sentire; perciò, prima di arrivare alla costa, dobbiamo aspettarci di incontrare ancora parecchi tratti di foresta allagati. "E se è così, non ce la faremo". Per fortuna, dopo aver esplorato per un po' i dintorni, troviamo un tronco caduto che ci permette di superare la parte più profonda della pozza; poi, da lì, guadiamo l'acquitrino fino a raggiungere il terreno asciutto.
Al bordo della pozza sorge un altro albero: un gigante imponente dalla corteccia rugosa, il tronco contorto e contrafforti radicali molto sviluppati. Poiché il programma di Fay prevede di prender nota anche degli alberi più importanti trovati sul cammino, eccolo finire sul taccuino: si chiama Sacoglottis gabonensis, e misura un metro e mezzo di diametro. Di solito, osserva Fay, gli alberi di questa specie non vengono abbattuti, perché i loro tronchi irregolari e fibrosi forniscono legna scadente. L'ampio numero di Sacoglottis gabonensis è un altro indice del fatto che ci troviamo vicino alla costa, e così pure la presenza di Tieghemella africana, un albero apprezzato tanto dalle aziende di legname quanto dagli elefanti. Noto col nome commerciale di douka, raggiunge i due metri di diametro e un' altezza che sfora la volta arborea. Il tronco è diritto e pulito, ideale per la falegnameria, ma produce anche grandi frutti verdi, pieni di una polpa arancione dolciastra simile a quella della zucca: non che sia proprio cattiva, ma sa un po' troppo di gesso per i miei gusti. Gli elefanti, invece, percorrono anche lunghe distanze per rimpinzarsi di questi frutti una volta che, giunti a maturazione, cadono dagli alberi; infatti, le piste di elefanti ben segnate che stiamo percorrendo sembrano proprio collegare un douka all'altro.
Se si tagliano questi alberi quando sono già adulti e producono frutti (con un disboscamento selettivo, ad esempio), il risultato sarà quello di privare la popolazione locale di elefanti di una parte sostanziosa della sua dieta stagionale. Per il momento, però, i cari vecchi douka sono ancora lì; gli escrementi freschi e la corteccia rosicchiata segnalano il recente passaggio degli elefanti. Per un po' proseguiamo sulla pista dei pachidermi, poi udiamo di nuovo le scimmie. Stavolta, la risposta al fischio dell'aquila è un suono basso, a metà fra un grugnito e una risata. L'ho sentito spesso nei mesi scorsi, perciò lo riconosco anch'io: è il grido del cercocebo crestato, un'altra specie la cui sopravvivenza dipende dagli alberi da frutta. "Sembra che i crestati arrivino sino alla costa", commenta Fay. "Mi fa piacere. Ero in pensiero, non ne vedevamo da tre o quattro giorni". Ci rimettiamo in cammino, ma ecco che, dopo pochi minuti, veniamo bloccati dall'ormai famigerato lago nero. Secondo la cartina di Fay, aggirarlo ci avrebbe condotto a Nord, nella piana alluvionale del Rembo Ngové, un luogo di nessun interesse per noi. E comunque, Fay già è partito per la sua missione solitaria, e ora è lì da qualche parte, in mezzo alla vegetazione, che grida ordini.
Jean-Paul Ango (uno degli uomini più giovani e più forti della squadra) sfodera il machete e abbatte un albero, nell'inutile tentativo di creare un ponte di tronchi. No, mi dico, non è questo che Fay ha in mente. Ma allora, cosa vuole? Decido di rompere gli indugi. Entro in acqua più o meno nel punto in cui si è immerso Fay, cercando la stretta secca su cui deve aver camminato lui. Ben presto mi ritrovo con l'acqua fino al collo, e a quel punto comincio a nuotare. Un altro componente della squadra, Thony M'Both, ha avuto la mia stessa idea, e così ci ritroviamo a nuotare a rana su due rotte convergenti verso il boschetto. Dopo un po', veniamo seguiti da gran parte del resto della squadra; non tutti sono convinti, ma hanno paura di essere lasciati indietro. In fila come anatroccoli, avanzano a fatica, attaccati agli zaini impermeabili. Una volta giunti in prossimità del boschetto, io e Thony ci fermiamo. Dove dobbiamo andare? Provo ad arrampicarmi sulle radici sporgenti di un albero semisommerso; uno alla volta, anche gli altri mi seguono. Su un albero vicino vedo Jacques Bosse, un Bantu grosso come un armadio che Fay ha ingaggiato in un accampamento di cercatori d'oro nel Gabon nordorientale.
Con uno strattone, l'uomo issa sull'albero il suo zaino, cui è attaccato un pentolone. Poi scuote la testa e, disgustato, brontola che quello non è un lavoro da uomo. Ce ne stiamo lì, a tremare dal freddo e dalla stanchezza, quand'ecco che Fay esce dal boschetto e riprende il comando. Per prima cosa, si lancia in una sfuriata in grande stile nei confronti di Emmanuel Yeye, il più timido dei pigmei, colpevole di aver lasciato lo zaino a mollo nell'acqua anziché tirarlo su. Ma questo non è che l'inizio di un'aspra filippica diretta a tutta la squadra. Fay li sbeffeggia, li chiama inetti, incompetenti, infantili, stupidi e insubordinati. Tutto ciò in francese, ma il tono che adopera non lascia spazio a dubbi. E va avanti così per un bel pezzo. lo e Nick non siamo nuovi a scenate del genere. Abbiamo visto Fay all'opera fin dai primi giorni di spedizione, quando la squadra era formata da pigmei Bambendjellé, e anche dopo la traversata del Minkébé, quando alcuni uomini, nel corso di una sosta per i rifornimenti, si sono dati a bevute e schiamazzi. Ormai me le aspetto persino: ho capito che le strigliate sono frutto di una tattica calcolata, un espediente cui Fay ricorre di tanto in tanto, a freddo, per riportare nel gruppo ordine e disciplina.
Questa volta, però, Nick e io abbiamo l'impressione che Fay stia davvero esagerando. Usa espressioni sferzanti, offensive, e mentre enumera tutte le mancanze della squadra continua a sbraitare, con un tono degno di un sergente frustrato o un maestrino isterico. "ça me rend fou", ringhia a ripetizione, "questo mi fa impazzire". È possibile. Dopo aver visto gli uomini gettarsi coraggiosamente in acqua, mi sembra evidente che, stavolta, il nostro brillante nonché originale dottor Fay abbia davvero perso la testa. Ma ho torto. Gli eventi successivi e le conversazioni con Fay, unite a ciò che già so della sua personalità e della sua storia, mi convinceranno che anche questa sua ultima sfuriata è razionale e attentamente calibrata. Certo, Fay è stanco e teso, ma non ha affatto perso il suo autocontrollo.
Più scavo dentro di lui, più capisco quanto sia complesso: irascibile e testardo, senza dubbio, ma anche leale e coraggioso. Non è sempre una persona gradevole; a volte sembra tragicamente isolato, altre cinico e arido nei rapporti umani, altre ancora eccessivamente duro ed esigente. Ma il giudizio che, un po' alla volta, mi sono fatto di lui, è quello di un uomo eccezionale, con un gran senso del dovere e della giustizia. "A volte basta un nulla, e in un attimo scoppia il caos più totale", mi dirà alcuni giorni dopo, mentre ce ne stiamo tranquilli sotto una tenda su una collinetta di sabbia che guarda le onde dell'Atlantico. "L'unica soluzione è trasformarsi in una vera carogna. E a me non piace fare la carogna. Non ho alcuna tendenza sadica, e non provo alcun gusto nel dominare le persone. Ma se uno accetta di prendersi certe responsabilità...".
Poi, ripensando a questi 15 mesi di lavoro duro e pericoloso, Fay abbandona l'impersonale e parla sinceramente, in prima persona. "lo sono responsabile dell'intera impresa. Se qualcuno fosse morto durante il Megatransect, sarei stato io a doverne rispondere". Mouko è quasi morto di epatite, ed è stato Fay a curarlo e accudirlo finché non è stato possibile trasportarlo in ospedale. Un altro uomo della squadra, Roger, stava per annegare attraversando un fiume: aveva allegramente ignorato le istruzioni di Fay, ed era rimasto impigliato nelle cinghie dello zaino. Ci sono stati parecchi altri incidenti in acqua, e svariate emergenze mediche. "Prendo sempre molto sul serio questi incidenti", ribadisce Fay, "e altrettanto seriamente prendo la raccolta dei dati". Per tutto il viaggio, mi spiega, ha avuto ben chiari in mente tre obiettivi: portare a termine il viaggio così come era stato concepito, mantenere costante il ritmo di raccolta dei dati, e riportare a casa sano e salvo ogni partecipante alla spedizione.
Tutto il resto non aveva alcuna importanza: né mantenere un clima di democrazia, né badare al suo indice di gradimento nel gruppo. Una volta a destinazione, nei mesi di lavoro successivi i dati di Fay verranno elaborati, correlati, computati e analizzati. Quali sono le foreste più ricche di gorilla? Quanto tempo impiegano gli elefanti a ricolonizzare un' area in cui veniva esercitato il bracconaggio? Che legame c'è fra le strade costruite per trasportare il legname e la presenza o l'assenza di cefalofi, suini della foresta, scimmie cercopitecine? La domanda che ricorre in tutto il lavoro di Fay è: che relazione esiste tra un fenomeno e un altro? La speranza, inoltre, è che questa domanda ne faccia sorgere un'altra: cosa comporta individuare le correlazioni al fine di un'attenta gestione del territorio? Fay scriverà una relazione o un libro, o forse entrambi, e li renderà disponibili su un sito web. "Chi si collega al sito potrà vedere delle correlazioni molto chiare", promette Fay, mentre ce ne stiamo seduti sulla spiaggia.
Incrociando i dati tra loro, in certi casi si giungerà a correlazioni statistiche elevate, e chi osserva potrà dire: "Ma guarda guarda: douka, elefanti: correlazione, zero virgola nove. Interessante". Almeno, questo è ciò che spera Michael Fay. "Di fronte a questi dati, sarà evidente a tutti che questa è una metodologia affidabile". Ma affinché questi sogni meravigliosi si possano realizzare, ci vogliono i dati. Dati che vanno raccolti con continuità, e con rigore. E per assicurare questo obiettivo, il modello organizzativo di Megatransect non poteva che essere l'autocrazia. Durante una delle consuete ramanzine (il motivo: alcuni degli uomini, per viaggiare più leggeri, avevano gettato via parte delle provviste, e la squadra si era ritrovata a corto di cibo), ho sentito Fay dire al gruppo che, se quella fosse stata un' operazione militare, sarebbero finiti tutti in prigione. "È come se ci trovassimo nel corso di un' operazione militare", dice per spiegare quell' episodio. "lo sono il comandante in capo del Megatransect".
Certo, ammette, ad alcuni questo può sembrare un po' eccessivo (forse, dico fra me e me, "offensivo" o "retrogrado" sono termini più appropriati), ma è un concetto che può capire benissimo chiunque abbia vissuto quei mesi di fatiche quotidiane e di pericoli continui. Solo una persona può impartire gli ordini, che vanno eseguiti senza discussioni o sotterfugi; altrimenti, tutta la fatica sarà inutile, e non si riuscirà a raggiungere i tre obiettivi. Che origine ha lo stile militaresco di Fay? È troppo giovane per aver conosciuto il Vietnam o la leva obbligatoria, e troppo vecchio per essersi arruolato in occasione della Guerra del Golfo; a dire il vero, non ha mai servito nelle forze armate. E a pensarci bene, è difficile persino immaginarlo in quelle vesti. Tre o quattro mesi di addestramento avrebbero senza dubbio peggiorato la sua innata tendenza all'insubordinazione, e per lui si sarebbe profilato il rischio di finire davanti a una corte marziale o di essere espulso dall'esercito.
(...)
Ma torniamo al mio exploit acquatico: dopo essermi gettato a nuoto, sono dovuto tornare sulla riva orientale del lago per recuperare lo zaino impermeabile. Verificato che taccuino e binocolo fossero a posto, mi sono riavviato, sempre a nuoto, verso la boscaglia, spingendo lo zaino sull'acqua davanti a me come un giocatore di pallanuoto. Arrivato lì, ho visto gli altri avviarsi lungo il varco aperto da Fay. L'acqua sembra profonda 2 o 3 metri. Nuoto in compagnia di Sophiano Etouck, uno degli uomini più fedeli del gruppo, e di Nick, che cerca di nuotare a cagnolino con lo zaino sulla schiena e la Leica sulla faccia come se fosse un respiratore. Ci fa strada Sophiano, che nuota con il braccio destro mentre nella mano sinistra brandisce il machete. Ogni tanto si alza sull'acqua per tagliare un ramo che intralcia il cammino, poi s'immerge di nuovo in un trionfo di bollicine. La prima volta, Nick e io ci preoccupiamo che possa essere rimasto impigliato nella vegetazione; ma lui, esuberante come una lontra, emerge dall'acqua per menare un altro fendente ai rami. Lo seguo per 45 metri in questa galleria d'acqua, rami e radici, la via che Fay ha aperto durante la sua sparizione. Alla fine, la boscaglia dirada, l'acqua diminuisce d'improvviso, e finalmente ci arrampichiamo sul ripido argine per raggiungere il suolo asciutto.
Mentre Nick e Phil esaminano le macchine fotografiche in cerca di danni, e controllano se ci sono eventuali sanguisughe, io poso lo zaino e torno in acqua per vedere se c'è qualcuno che ha bisogno di una mano. Dopo essermi infilato in un passaggio cieco, ritrovo la galleria e la ripercorro sino al margine orientale della boscaglia. Fay è lì, appollaiato su un albero, dopo aver attraversato il lago per recuperare il suo zaino. Sta aiutando gli ultimi del gruppo. Sa per esperienza chi, fra i suoi uomini, sa nuotare meglio e chi invece ha bisogno di assistenza. Dà ancora qualche ordine, ma il momento di tensione è ormai passato. Ora sembra tranquillo. Prendo lo zaino di Augustin, il botanico, mentre Fay chiude la fila, raccogliendo quello che abbiamo lasciato indietro. Prende anche il mio materassino, che a un certo punto, anziché nello zaino, è finito su un albero. Me lo rende, asciutto.
Alle 12.40 ci troviamo sulla sponda occidentale del lago, intenti a strizzare le nostre camicie (tranne Fay, che non la porta mai), a controllare gli zaini e a crogiolarci al calore del sole che, incredibile ma vero, filtra dalla volta arborea. Scaricando la tensione nervosa, scherziamo e ci rilassiamo. Siamo felici di aver superato quello che, speriamo, sia l'ultimo ostacolo che si frappone fra noi e la costa, la nostra meta. Emmanuel estrae dallo zaino un pacco umido di riso da 5 chili, da cui cola un liquido lattiginoso. Nick etichetta rullini fotografici. Sophiano fuma una sigaretta. Il capo spedizione, a testa bassa, scrive sul suo taccuino impermeabile giallo. Poi, senza ulteriori commenti o rimostranze (ma senza neppure un complimento), Fay spezza bruscamente quell'atmosfera rilassata. Lancia un'occhiata alla sua bussola da polso, si gira verso la foresta e, stendendo il braccio come una spada, dà a Bebe il consueto segnale: da quella parte. Obbediente, Bebe si avvia e comincia ad aprire la pista. Fay si incammina a sua volta. Afferro lo zaino, ci infilo il taccuino, e lo seguo.
Sono sorpreso dai suoi modi bruschi, ma voglio restargli alle calcagna. Può darsi che tra un po' si sciolga, e magari mi faccia qualche confidenza. Chissà, mi chiedo, che non mi spieghi il suo scoppio d'ira. O che trovi sul cammino qualcosa di interessante, da non perdere: una vipera del Gabon, un gorilla, un altro coccodrillo. Il resto della squadra resta indietro, ognuno immerso nei propri pensieri, libero di interpretare gli avvenimenti a suo modo. Alle 13.11 del 453esimo giorno, Fay si ferma per registrare un altro dato; sono escrementi di elefante, vecchi. Poi, sempre in silenzio, riprende a camminare. Fay: un duro, un leader consumato, un anticonformista, uno spirito solitario, uno scienziato coscienzioso, uno strenuo difensore della foresta tropicale, un giudice acuto dei limiti dell'uomo. Ha ancora un po' di lavoro da portare a termine. Non molto, ma i festeggiamenti possono attendere. Mancano ancora tre giorni prima di arrivare alla spiaggia. (David Quammen, 2000)