Mars 2015. Lyrics: canzoni & astrazioni.

 

 

 

 

Oltre le dolcezze dell'Harry's Bar
e le tenerezze di Zanzibar
c'era questa strada...
Oltre le illusioni di Timbuctù
e le gambe lunghe di Babalù
c'era questa strada...
Questa strada zitta che vola via
come una farfalla, una nostalgia,
nostalgia al gusto di curaçao,
forse un giorno meglio mi spiegherò...

 

 

 

 

 

 

 


El "mestée del mes" è dedicato ad alcuni testi di canzoni di autori italiani, con unica eccezione il monologo di Danny De Vito tratto dal film "The big kahuna", ove, a mia personale valutazione, si manifesta poesia a tutto tondo. Parole di essere, mai di avere. Tra un testo e l'altro, dipinti di Georges Mathieu, che danno senso al titolo de "el mestée": lirismo nel verbo e lirismo nel gesto pittorico, ricordando che Mathieu è stato il padre dell'astrazione lirica.

 

 

 

 

 

 

 

 

Lontano lontano.


E lontano, lontano nel tempo,
qualche cosa negli occhi di un altro,
ti farà ripensare ai miei occhi,
i miei occhi che t'amavano tanto.
E lontano, lontano nel mondo,
in un sorriso sulle labbra di un altro,
troverai quella mia timidezza,
per cui tu mi prendevi un po' in giro.
E lontano, lontano nel tempo,
l'espressione di un volto per caso,
ti farà ricordare il mio volto,
l'aria triste che tu amavi tanto.
E lontano, lontano nel mondo,
una sera sarai con un altro,
e ad un tratto chissà come e perché,
ti troverai a parlargli di me...
di un amore ormai troppo lontano.


Tenco, 1966

 

 

 

 

 

 

 

 

Sui ricordi.


Non ricordarmi per i giorni
del sole alto e dei ritorni,
da quella specie di trionfi
e l'emozione e gli occhi gonfi.
Non ricordarmi quando ho vinto
e mi spingeva forte il vento,
e si fermavano i paesi,
un mare di accendini accesi.
Dimentica le mie parole
che han fatto piangere e sognare,
scegliere il falso e il vero verde
e han fatto vincere chi perde.
Non ricordarti del mio cuore,
quando ne aveva più bisogno,
l'arcobaleno di furore,
che ti strozzava in gola un sogno.
Non ricordarmi per l'amore,
quando era facile il destino,
quando frenavo un soffio al cuore
con il tuo corpo lì vicino.
E ci chiudeva gli occhi il lume,
l'ultimo bacio sul tuo seno,
e ci svegliava stretti assieme
la prima stella del mattino.
Per carità non ricordarmi,
come faranno tutti al mondo,
io sono l'ultimo ad amarmi
per cosa scrivo e cosa sento.
Non voglio né celebrazioni,
né comitati di memoria,
l'ultima delle mie intenzioni
è di passare anche alla storia.
Però ricordami nei giorni,
quando nel computo degli anni
ero nell'angolo battuto
simile a un pugile suonato.
Quando da te mi nascondevo
e per non vivere bevevo,
un'armatura da gigante
e dentro un piccolo guerriero,
che non aveva direzione,
che non vedeva porto o mare,
che non aveva strada o cielo
dove potersi arrampicare.
E tu ricordami com'ero
per i miei sbagli senza scuse,
per la mia infanzia di pensiero,
le mie finestre sempre chiuse.
Butta nel fuoco la poesia,
tutta la musica che è mia,
conserva solo l'altro ieri,
i miei biglietti con in fiori.
Ricorda tutte le manie
di quel cialtrone che io sono,
le indecifrabili ironie,
che non ho chiesto mai perdono.
Ricorda quando ti ho perduto,
ricorda quando son caduto,
ricorda quando mi hai tenuto
appeso al mondo con un dito.
Ricorda la teoria di stelle,
su e giù impazzite per la pelle,
quando ero nulla e mi sfioravi,
quando eri tanto e mi sognavi.

 
Vecchioni, 2013

 

 

 

 

 

 

 

 

Il poeta.


Alla sera al caffè con gli amici,
si parlava di donne e motori,
si diceva "son gioie e dolori",
lui piangeva e parlava di te.
Se si andava in provincia a ballare,
si cercava di aver le più belle,
lui, lui restava a contare le stelle,
sospirava e parlava di te.
Alle carte era un vero campione,
lo chiamavano "il ras del quartiere",
ma una sera giocando a scopone,
perse un punto parlando di te.
Ed infine una notte si uccise,
per la gran confusione mentale,
fu un peccato perché era speciale,
proprio come parlava di te.
Ora dicono, fosse un poeta,
che sapesse parlare d'amore,
cosa importa se in fondo uno muore
e non può più parlare di te.


Lauzi, 1963

 

 

 

 

 

 

 

 

Così.


Non amo trincerarmi in un sorriso,
detesto chi non vince e chi non perde,
non credo nelle sacre istituzioni
di gente che ha il potere e se ne serve,
giocattoli di carta in mano ai pazzi
puntati su milioni di persone.
Tu ascolti tutto e cerchi di capirmi,
finendo poi per fare confusione,
e dici che per te non sono in pace.
Certo che almeno in questo mi conosci,
nell'attimo che brucia la ragione,
io butto al fuoco tutte le mie croci
e semino i miei fatti personali,
mischiati a tutto quello che è sociale
e vivo con la stessa dipendenza
gli scandali, le guerre o la spirale.
Mi dici che una regola ci vuole,
qualcuno deve pure aver ragione,
sarà forse che sono diffidente,
ma i capi non son altro che persone,
e trattano le masse come capre,
tosando e macellando l'eccedenza,
sacrificando al fatto personale,
le madri, i figli, i padri e la decenza.
Si macchiano dei crimini più bassi,
per conservare il posto da sedere,
le chiese, il parlamento, i sindacati,
le banche e gli altri centri del potere.
Gli amici, sai, gli amici, tante volte
mi dicono che sono un piantagrane,
che parlo senza un poco di rispetto,
che amo più gli oppressi o le puttane.
Ma sono fatto così e non ci posso far niente.
Prendimi pure così, come mi accetta la gente,
che mi sorride e che mi lascia parlare,
però non mi sente.


Bertoli, 1983

 

 

 

 

 

 

 


Io non appartengo più.


Io non appartengo più alle cose del mio tempo,
non mi riconosco più, lì, nascosto dietro un canto.
Non mi basta nemmeno il cuore per giustificare, capire, sentire, immaginare.
Non mi basta la forza degli occhi per voltarmi e non guardare.
Io non appartengo più, viaggio come un clandestino,
in una nave senza rotta, già segnata dal destino.
Io non appartengo più ai borghesi, agli inciuciai,
alle banche, ai cazzinculo e mi scuso,
ma c'ho pure il dubbio che sia perfino Dio un refuso.
Sono sveglio dentro un sonno di totale indifferenza,
che persino tra le gambe mi si è persa la pazienza.
Io non appartengo al tempo del delirio digitale,
del pensiero orizzontale, di democrazia totale.
Appartengo a un altro tempo scritto sopra le mie dita,
con i segni di chitarra che mi rigano la vita.
Io l'ho vista la bellezza e ce l'ho stampata in cuore,
imbranata giovinezza a ogni nuovo antico amore.
Io non appartengo più, mi fa ridere lo ammetto,
ma vi giuro non lo faccio per malinconia o dispetto.
Non lo dico per stanchezza,
al calar del sipario su spettatori immaginari,
sono gli uomini la stizza, sono i loro stupidari.
Così corrono ad Oriente e non c'è stella cometa
e moltiplicano il niente per chiamarlo ancora vita,
come chi ha dimenticato, come chi non ha provato,
come chi si è sorpassato, non si è visto e ha continuato.
Io non appartengo a un tempo che non mi ha insegnato niente,
tranne che puoi esser uomo, ma non diventare gente.
Io volevo ed erano voli di uno sparso antico sogno,
per non rimanere soli, accecati nell'abbaglio.
Io non appartengo e lascio uno spiraglio alla mia porta,
solo quando vieni, fallo con l'amore di una volta.

 
Vecchioni, 2013

 

 

 

 

 

 

 


Il bacio sulla bocca.


Bella, che ci importa del mondo,
verremo perdonati, te lo dico io,
da un bacio sulla bocca un giorno o l'altro.
Ti sembra tutto visto, tutto già fatto,
tutto quell'avvenire già avvenuto,
scritto, corretto e interpretato da altri meglio che da te.
Bella, non ho mica vent'anni, ne ho molti di meno
e questo vuol dire, capirai, responsabilità,
perciò...
Volami addosso, se questo è un valzer,
volami addosso qualunque cosa sia,
abbraccia la mia giacca sotto il glicine
e fammi correre,
inciampa piuttosto che tacere, e domanda,
piuttosto che aspettare.
Stancami e parlami, abbracciami,
guarda dietro le mie spalle,
poi racconta e spiegami tutto questo tempo nuovo
che arriva con te.
Mi vedi pulito, pettinato,
ho proprio l'aria di un campo rifiorito,
e tu sei il genio scaltro della bellezza
che il tempo non sfiora.
Ah, eccolo il quadro dei due vecchi pazzi
sul ciglio del prato di cicale,
con l'orchestra che suona fili d'erba e fisarmoniche...
Ti dico: bella, che ci importa del mondo.
Stancami e parlami,
abbracciami. fruga dentro le mie tasche
poi perdonami, sorridi,
guarda questo tempo che arriva con te,
guarda quanto tempo arriva con te.


Fossati, 2003

 

 

 

 

 

 

 


Goditi potere e bellezza della tua gioventù, non ci pensare.
Il potere di bellezza e gioventù lo capirai solo una volta appassite.
Ma credimi, tra vent'anni guarderai quelle tue vecchie foto,
e in un modo che non puoi immaginare adesso.
Quante possibilità avevi di fronte, e che aspetto magnifico avevi.
Non eri per niente grassa come ti sembrava.
Non preoccuparti del futuro, oppure preoccupati,
ma sapendo che questo ti aiuta,
quanto masticare un chewing-gum per risolvere una equazione algebrica.
I veri problemi della vita,
saranno sicuramente cose che non t'erano mai passate per la mente.
Di quelle che ti pigliano di sorpresa alle 4 di un pigro martedì pomeriggio.
Fa una cosa, ogni giorno che sei spaventata, canta.
Non essere crudele col cuore degli altri,
non tollerare la gente che è crudele col tuo.
Lavati i denti, non perder tempo con l'invidia.
A volte sei in testa, a volte resti indietro.
La corsa è lunga, e, alla fine, è solo con te stessa.
Ricorda i complimenti che ricevi, scordati gli insulti,
ma se ci riesci veramente, dimmi come si fa.
Conserva tutte le vecchie lettere d'amore, butta i vecchi estratti conto.
Rilassati, non sentirti in colpa se non sai cosa vuoi fare della tua vita,
le persone più interessanti che conosco,
a vent'anni non sapevano che fare della loro vita.
I cinquantenni più interessanti che conosco, ancora non lo sanno.
Prendi molto calcio, sii gentile con le tue ginocchia,
quando saranno partite ti mancheranno.
Forse ti sposerai o forse no, forse avrai figli o forse no,
forse divorzierai a quarant'anni,
forse ballerai con lui al 75° anniversario di matrimonio.
Comunque vada, non congratularti troppo con te stessa,
ma non rimproverarti neanche.
Le tue scelte sono scommesse, come quelle di chiunque altro.
Goditi il tuo corpo, usalo in tutti i modi che puoi,
senza paura e senza temere quel che pensa la gente,
è il più grande strumento che potrai mai avere.
Balla, anche se il solo posto che hai per farlo è il tuo soggiorno.
Leggi le istruzioni, anche se poi non le seguirai.
Non leggere le riviste di bellezza, ti fanno solo sentire orrenda.
Cerca di conoscere i tuoi genitori,
non puoi sapere quando se ne andranno per sempre.
Tratta bene i tuoi fratelli, sono il miglior legame con il passato,
e quelli che più probabilmente avranno cura di te in futuro.
Renditi conto che gli amici vanno e vengono,
ma alcuni, i più preziosi, rimarranno.
Datti da fare per colmare le distanze geografiche e gli stili di vita,
perché, più diventi vecchia,
più hai bisogno delle persone che conoscevi da giovane.
Vivi a New York per un po', ma lasciala prima che ti indurisca.
Vivi anche in California per un po', ma lasciala prima che ti rammollisca.
Non fare pasticci con i capelli, se no, quando avrai quarant'anni,
sembreranno quelli di un'ottantacinquenne.
Sii cauta nell'accettare consigli, ma sii paziente con li dispensa.
I consigli sono una forma di nostalgia,
dispensarli è un modo di ripescare il passato dal dimenticatoio,
ripulirlo, passare la vernice sulle parti più brutte,
e riciclarlo per più di quel che valga.
Ma accetta il consiglio... per questa volta.

 
Da "The Big Kahuna", 2000

 

 

 

 

 

 

 

 

E un giorno.


E un giorno ti svegli stupita e di colpo ti accorgi,
che non sono più quei fantastici giorni all'asilo,
di giochi, di amici, e se ti guardi attorno non scorgi
le cose consuete, ma un vago e indistinto profilo.
E un giorno cammini per strada e ad un tratto comprendi,
che non sei la stessa che andava al mattino alla scuola,
che il mondo là fuori t'aspetta e tu quasi ti arrendi,
capendo che, a battito a battito, è l'età che s'invola.
E tuo padre ti sembra più vecchio e ogni giorno si fa più lontano,
non racconta più favole e ormai non ti prende per mano,
sembra che non capisca i tuoi sogni sempre tesi fra realtà e sperare,
sospesi fra voglie alternate di andare e restare.
E un giorno ripensi alla casa e non è più la stessa,
in cui lento il tempo sciupavi quand'eri bambina,
in cui ogni oggetto era un simbolo ed una promessa
di cose incredibili e di caffellatte in cucina.
E la stanza coi poster sul muro ed i dischi graffiati
persi in mezzo ai tuoi libri e a regali che neanche ricordi,
sembra quasi il racconto di tanti momenti passati,
come il piano studiato e lasciato anni fa su due accordi.
E tuo padre ti sembra annoiato, e ogni volta si fa più distratto,
non inventa più giochi e con te sta perdendo il contatto.
E tua madre lontana e presente,
sui tuoi sogni, ha da fare e da dire,
ma può darsi non riesca a sapere che sogni gestire.
Poi un giorno, in un libro o in un bar, si farà tutto chiaro,
capirai che altra gente si è fatta le stesse domande,
che non c'è solo il dolce ad attenderti, ma molto d'amaro,
e non è senza un prezzo salato diventare grande.
I tuoi dischi, i tuoi poster saranno per sempre scordati,
lascerai sorridendo svanire i tuoi miti felici,
come oggetti di bimba, lontani ed impolverati,
troverai nuove strade, altri scopi, ed avrai nuovi amici.
Sentirai che tuo padre ti è uguale,
lo vedrai un po' folle, un po' saggio
nello spendere sempre ugualmente paura e coraggio,
la paura e il coraggio di vivere
come un peso che ognuno ha portato,
la paura e il coraggio di dire: "io ho sempre tentato".


Guccini, 2000

 

 

 

 

 

 

 

 

E tu mi vieni a dire.


E tu mi vieni a dire che l'uomo muore,
lontano dalla vita, lontano dal dolore,
nella quasi indifferenza non è più capace
di ritrovare il suo pianeta fatto di aria e luce.
E tu mi vieni a dire che il mio presente
è come un breve amore del tutto inconsistente,
che preso dai miei sogni, io non mi sto accorgendo
che siamo al capolinea, al termine del mondo.
E tu mi vieni a dire che tutto è osceno,
che non c'è più nessuno che sceglie il suo destino,
non ci rendiamo conto che siamo tutti in preda
di un grande smarrimento, di una follia suicida.
E sento che hai ragione,
se mi vieni a dire che l'uomo sta correndo,
e coi progressi della scienza ha già stravolto il mondo,
però non sa capire che cosa c'è di vero
nell'arco di una vita tra la culla e il cimitero.
E tu mi vieni a dire c'è solo odio,
ci sarà sempre qualche guerra, qualche altro genocidio,
e anche in certi gesti che sembran solidali,
non c'è più l'individuo, siamo ormai tutti uguali.
E sento che hai ragione,
se mi vieni a dire che anche i più normali,
in mezzo ad una folla, diventano bestiali,
e questa specie di calma del nostro mondo civile
è solo un'apparenza, solo un velo sottile.
E tu mi vieni a dire, quasi gridando,
che non c'è più salvezza, sta sprofondando il mondo,
ma io ti voglio dire che non è mai finita,
che tutto quel che accade fa parte della vita.

 
Gaber-Luporini, 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

A muso duro.


Adesso che farò, non so che dire,
e ho freddo come quando stavo solo,
ho sempre scritto i versi con la penna,
non ordini precisi di lavoro.
Ho sempre odiato i porci ed i ruffiani,
e quelli che rubavano un salario,
i falsi che si fanno una carriera,
con certe prestazioni fuori orario.
Ho speso quattro secoli di vita,
e ho fatto mille viaggi nei deserti,
perché volevo dire ciò che penso,
volevo andare avanti ad occhi aperti.
Adesso dovrei fare le canzoni,
con i dosaggi esatti degli esperti,
magari poi vestirmi come un fesso,
per fare il deficiente nei concerti.
Non so se sono stato mai poeta,
e non mi importa niente di saperlo,
riempirò i bicchieri del mio vino,
non so com'è però vi invito a berlo.
E le masturbazioni celebrali
le lascio a chi è maturo al punto giusto,
le mie canzoni voglio raccontarle
a chi sa masturbarsi per il gusto.
Canterò le mie canzoni per la strada,
ed affronterò la vita a muso duro,
un guerriero senza patria e senza spada,
con un piede nel passato
e lo sguardo dritto e aperto nel futuro,
e non so se avrò gli amici a farmi il coro,
o se avrò soltanto volti sconosciuti,
canterò le mie canzoni a tutti loro
e alla fine della strada,
potrò dire che i miei giorni li ho vissuti.


Bertoli, 1979

 

 

 

 

 

 

 

 

Cirano.

 
Venite pure avanti, voi con il naso corto,
signori imbellettati, io più non vi sopporto,
infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio,
perché con questa spada vi uccido quando voglio.
Venite pure avanti poeti sgangherati,
inutili cantanti di giorni sciagurati,
buffoni che campate di versi senza forza,
avrete soldi e gloria, ma non avete scorza.
Godetevi il successo, godete finché dura,
che il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura,
e andate chissà dove per non pagar le tasse,
col ghigno e l'ignoranza dei primi della classe.
Io sono solo un povero cadetto di Guascogna,
però non la sopporto la gente che non sogna.
Gli orpelli, l'arrivismo, all'amo non abbocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!
Facciamola finita, venite tutti avanti,
nuovi protagonisti, politici rampanti,
venite portaborse, ruffiani e mezze calze,
feroci conduttori di trasmissioni false,
che avete spesso fatto del qualunquismo un arte,
coraggio liberisti, buttate giù le carte,
tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese
in questo benedetto, assurdo bel paese.
Non me ne frega niente se anch'io sono sbagliato,
spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato,
coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco,
e al fin della licenza, io non perdono e tocco,
Ma quando sono solo, con questo naso al piede,
che almeno di mezz'ora da sempre mi precede,
si spegne la mia rabbia e ricordo con dolore,
che a me è quasi proibito il sogno di un amore.
Non so quante ne ho amate, non so quante ne ho avute,
per colpa o per destino, le donne le ho perdute,
e quando sento il peso d'essere sempre solo,
mi chiudo in casa e scrivo, e scrivendo mi consolo.
Ma dentro di me sento che il grande amore esiste,
amo senza peccato, amo, ma sono triste,
perché Rossana è bella, siamo così diversi,
ed a parlar non riesco, le parlerò coi versi.
Venite gente vuota, facciamola finita,
voi preti che vendete a tutti un' altra vita,
se c'è, come voi dite, un Dio nell'infinito,
guardatevi nel cuore, l'avete già tradito.
E voi materialisti, col vostro chiodo fisso,
che Dio è morto e l'uomo è solo in questo abisso,
le verità cercate in terra, da maiali,
tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali;
tornate a casa nani, levatevi davanti,
per la mia rabbia enorme mi servono giganti.
Ai dogmi e ai pregiudizi da sempre non abbocco,
e al fin della licenza, io non perdono e tocco,
Io tocco i miei nemici, col naso e con la spada,
ma in questa vita oggi non trovo più la strada,
non voglio rassegnarmi ad essere cattivo,
tu sola puoi salvarmi, tu sola e te lo scrivo;
dev'esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto,
dove non soffriremo e tutto sarà giusto.
Non ridere, ti prego, di queste mie parole,
io sono solo un'ombra e tu, Rossana, il sole.
Ma tu, lo so, non ridi, dolcissima signora,
ed io non mi nascondo sotto la tua dimora,
perché oramai lo sento, non ho sofferto invano,
se mi ami come sono, per sempre tuo... Cirano.


Guccini, 1996

 

 

 

 

 

 

 

 

I cani sciolti.

 
Da soli non si può far niente,
non è che io non dia valore all'individuo,
ma credo che un momento collettivo
sia un bisogno dell'uomo per sentirsi vivo,
per crescere e imparare bisogna essere in molti,
e non si può contare sui cani sciolti.
Da soli non si può far niente,
è giusto trovare una propria appartenenza,
un fondersi di idee e intenzioni
per distruggere un mondo di corruzioni,
per poter ricominciare ci voglion nuovi volti,
e non si può contare sui cani sciolti.
Da soli non si può far niente,
bisogna tentare una qualche aggregazione,
la sento come l'unica salvezza,
un'unione che dia una sicurezza;
ci dobbiamo ritrovare per non essere travolti,
e non si può contare sui cani sciolti.
Ma i cani sciolti, un po' individualisti, un po' anarcoidi,
sono gli ultimi utopisti;
purtroppo non si accontentano delle elezioni,
dei partiti e delle coalizioni
ne hanno pieni i coglioni.
Non ce la fanno a delegare, se non si sentono coinvolti,
sono proprio allergici al potere... i cani sciolti.


Gaber-Luporini, 1994

 

 

 

 

 

 

 

 

Figlia.


Sapeva tutta la verità,
il vecchio che vendeva carte e numeri,
però tua madre è stata dura da raggiungere,
lo so che senza me non c'era differenza,
saresti comunque nata, ti avrebbe comunque avuta.
Non c'era fiume quando l'amai,
non era propriamente ragazza,
però penso di aver fatto del mio meglio,
così a volte guardo se ti rassomiglio,
lo so, lo so che non è giusto, però mi serve pure questo.
Poi ti diranno che avevi un nonno generale,
e che tuo padre era al contrario un po' anormale,
e allora saprai che porti il nome di un mio amico,
di uno dei pochi che non mi hanno mai tradito,
perché sei nata il giorno che a lui moriva un sogno.
E i sogni, i sogni, i sogni vengono dal mare,
per tutti quelli che han sempre scelto di sbagliare,
perché, perché vincere significa "accettare",
se arrivo vuol dire che a "qualcuno può servire",
e questo, lo dovessi mai fare,
tu, questo, non me lo perdonare.
E figlia, figlia, non voglio che tu sia felice,
ma sempre "contro", finché ti lasciano la voce.
Vorranno la foto col sorriso deficiente,
diranno: "Non ti agitare, che non serve a niente".
E invece tu grida forte, la vita contro la morte.
E figlia, figlia, figlia sei bella come il sole,
come la terra, come la rabbia, come il pane,
e so che t'innamorerai senza pensare,
e scusa, scusa se ci vedremo poco e male,
lontano mi porta il sogno, ho un fiore qui dentro il pugno.


Vecchioni, 1976

 

 

 

 

 

 

 

 

Addio.


Nell'anno '99 di nostra vita,
io, Francesco Guccini, eterno studente,
perché la materia di studio sarebbe infinita
e soprattutto perché so di non sapere niente;
io, chierico vagante, bandito di strada,
io, non artista, solo piccolo baccelliere,
perché, per colpa d'altri, vada come vada,
a volte mi vergogno di fare il mio mestiere.
Io dico addio a tutte le vostre cazzate infinite,
riflettori e paillettes delle televisioni,
alle urla scomposte di politicanti professionisti,
a quelle vostre glorie vuote da coglioni.
E dico addio al mondo inventato del villaggio globale,
alle diete per mantenersi in forma smagliante,
a chi parla sempre di un futuro trionfale,
e ad ogni impresa di questo secolo trionfante,
alle magie di moda delle religioni orientali,
che da noi nascondono soltanto vuoti di pensiero,
ai personaggi cicaleggianti dei talk-show,
che squittiscono ad ogni ora un nuovo "vero",
alle futilità pettegole sui calciatori miliardari,
alle loro modelle senza umanità,
alle sempiterne belle in gara sui calendari,
a chi dimentica o ignora l'umiltà.
Io, figlio d'una casalinga e di un impiegato,
cresciuto fra i saggi ignoranti di montagna,
che sapevano Dante a memoria e improvvisavano di poesia;
io, tirato su a castagne ed ad erba spagna,
io, sempre un momento fa campagnolo inurbato,
due soldi d'elementari ed uno d'università,
ma sempre il pensiero a quel paese mai scordato,
dove ritrovo anche oggi quattro soldi di civiltà.
Io dico addio a chi si nasconde con protervia dietro a un dito,
a chi non sceglie, non prende parte, non si sbilancia,
o sceglie a caso per i tiramenti del momento,
curando però sempre di riempirsi la pancia;
e dico addio alle commedie tragiche dei sepolcri imbiancati,
ai ceroni ed ai parrucchini per signore,
alle lampade e tinture degli eterni non invecchiati,
al mondo fatto di ruffiani e di puttane a ore,
a chi si dichiara di sinistra e democratico,
però è amico di tutti perché non si sa mai;
e poi anche chi è di destra ha i suoi pregi e gli è simpatico,
ed è anche fondamentalista per evitare guai,
a questo orizzonte di affaristi e d'imbroglioni,
fatto di nebbia, pieno di sembrare,
ricolmo di nani, ballerine e canzoni,
di lotterie, l'unica fede il cui sperare.
Nell'anno '99 di nostra vita,
io, giullare da niente, ma indignato,
anch'io qui canto con parola sfinita,
con un ruggito che diventa belato,
ma a te dedico queste parole da poco,
che sottendono solo un vizio antico,
sperando però che tu non le prenda come un gioco,
tu, ipocrita uditore, mio simile...mio amico.


Guccini, 2000

 

 

 

 

 

 

 

 

I reduci.

 
E allora è venuta la voglia di rompere tutto:
le nostre famiglie, gli armadi, le chiese, i notai,
i banchi di scuola, i parenti, le "centoventotto",
trasformare in coraggio la rabbia che è dentro di noi.
E tutto che saltava in aria, e c'era un senso di vittoria,
come se tenesse conto del coraggio, la storia.
E allora è venuto il momento di organizzarsi,
di avere una linea e di unirsi intorno a un'idea,
dalle scuole ai quartieri, alle fabbriche, per confrontarsi,
decidere insieme la lotta in assemblea.
E tutto che sembrava pronto per fare la rivoluzione,
ma era una tua immagine o soltanto una bella intenzione.
E allora è venuto il momento dei lunghi discorsi,
ripartire da zero e occuparsi un momento di noi,
affrontare la crisi, parlare, parlare e sfogarsi
e guardarsi di dentro per sapere chi sei.
E c'era l'orgoglio di capire, e poi la certezza di una svolta,
come se capir la crisi voglia dire che la crisi è risolta.
E allora ti torna la voglia di fare un'azione,
ma ti sfugge di mano e si invischia ogni gesto che fai,
la sola certezza che resta è la tua confusione,
il vantaggio di avere coscienza di quello che sei,
ma il fatto di avere la coscienza che sei nella merda più totale,
è l'unica sostanziale differenza da un borghese normale.
E allora ci siamo sentiti insicuri e stravolti,
come reduci laceri e stanchi, come inutili eroi,
con le bende perdute per strada e le fasce sui volti.
Già a vent'anni siam qui a raccontare ai nipoti,
che noi buttavamo tutto in aria, e c'era un senso di vittoria,
come se tenesse conto del coraggio... la storia.

 
Gaber-Luporini, 1976

 

 

 

 

 

 

 

 

Canzone di notte.


Ore confuse nella notte,
la malinconia non è uno stato d'animo,
le vite altrui si sono rotte
e sembra non esista più il tuo prossimo.
Ti vesti un poco di silenzio,
hai la dolce illusione di esser solo,
son macchine che passano od è il vento,
o sono i tuoi pensieri alzati in volo.
I tuoi pensieri un po' ubriachi,
danzando per le strade si allontanano,
ti son sfuggiti dalla mano
e il giorno sembra ormai così lontano.
Mattino o notte, hai perso il tempo,
la malinconia ti sembra di toccarla,
ma forse è l'ora dell'avvento
e chiami l'ironia per aiutarla.
E forse c'è qualcuno che ora muore,
e forse c'è qualcuno che ora nasce,
qualcuno compie un crimine d'onore,
passeggiano sui viali le bagasce.
Bagasce sono i tuoi ricordi,
che fra canzoni e vino ti disturbano,
che ti molestano pian piano
e il giorno sembra ormai così lontano.
Mattino o notte, cosa importa?
I giorni sono nuvole distratte.
Suonerò l'ora alla tua porta
e l'orologio è il sangue tuo che batte.
Quando verrà il tempo di partire
l'ora avrà il medesimo colore,
e sembra sempre un poco di morire
nel momento eroico dell'amore.
Se ridi o piangi è sempre uguale,
le cose nel ricordo poi si sfumano,
il sacro si unirà al profano
e il giorno sembra ormai così lontano.
Mattino o notte, dentro e fuori,
sei certo o cerchi la consolazione.
Son bianco e nero sol colori,
o facce ambigue della tua prigione.
Cerchi sempre ciò che ti è lontano,
dopo dici: "Tutto è relativo,"
ma l' ironia e il dolor dicono invano,
che sei certo solo di esser vivo.
Ma c'è ancor tempo per pensare,
per maledire e per versare il vino,
per pianger, ridere e giocare
e il giorno sembra ormai così vicino.


Guccini, 1971

 

 

 

 

 

 

 

 

I soli.


I soli sono individui strani,
con il gusto di sentirsi soli fuori dagli schemi,
non si sa bene cosa sono,
forse ribelli, forse disertori,
nella follia di oggi, i soli sono i nuovi pionieri.
I soli e le sole non hanno ideologie,
a parte una strana avversione per il numero due,
senza nessuna appartenenza,
senza pretesti o velleità sociali,
senza nessuno a casa a frizionarli con unguenti coniugali.
Ai soli non si addice l'intimità della famiglia,
magari solo un po' d'amore quando ne hanno voglia,
un attimo di smarrimento, un improvviso senso d'allegria,
allenarsi a sorridere per nascondere la fatica.
I soli si annusano tra loro,
sono così bravi a crearsi intorno un senso di mistero,
sono gli Humphrey Bogart dell'amore,
sono gli ambulanti, son gli dèi del caso.
I soli sono gli eroi del nuovo mondo coraggioso.
I soli e le sole ormai sono tanti,
con quell'aria un po' da saggi, un po' da adolescenti,
a volte pieni di energia, a volte tristi, fragili e depressi.
I soli han l'orgoglio di bastare a se stessi.
Ai soli non si addice il quieto vivere sereno,
qualche volta è una scelta, qualche volta un po' meno,
aver bisogno di qualcuno, cercare un po' di compagnia,
e poi vivere in due e scoprire che siamo tutti soli.
La solitudine non è malinconia,
un uomo solo è sempre in buona compagnia.

 
Gaber-Luporini, 1987

 

 

 

 

 

 

 

 

Non amo più.

 
Sarà il vento della sera che mi sfoglia,
che mi svela, che mi intride il cuore;
sarà questo rivedere la mia vita
come un grande inimitabile perduto amore;
sarà che mi sento stanco, di pensieri,
di parole, di persone e anche di idee,
questo mare che va sempre avanti e indietro
con le sue maree.
Sarai tu, coi tuoi vent'anni,
che mi vedi come fossi il re del mondo;
sarà il cane che mi guarda come un cane,
e piscia sempre controvento;
sarai tu, coi tuoi vent'anni,
che mi sfiori con le ali per volare via,
e sarà che mi sembra un figlio perso in guerra,
la malinconia.
Ma stasera all'improvviso mi succede,
e non c'entri tu... non amo più.
Sarà il sogno che si perde,
se lo chiamo non mi sente, non risponde più;
sarà questa donna triste,
che ho lasciato senza un gesto scivolare giù;
sarà colpa dello specchio
che riflette l'altro uomo che vedevo allora,
quello che mi ha fatto un mucchio di promesse,
e non è stato di parola.
Sarà il libro che leggevo,
la canzone che credevo mia,
o sarà semplicemente che il mio pene
non ha più nessuna fantasia.
Sarai tu, coi tuoi vent'anni,
che sei qui per caso e che mi dai la mano,
sarai tu, coi tuoi vent'anni,
sarà questa tosse, sarà questo fumo.
Ma stasera non puoi farci niente,
neanche tu... non amo più.

 
Vecchioni, 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

Cent'anni di meno.


Stesi nell'erba tra i fiori di campo,
persi a narrarci future fortune,
coi sensi colmi di voglia di vita,
in tasca solo speranza infinita,
e una fiducia infinita nel seno...
quando avevamo cent'anni di meno.
Quando una donna era fatta di nebbia
e dalle labbra stillava rugiada,
da quella bocca spandeva all'intorno
inni alla nascita nuova del giorno,
e i suoi capelli odoravan di fieno...
quando avevamo cent'anni di meno.
Mille cannoni perduti da un bacio,
noi credevamo alla pace nel mondo,
bastava un dolce sorriso, uno sguardo,
tutti abbracciati in un bel girotondo,
anche al diluvio davamo il suo freno...
quando avevamo cent'anni di meno.
Oltre i confini di un chiaro orizzonte
nascevan solo mattini di pace,
la fame, il freddo, la tetra miseria
o il malgoverno di qualche incapace,
tutto sfumava in un cielo sereno...
quando avevamo cent'anni di meno.
Luce accecante ci entrava negli occhi
e dipingeva di rosa il cammino,
gli sfruttatori, gli schiavi del vizio
o i giustizieri di un vecchio ronzino,
li lasciavamo fuori dal treno...
quando avevamo cent'anni di meno.
Sopra alle sponde di un lago di pane
noi portavamo l'intero creato,
poi cantavamo canzoni all'amore,
nudi tra gli alberi ai bordi di un prato,
paghi d'amore col cuore ripieno...
quando avevamo cent'anni di meno.
Sotto alle stelle in un bar dentro casa
senza deciderci ad andare a dormire,
noi volavamo su Marte o la Luna,
felici solo di starci a sentire,
e credevamo a un domani sereno...
quando avevamo cent'anni di meno.

 
Bertoli, 1981

 

 

 

 

 

 

 

 

Se sapessi.


Una logica ormai acquisita
è che l'uomo è provvisorio,
e che ha un senso un po' precario della vita.
Ma morire è un gesto innaturale,
che di solito è accettato
per un dato più statistico che razionale.
Se io sapessi cosa mi fa bene,
se io sapessi cosa mi fa male,
nella marea di cose e di persone che c'ho intorno;
se non tradissi le mie pulsioni vere,
potrei sul serio diventare un uomo pluricentenario,
forse eterno.
Se io sapessi quanto sono strani
i miei pensieri e le emozioni,
se avessi letto un po' meglio il mio libretto di istruzioni;
se io sapessi, d'un tratto io sapessi, se quando sono nato,
i miei han ringraziato Iddio o hanno imprecato;
se io sapessi uscire allo scoperto, se io mi fossi accorto
che mio fratello o qualcun altro mi voleva morto;
se io sapessi, al di là delle parole,
che il mio inferno infantile
sarà sempre presente al mio fianco, al mio capezzale.
Se io sapessi fisicamente
cosa mi fa bene e cosa mi fa male,
se io sapessi più concretamente
cosa mi fa bene, cosa mi fa male.
Se io sapessi perché la mia salute
fa delle cose un po' insensate,
e io non riesco nemmeno a spiegarmi una banale gastrite;
se io sapessi, che bello se sapessi,
se quando soffro per amore
mi convenga toccare il fondo o andarmene a ballare;
se io sapessi scegliermi un'amante,
se io sapessi veramente
distinguere un delirio idiota da uno intelligente;
se io sapessi se sia meglio essere fedele,
e in ossequio alla morale,
rinunciare tranquillamente a una scopata celestiale.
Se io sapessi le mie fatiche umane,
e le commedie quotidiane,
se fossi certo che almeno io mi voglio un po' di bene;
se io sapessi, magari io sapessi,
se ho dato ai figli il giusto amore
o sono stato, come quasi tutti, un padre di mestiere;
se io sapessi se lei che è così forte,
e condivide la mia sorte,
sarà schierata comunque e per sempre dalla mia parte;
se io sapessi se nel nostro convivere civile,
in questo abbraccio generale,
c'è anche chi piangerà veramente al mio funerale.

 
Gaber-Luporini, 1995

 

 

 

 

 

 

 

 

Ci sono dei momenti.


Ci sono dei momenti che ho voglia di star solo,
rinchiuso in una stanza a pensare ai fatti miei,
e almeno in quei momenti la mia disperazione
è troppo più importante, esisto solo io.
Vi confesso che in questi momenti...
io me ne frego di quel che succede,
me ne frego della politica,
della gente che muore ogni giorno,
dell'America, della Russia, della Cina.
In questi momenti,
io me ne frego delle guerre civili,
me ne frego dell'imperialismo,
non mi importa del Vietnam,
non mi importa del comunismo.
In questi momenti,
io me ne frego degli operai,
me ne frego dei licenziamenti,
me ne frego di Marx e di Lenin,
non sopporto Gianfranco Serena, i discorsi del baretto,
me ne frego, me ne frego, me ne frego.
In questi momenti vedo solo la mia vita,
e la mia sofferenza è la mia sola verità.
In questi momenti,
cari compagni, ributtatemi nella realtà.

 
Gaber-Luporini, 1972

 

 

 

 

 

 

 

 

Incontro.


E correndo mi incontrò lungo le scale,
quasi nulla mi sembrò cambiato in lei,
la tristezza poi ci avvolse come miele,
per il tempo scivolato su noi due.
Il sole che calava già rosseggiava la città,
già nostra e ora straniera e incredibile e fredda;
come un istante "deja vu",
ombra della gioventù, ci circondava la nebbia.
Auto ferme ci guardavano in silenzio,
vecchi muri proponevan nuovi eroi,
dieci anni da narrare l'uno all'altro,
ma, le frasi rimanevan dentro in noi;
"cosa fai ora? Ti ricordi? Eran belli i nostri tempi,
ti ho scritto è un anno, mi han detto che eri ancor via".
E poi la cena a casa sua, la mia nuova cortesia,
stoviglie colore nostalgia.
E le frasi, quasi fossimo due vecchi,
rincorrevan solo il tempo dietro a noi,
per la prima volta vidi quegli specchi,
capii i quadri, i soprammobili ed i suoi.
I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway,
il sentirsi nuovi, le cose sognate e ora viste;
la mia America e la sua,
diventate nella via, la nostra città tanto triste.
Carte e vento volan via nella stazione,
freddo e luci accesi forse per noi lì,
ed infine, in breve, la sua situazione,
uguale quasi a tanti nostri films;
come in un libro scritto male, s'era ucciso per Natale,
ma il triste racconto sembrava assorbito dal buio.
Povera amica che narravi dieci anni in poche frasi,
ed io i miei in un solo saluto.
E pensavo, dondolato dal vagone:
"Cara amica il tempo prende il tempo dà;
noi corriamo sempre in una direzione,
ma qual sia e che senso abbia chi lo sa.
Restano i sogni senza tempo,
le impressioni di un momento,
le luci nel buio di case intraviste da un treno,
siamo qualcosa che non resta,
frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno."


Guccini, 1972

 

 

 

 

 

 

 

 

Amico mio.


Amico mio,
c'è la nebbia oggi su Milano,
e vedessi com'è bello fuori,
proprio come quando giocavamo,
soltanto ieri.
Amico mio,
io ti tiro giù da questo letto,
e ce ne andiamo in giro a far gli scemi,
come quando toccavamo a tutte
il culo e i seni.
Uscirai con me da questa stanza,
perché il tempo non ci frega mai,
e gli diremo forte alla speranza
che non serve, che può anche andarsene, sai,
e la faremo vedere a chi sta in cielo,
chi siamo noi.
Amico mio,
vorrei scriverti una ninna nanna,
una lettera che sia per sempre,
o la favola che torna a casa
la tua donna.
Amico mio,
non sei tu che non ci sei riuscito,
sono gli altri che non hanno capito,
sono gli altri che hanno abbandonato,
tu sei il migliore.
Ti terrò la mano questa sera,
senza chiederti se è presto o tardi,
parlerai di noi la notte intera
a rincoglionirmi di ricordi,
e sarai lo stesso amico sempre
finché mi parli.
Amico mio,
siamo qui accecati in un abbaglio,
e ogni tanto si apre uno spiraglio,
e in un canto di miseria grande
ci batte il cuore.
Amico mio,
tu mi hai lasciato quasi niente e tanto,
di avere riso insieme e avere pianto,
e altre sciocchezze che facciamo noi uomini
ogni tanto.
E non c'è stata mai una donna al mondo,
che io abbia amato quanto ho amato te,
come non c'è nessuna cosa al mondo,
che non farei perché restassi con me,
ma sta sicuro che dovunque tu vada
io scoprirò dov'è.
Amico mio,
tu volerai sopra una nave a vela,
ti accenderai come una stella a sera,
e sarai sempre tu, il tuo viso e la tua voce,
e di lassù mi indicherai col dito,
dicendo a tutti "quello è il mio amico"
e quando tutti mi vedranno,
allora sarai felice.


Vecchioni, 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

Non è un film.


Non è un film quello che scorre intorno,
che vediamo ogni giorno,
che giriamo distogliendo lo sguardo.
Non è un film e non sono comparse le persone diverse,
sospese e disperse tra noi e lo sfondo,
e il resto del mondo che attraversa il confine
ma il confine è rotondo si sposta man mano
che muoviamo lo sguardo,
ci sembra lontano perché siamo in ritardo,
perenne, costante, ne basta un istante,
a un passo dal centro è già troppo distante,
a un passo dal mare è già troppo montagna,
a un passo da qui era tutta campagna.
Oggi tutto è diverso una vita mai vista,
questo qui non è un film e non sei protagonista,
puoi chiamare lo stop, ma non sei il regista,
ti puoi credere al top, ma sei in fondo alla lista.
Questo non è un film, e le nostre belle case
non corrono il pericolo di essere invase,
non è un armata aliena sbarcata sulla terra,
non sono extraterrestri che ci dichiaran guerra,
son solamente uomini che varcano i confini,
uomini con donne, vecchi con bambini,
poveri con poveri che scappan dalla fame,
gli uni sopra gli altri per intere settimane,
come in carri bestiame.
Attraverso il deserto rincorrono una via
in balia dell'incerto per rimanere liberi,
costretti a farsi schiavi,
stipati nelle stive di disastronavi,
come i nostri avi contro i mostri e i draghi,
un viaggio per l'inferno che prenoti e paghi,
sopravvivi o anneghi, questo il confine
perché non è un film, non c'è lieto fine.
Questo sembra un film di quelli terrificanti,
dalla Transilvania non arrivano vampiri, ma badanti,
da Santo Domingo non trafugan zombie,
ma ragazze condannate a qualcuno che le trombi,
dalle Filippine colf e pure dal Bangladesh,
dalla Bielorussia solo carne da lap dance.
Scappano per soddisfare vizi e sfizi nostri,
loro son le prede, noi siamo i mostri,
loro la pietanza, noi i commensali,
e se loro son gli avanzi, noi siam peggio dei maiali,
pronti a divorare a sazietà,
ma pronti a lamentarci per la puzza della varia umanità,
che ci occorre, ci soccorre, ci sostenta,
questo non è un film ma vedrai che lo diventa.
Tu stai attento e tienti pronto, che al momento di girare,
i buoni vincon sempre, scegli da che parte stare.
Scegli da che parte stare, dalla parte di chi spinge,
scegli da che parte stare, dalla parte del mare.

 
Frankie Hi Nrg Mc, 2011

 

 

 

 

 

 

 

 

La razza in estinzione.


Non mi piace la finta allegria,
non sopporto neanche le cene in compagnia,
e coi giovani sono intransigente,
di certe mode, canzoni e trasgressioni
non me ne frega niente.
E sono anche un po' annoiato da chi ci fa la morale
ed esalta come sacra la vita coniugale;
e poi ci sono i gay che han tutte le ragioni,
ma io non riesco a tollerare le loro esibizioni.
Non mi piace chi è troppo solidale,
e fa il professionista del sociale,
ma chi specula su chi è malato, su disabili,
tossici e anziani è un vero criminale.
Ma non vedo più nessuno che s'incazza,
fra tutti gli assuefatti della nuova razza,
e chi si inventa un bel partito per il nostro bene,
sembra proprio destinato a diventare un buffone.
Ma forse sono io che faccio parte
di una razza in estinzione.
La mia generazione ha visto le strade,
le piazze gremite di gente appassionata,
sicura di ridare un senso alla propria vita,
ma ormai son tutte cose del secolo scorso,
la mia generazione ha perso.
Non mi piace la troppa informazione,
odio anche i giornali e la televisione;
la cultura per le masse è un'idiozia,
la fila coi panini davanti ai musei mi fa malinconia.
E la tecnologia ci porterà lontano,
ma non c'è più nessuno che sappia l'italiano;
c'è di buono che la scuola si aggiorna con urgenza,
e con tutti i nuovi quiz ci garantisce l'ignoranza.
Non mi piace nessuna ideologia,
non faccio neanche il tifo per la democrazia;
di gente che ha da dire ce n'è tanta,
la qualità non è richiesta, è il numero che conta.
E anche il mio paese mi piace sempre meno,
non credo più all'ingegno del popolo italiano,
dove ogni intellettuale fa opinione,
ma se lo guardi bene è il solito coglione.
Ma forse sono io che faccio parte
di una razza in estinzione.
La mia generazione ha visto migliaia di ragazzi pronti a tutto,
che stavano cercando, magari con un po' di presunzione,
di cambiare il mondo;
possiamo raccontarlo ai figli, senza alcun rimorso,
ma la mia generazione ha perso.
Non mi piace il mercato globale,
che è il paradiso di ogni multinazionale,
e un domani, state pur tranquilli,
ci saranno sempre più poveri e più ricchi,
ma tutti più imbecilli.
E immagino un futuro senza alcun rimedio,
una specie di massa senza più un individuo,
e vedo il nostro stato, che è pavido e impotente,
è sempre più allo sfascio, e non gliene frega niente;
e vedo anche una Chiesa che incalza più che mai,
io vorrei che sprofondasse con tutti i Papi e i Giubilei.
Ma questa è un'astrazione, è un'idea di chi appartiene
a una razza in estinzione.

 
Gaber-Luporini, 2001

 

 

 

 

 

 

 

 

Srotolando parole.

 
Il sole traccia trappole di luce, arabeschi di colori,
le case dei guardiani della mente sono piene di valori,
srotolando le parole scoppiano frontiere di calore,
mentre sui mondi di pellicola sostano tutte le navi,
e sulle piazze del presente c'è il mercato degli schiavi.
Il tempo degli errori si è concluso e non mi sento di tornare,
e sotto le macerie del passato c'è ben poco da salvare.
Io che ho cercato di comprendere,
io che ancora non mi voglio arrendere,
io che ho creduto nelle favole e sono rimasto da solo,
sono sicuro solamente che a sbagliare sono loro.
Nell'alba nata male ammalata di ricordi,
di ciechi che volevano vedere, di cervelli nati sordi,
sulle miserie stese al sole lanciavano torrenti di parole,
di discussioni interminabili, di libri messi al posto dei cannoni,
di giochi intellettuali senza senso e senza fine e condizioni.
Così che combattendo con discorsi troppo grandi da capire,
avendo come pubblico quei pochi che potevano sentire,
contrabbandando la ragione hanno creato solo confusione,
solo un passato da comprendere e adesso tutto, è tutto da rifare,
e l'unica speranza che rimane è che non debbano tornare.
La vita lentamente ha dipanato i suoi sentieri,
confuso le mie strade con le altre, i domani con i ieri.
Io che ho cercato un altro tempo,
io che sono sempre contro vento,
io che non cerco di nascondermi e urlo davanti alla porta,
rimango fermo qui a pensare che la vita non è morta.

 
Marro-Bertoli, 1979

 

 

 

 

 

 

 

 

Il pensionato.


Lo sento da oltre il muro che ogni suono fa passare,
l'odore quasi povero di roba da mangiare,
lo vedo nella luce che anch'io mi ricordo bene,
di lampadina fioca, quella da trenta candele,
fra mobili che non hanno mai visto altri splendori,
giornali vecchi ed angoli di polvere e di odori,
fra i suoni usati e strani dei suoi riti quotidiani,
mangiare, sgomberare, poi lavare piatti e mani.
Lo sento quando torno stanco e tardi alla mattina,
aprire la persiana, tirare la tendina,
e mentre sto fumando ancora un'altra sigaretta,
andar piano, in pantofole, verso il giorno che lo aspetta;
e poi lo incontro ancora quando viene l'ora mia,
mi dà un piacere assurdo la sua antica cortesia:
"Buon giorno, professore. Come sta la sua signora?
E i gatti? E questo tempo che non si rimette ancora."
Mi dice cento volte fra la rete dei giardini
di una sua gatta morta, di una lite coi vicini,
e mi racconta piano, col suo tono un po' sommesso,
di quando lui e Bologna eran più giovani di adesso.
Io ascolto e i miei pensieri corron dietro alla sua vita,
a tutti i volti visti dalla lampadina antica,
a quell'odore solito di polvere e di muffa,
a tutte le minestre riscaldate sulla stufa,
a quel tic-tac di sveglia che enfatizza ogni secondo,
a come da quel posto si può mai vedere il mondo,
a un'esistenza andata in tanti giorni uguali e duri,
a come anche la storia sia passata fra quei muri.
Io ascolto e non capisco, e tutto attorno mi stupisce,
la vita, com'è fatta e come uno la gestisce,
e i mille modi e i tempi, poi le possibilità,
le scelte, i cambiamenti, il fato, le necessità;
e ancora mi domando se sia stato mai felice,
se un dubbio l'ebbe mai, se solo oggi si assopisce,
se un dubbio l'abbia avuto poche volte oppure spesso,
se è stato sufficiente sopravvivere a se stesso.
Ma poi mi accorgo che probabilmente è solo un tarlo,
di uno che ha tanto tempo ed anche il lusso di sprecarlo,
non posso, o non so dir per niente, se peggiore sia,
a conti fatti, la sua solitudine o la mia.
Diremo forse un giorno: "Ma se stava così bene..."
Avrà il marmo con l'angelo che spezza le catene,
coi soldi risparmiati un po' perché non si sa mai,
un po' per abitudine: "Eh, son sempre pronti i guai".
Vedremo visi nuovi, voci dai sorrisi spenti:
"Piacere", "E' mio", "Son lieto", "Eravate suoi parenti?"
E, a poco a poco, andrà via dalla nostra mente piena,
soltanto un'impressione che ricorderemo appena.


Guccini, 1976

 

 

 

 

 

 

 

 

La fatica.

 
Amore mio che cosa vuoi che dica,
sarà che mi è scoppiata la fatica,
o forse ho scaricato tutto il sacco di esperienza,
e sono fermo ai blocchi di partenza.
A volte sono stanco di pensare,
mi sento come un pesce senza il mare,
ho scritto tante cose, tanti fatti e le ragioni,
cercando di fermare le emozioni.
Mi piace aprir la botte e raccontare,
di come a volte il cielo tocca il mare,
di come l'infinito sia nel viso della gente,
che ha costruito tutto e non ha mai avuto niente.
Amore mio vorrei cominciare,
con tante cose ancora da inventare,
e non sentirmi vuoto come un fiasco già scolato,
con l'impressione d'essere arrivato.
Mi piace scombinare l'acquisito,
e rivoltar la giacca ad un partito,
e fare i conti in tasca alle morali e tradizioni,
col gusto di scoprire le finzioni.
Amore mio mi mancan le parole,
per costruire torri in faccia al sole,
sarà perché son stato troppo tempo a vegetare,
che l'ho chiamato spesso riposare.
Ma non ho ancora perso la mia rabbia,
non mi hanno ancora nella gabbia,
e pesco ancora in fondo alle mie tante ribellioni,
per scaricarle dentro alle canzoni.
Mi piace respirare la chiarezza,
sentire dentro un po' di tenerezza,
rompendo i bugigattoli dei dogmi culturali,
stampati sulle tavole di pietra o sui giornali.
Amore mio se a volte mi nascondo,
se chiudo le mie entrate a questo mondo,
e solo per cercare di capire come sono,
mi sento naufragare e mi abbandono.
Mi piace poi tornare come nuovo,
sentire che mi scrollo e che mi muovo,
allora c'è nell'aria come un altro ritornello,
così che ripulisco il mio cervello.
E allora con la falce taglio il filo della luna,
la musica mi sembra più vicina,
e prendo a pugni e schiaffi la tristezza e la sfortuna,
e cerco di tornare come prima.

 
Bertoli-Miccoli, 1982

 

 

 

 

 

 

 

 

Canzone della vita quotidiana.


Inizia presto all'alba o tardi al pomeriggio,
ma in questo non c'è alcuna differenza,
le ore che hai davanti, son le stesse, son tante,
stesso coraggio chiede l'esistenza.
La vita quotidiana ti ha visto e già succhiato,
come il caffè che bevi appena alzato,
e l'acqua fredda in faccia cancella già i tuoi sogni,
e col bisogno annega la speranza,
e mentre la dolcezza del sonno si allontana,
inizia la tua vita quotidiana.
E subito ti affanni in cose in cui non credi,
la testa piena di vacanze ed ozio,
e non sono peggiori i mali dei rimedi,
la malattia è la noia del lavoro,
fatiche senza scopo, furiose e vane corse,
angosce senza un forse, senza un dopo,
un giorno dopo l'altro il tuo deserto annuale,
con le oasi in ferragosto e per Natale,
ma anno dopo anno, li conti e sono tanti
quei giorni nella vita che hai davanti.
Ipocrisie leggere, rabbie da poco prezzo,
risposte argute date sempre tardi,
saluti caldi d'ansia, di noia o di disprezzo,
o senza che s'incrocino gli sguardi.
Le usate confidenze di malattie o di sesso,
dove ciascuno ascolta sol se stesso,
finzioni naturali in cui ci adoperiamo
per non sembrar di esser quel che siamo.
Consolati pensando, inizia e già è finita,
questa che tutti i giorni è la tua vita.
Amori disperati, amori fatti in fretta,
consumati per rabbia o per dovere,
che spengono in stanchezza con una sigaretta
i desideri nati in tante sere.
Amori fatti in furia, ridicolo contrasto,
dopo quei film di fasto e di lussuria,
rivincita notturna dove, per esser vero,
l'uno tradisce l'altro col pensiero.
Son questi che tu vedi, che vivi, che hai d'attorno
gli amori della vita d'ogni giorno.
Le tue paure assidue, le gioie solitarie,
i drammi che commuovon te soltanto,
le soluzioni ambigue, i compromessi vari,
glorie vantate poi di tanto in tanto.
I piccoli malanni sempre più numerosi,
più dolorosi col passar degli anni,
la lotta vuota e vana, patetico tentare
di rimandare un poco la vecchiaia.
E poi ti trovi vecchio e ancor non hai capito.
che la vita quotidiana ti ha tradito.

 
Guccini, 1974

 

 

 

 

 

 

 

 

Voglia di libertà.


Vorrei poter suonare ancora un po',
e poi seguirti fino in capo al mondo,
mi vestirei di stracci come so,
e sarei pronto a fare il vagabondo.
E a raccontare a tutti il mio passato,
che è un campionario di mediocrità,
ad accettare tutto, mi è costato,
e ho perso te che amo, libertà.
Mi vedi un po' indeciso, ma che importa,
mi basterà varcare quella porta,
e un mondo nuovo si aprirà davanti,
incerto, ma pulito dagli inganni.
E non avrò nessuno a cui badare,
nessuno che mi chiamerà papà,
non una donna da dovere amare,
ma un solo amore, la mia libertà.
Però dovrei buttare la paura,
di uscire nudo e stanco dalle mura,
di questo mondo piccolo e banale,
dove regna chi bara e non chi vale.
Specchiarmi e farlo senza ipocrisia,
nell'acqua dove affonda la bugia,
lavare dal mio cuore la vergogna,
dei compromessi fatti in questa fogna.
È facile parlare, ma il coraggio,
se non l'hai dentro non lo puoi trovare,
non è come un pezzetto di formaggio,
che quando hai voglia te lo puoi comprare.
Se libertà vuol dire rinunciare,
a tutto ciò che offre la realtà,
allora cara amica mi dispiace,
mi spiace tanto, ma io rimango qua,
a sopportare ancora la paura,
di vivere ogni giorno tra le mura,
di questo mondo piccolo e banale,
dove regna chi bara e chi non vale.
A volte servirà l'ipocrisia,
a volte qualche piccola bugia,
ma non si sta poi male in questa fogna,
se sai nascondere bene la vergogna.


Bertoli, 1985

 

 

 

 

 

 

 

 

Una strada.


In un mattino tiepido mi siederò in un prato,
e tornerò, giorno per giorno, nel passato,
e solcherò le rapide della mia fantasia,
dei giorni di poesia.
E sarò consapevole, che la mia testa strana,
sognava un mondo senza figli di puttana,
un mondo senza deboli, con essere pensanti,
padroni della vita, un mondo senza santi.
Supino lungo un argine, ricorderò gli amici,
e quanto fossimo distanti dai nemici,
per poi trovarci fragili ai trucchi dei bugiardi,
davanti ai disonesti, ai moralisti, ai ladri.
Ma poi le cose cambiano e tutto lascia il segno,
e impari l'arte del cinismo e del contegno,
e credi di essere libero, diverso tra gli eguali,
che il mondo ha un'altra faccia, da sotto i tuoi stivali.
Sì, sono stato giovane, privo di esperienza,
e ho amato molto la parola intelligenza,
capace di una favola dove una vita vale,
in termini di vita e non di capitale.
Il tempo non è un giudice, non è nemmeno onesto,
è solo un modo per finirla troppo presto,
ognuno vive attimi che cerca di fermare,
con reti di egoismo in un immenso mare.
Spenderò attentamente la mia sincerità,
parlerò di rivolta con caparbietà,
seguirò, traccerò un sentiero ovunque sia,
una strada buia, forse, ma mia.


Bertoli-Urzino, 1989

 

 

 

 

 

 

 

 

Canzone della triste rinuncia.

 
Le luci dentro al buio sono andate via
e l'allegria comprata è già sparita,
il giorno dopo è sempre la malinconia,
che spezza la magia di un'altra vita.
La forza che ti lega è grande più di te,
l'anello al collo si stringe sempre più.
Non dare più la colpa al mondo o a lei,
per la rinuncia triste a quello che non sei.
Lo sai cosa vuol dire stare giorni interi
a buttar via nel niente solo il niente,
fai mille cose, ma sono sempre i tuoi pensieri,
che scelgono per te diversamente.
Son stanco d'aver detto le cose che dirò,
di aver già fatto le cose che farò,
ma è tardi, troppo tardi, piangere ormai
sulla rinuncia triste a quello che non fai.
Credevo l'incertezza possibilità,
e il dubbio assiduo l'unica ragione,
ma quali scelte hai fatto in piena libertà,
ti muovi sempre dentro a una prigione.
Non è la luce o il buio né l'"ero" ed il "sarò",
non è il coraggio che ti fa dir "vivrò",
è solo un' altra scusa che usare vuoi
per la rinuncia triste a quello che non puoi.
Non voglio prender niente se non so di dare,
io e chissà chi decidono ciò che posso,
non ho la voglia o la forza per poter cambiare
me stesso e il mondo che mi vive addosso.
E forse sto morendo e non lo so capire
o l'ho capito e non lo voglio dire,
rimangono le cose senza falso o vero,
e la rinuncia triste a quello che io ero.

 
Guccini, 1974

 

 

 

 

 

 

 

 

L'ultimo spettacolo.


Ascolta, ti ricordi quando venne
la nave del fenicio a portar via
me, con tutta la voglia di cantare,
gli uomini, il mondo, e farne poesia.
Con l'occhio azzurro io ti salutavo,
con quello blu io già ti rimpiangevo,
l'albero tremava e vidi terra,
i Greci, i fuochi e l'infinita guerra.
Li vidi ad uno ad uno mentre aprivano la mano
e mi mostravano la sorte come a dire
"Noi scegliamo, non c'è un Dio che sia più forte"
e l'ombra nera che passò, ridendo ripeteva no.
Ascolta, ero partito per cantare
uomini grandi dietro grandi scudi,
e ho visto uomini piccoli ammazzare,
piccoli, goffi, disperati e nudi.
Laggiù conobbi pure un vecchio aedo
che si accecò per rimaner nel sogno,
con l'occhio azzurro invece ho visto e vedo,
con l'occhio blu mi volto e ti ricordo.
Ho visto fra le lampade un amore,
e lui che fece stendere sul letto,
l'amico con due spade dentro il cuore,
e gli baciò piangendo il viso e il petto.
E son tornato per vederti andare,
e mentre parti e mi saluti in fretta,
fra tutte le parole che puoi dire,
mi chiedi "Me la dai una sigaretta?"
Io di Muratti, mi dispiace, non ne ho,
il marciapiede per Torino, sì lo so,
ma un conto è stare a farti un po' di compagnia,
altro aspettare che il treno vada via.
Perché t'aiuto io ad andare non lo sai,
sì, questo a chi si lascia non succede mai,
ma non ti ho mai considerata roba mia,
io ho le mie favole, e tu una storia tua.
Ma tu non mi parlavi e le mie idee come ramarri
ritiravano la testa dentro il muro,
quando è tardi, perché è freddo, perché è scuro.
E ancora solitudini, e buchi per nascondersi.
E non si è soli quando un altro ti ha lasciato,
si è soli se qualcuno non è mai venuto,
però scendendo perdo i pezzi sulle scale,
e chi ci passa su, non sa di farmi male.
Ma non venite a dirmi adesso lascia stare,
o che la lotta in fondo deve continuare,
perché se questa storia fosse una canzone,
con una fine mia, tu non andresti via.


Vecchioni, 1977