April 2015. S’ataurn indrì.

 

 

 

 

“El mestée del mes” di aprile –cogliendo spunto dalla ricorrenza della Liberazione- è dedicato all’antifascismo “al femminile”. Sono ampi stralci tratti dal libro “S’atâurn indrì” (Si torna indietro), autobiografia orale raccolta da Michela Di Mieri di Erminia Mattarelli, detta Ermina(edito dal Circolo Arci di Bologna Iqbal Masih nel 2005). Le foto pur non avendo riferimento al narrato, rappresentano immagini della lotta armata antifascista “al femminile”.
Per non dimenticare mai chi c’era, da che parte stava, chi ha tradito e continua a farlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho conosciuto l’Ermina nel 1996, quando ancora abitava nella sua casa del “treno”. All’epoca, lei aveva 88 anni portati splendidamente; soprattutto la sua mente conservava una grande lucidità ed una capacità di analisi anche del presente, non comuni. La prima cosa che l’Ermina mi disse, fu che la sua università era stata la risaia, e lì lei aveva imparato tutto quello le serviva per vivere in piena dignità. La seconda, fu che senza le donne la Resistenza ce la potevamo scordare. La terza, che se avesse potuto tornare indietro, avrebbe sparato di nuovo, ma anche alle spalle, evidentemente delusa per la piega che avevano preso gli eventi.
Per quello che l’ho conosciuta, posso dire che in queste brevi affermazioni è racchiusa l’essenza di questa donna, che con la sua vita abbraccia tutto il Novecento. La sua storia è, per tanti aspetti, emblematica della realtà dell’area padana di quel periodo, e, nelle sue parole, si possono ritrovare gli ideali, le paure, le reazioni, le vite di molti della sua generazione.
Questo lavoro non ha la pretesa né vuole essere un documento storiografico. E’ il frutto di lunghe interviste, alle quali ho tentato di mantenermi il più fedele possibile nell’opera di trascrizione in un italiano più comprensibile e scorrevole, ed alle quali ho aggiunto qualche nota di riferimento storico sugli argomenti da lei raccontati. Da parecchi anni assistiamo ad un’opera di revisionismo e mistificazione della Resistenza ad uso strumentale e politico, che negli ultimi tempi sta assumendo aspetti sempre più aggressivi e preoccupanti. Ho inteso questo scritto come atto di opposizione a questo fenomeno, fissando per sempre una testimonianza diretta di quegli anni a onor del vero, oltre che come un tributo alla memoria dell’Ermina.
Ora lei non c’è più. E’ morta venerdì 19 ottobre 2001 all’Istituto Giovanni XXIII°, un istituto per anziani del Comune di Bologna, dove era ricoverata da un paio d’anni, da quando cioè, le sue gambe avevano definitivamente smesso di sorreggerla. Per una donna come lei, l’immobilità era peggio di qualsiasi nemico; lei che, fino all’ultimo, ha dato tutto, nei modi e con gli strumenti che la contingenza storica le ha permesso, per realizzare il sogno proibito di un mondo migliore, di una società giusta fondata su di una pace equa, sull’uguaglianza e sulla solidarietà tra gli esseri umani. Tanti sono gli spunti su cui riflettere leggendo queste pagine, e il loro più intimo significato sta proprio qui: non lasciare che tutto sia stato invano, non dimenticare, per imparare dal passato e continuare la sua lotta, che, a ben vedere, è anche la nostra. (Michela Di Mieri)

 

 

 

 

 


 

 

Mi chiamo Ermina Mattarelli, sono nata a Selva Malvezzi, una borgata nel comune di Molinella (Bo), il 10 giugno 1908. I miei genitori, Virginia Cavazza e Augusto Mattarelli, erano due contadini e vivevano in una famiglia molto numerosa. La terra che lavoravano e la casa dove vivevano facevano parte dell’enorme proprietà della Chiesa, infatti un prete, il parroco di Molinella, aveva il compito di amministrare quei beni. Proprio grazie a quest’esperienza, mio padre e mia madre si formarono una coscienza politica di un certo orientamento.
Lavoravano, infatti, come muli dall’alba al tramonto, ma erano sempre in una miseria nera. Quando il prete veniva a fare il bilancio, il giorno di S. Martino, come voleva l’usanza chiedeva del capo famiglia, cioè l’uomo più anziano. Essendo questo un contadino analfabeta, non poteva contestare i continui debiti. A quei tempi era in uso l’istituto della decima, per cui di tutto ciò che si ricavava dal raccolto o dalla macellazione delle bestie, la primizia era dovuta alla Chiesa.
Zio Onorato, fratello di mio padre, si stancò di questa storia; andò a scuola per imparare a leggere e scrivere e per un anno tenne segnato tutto ciò che si consegnava al prete giorno per giorno: uova, polli, latte, frutta, verdura… Puntuale, il giorno di S. Martino, il prete arrivò per fare i conti; voleva parlare solo col capofamiglia, ma zio Onorato, che era un pezzo d’uomo alto e grosso che lavorava per due, lo aspettava sull’uscio. Disse al prete che i conti poteva farli con lui; ai debiti che presentò il prete, lo zio rispose con i suoi conti: finì che il prete, con stizza infinita, dovette lui pagare i suoi debiti allo zio!
Fu la fine per la mia famiglia… furono sfrattati immediatamente e buttati nel giro di 24 ore in mezzo alla strada. Era evidente che dei contadini così nessuno li avrebbe mai presi a lavorare: erano un pericolo per i padroni, perché all’epoca, loro erano tra i primi a ribellarsi e a protestare, quindi pochi e deboli. Così ognuno prese la sua strada, tentando di vincere l’enorme miseria.
Zio Onorato andò a lavorare in Germania, altri due zii andarono a fare i garzoni fuori dal paese, i miei genitori arrivarono a Selva Malvezzi. Mia madre, incinta di me di sette mesi, aveva già due figli: Mario, del 1904 e Argentina, del 1906, miei fratelli. I miei furono fortunati perché accolti nel vecchio Castello di Selva Malvezzi da alcuni compagni del luogo, guidati da Giuseppe Massarenti. Lì io nacqui, nel 1908.
I miei fratelli nacquero nella casa del prete, quindi battezzati per forza (a mio fratello fecero fare anche la cresima); invece lì i miei erano liberi di fare la loro scelta e non mi battezzarono, perché mio padre diceva che dovevo essere io, una volta adulta, a decidere… ed io ho confermato ciò che mi ha dato lui!
A Selva Malvezzi i miei volevano aprire un negozietto di generi alimentari, però la borgata era troppo piccola, due case in croce, così ci trasferimmo a Molinella, l’abitato più grosso della zona: tante case, tanti contadini e operai, c’era un’officina, la tabaccheria, l’osteria… lì, con l’aiuto di Massarenti e dei compagni, i miei aprirono il negozio.
Col passare del tempo si guadagnarono la stima di tutti i compagni e del paese, dunque per noi le cose non andavano male: mia madre aveva comprato una cavalla, Dora, e faceva la birocciaia, mio padre era il macellaio di maiali per tutto il paese. Io ed i miei fratelli andavamo a scuola, ma intanto lavoravamo: io allevavo conigli, Argentina polli, Mario maialini; così imparavamo a responsabilizzarci e a saper guadagnarci da vivere da subito. In quegli anni tutti eravamo impegnati a costruire la cooperativa agricola ideata da Massarenti… facemmo tante lotte! Ricordo che fu in quel periodo che assistetti alla prima delle tante battaglie dei contadini, ed anche alla prima delle tragedie che negli anni a seguire avrei vissuto. Era il 1914 e accaddero quelli che vennero poi chiamati ”i fatti di Guarda”, una borgata vicino a Molinella.
Fu una lotta tremenda dei contadini e dei mezzadri, stanchi di pagare sempre debiti alla fine dell’anno ai loro padroni (come successe alla mia famiglia), debiti tanto alti che rimanevano da pagare persino l’anno dopo aggiunti i nuovi! Io vidi tutto: avevo sei anni e non avrei dovuto essere lì, ma ero ribelle, in casa sentivo sempre i discorsi dei grandi, e già allora io sapevo che quella lotta era la mia lotta, era talmente viva dentro di me che era la mia vita, non più di bambina, ma di adulta che sentiva già una grande rabbia. Così quel giorno sentii in casa che tutti gli uomini stavano andando a Guarda; seguii di nascosto mio padre, e giunti là davanti mi nascosi dentro il fosso… quello che vidi non potrò mai dimenticarlo tanto mi sconvolse ma anche mi fece crescere.
Ricordo gli scontri a fuoco tremendi; la peggio toccò ai krumiri: cinque morti e sette feriti. Tra i “nostri” venne colpito Pondrelli, un mezzadro sfrattato perché non aveva pagato i debiti. Arrivarono i camion dei carabinieri (vedere dei camion a quei tempi era una cosa che lasciava sbalorditi): ci fu il fuggi fuggi e ancora spari e sangue. Rimasi scossa, ma non impaurita… seguii mio padre e Benetti, un mezzadro solidale con Pondrelli che venne immediatamente ricercato. Mio padre lo portò a nascondersi nel fienile di casa nostra in mezzo alle fascine di paglia e alla legna. Bene, si vede una spiata, non so com’è, vennero i carabinieri a perquisire da noi, il giorno stesso. Li vedevo punzecchiare la paglia con le spade, per fortuna però una fascina protesse Benetti che così si salvò, e i carabinieri se ne andarono a mani vuote. Io conoscevo molto bene Benetti, perché tutte le sere andavamo nella stalla della sua famiglia a filare con la rocca e a fare la veglia, ma io mi annoiavo, allora mi mettevo a leggere delle storie sui libri e agli altri faceva piacere, visto che tutti gli adulti non sapevano leggere.
La repressione fu durissima: tanti i perseguitati, ma dopo sembrò tornare un po’ di calma. Dicevo, sembrò perché venne una tragedia ancora più grande: scoppiò la guerra, la Grande Guerra del ’15-’18. Ricordo che, quando gli uomini di Molinella dovettero partire, le donne e noi bambini andammo in stazione dove c’era la tradotta che portava i soldati al fronte, e ci sdraiammo tutti sulle rotaie per impedire al treno di partire. Naturalmente intervennero i carabinieri caricandoci a cavallo, ma il più delle volte i cavalli, davanti a noi si arrestavano, nitrivano forte e si alzavano sulle zampe posteriori disarcionando il carabiniere… l’animale si fermava, mentre l’uomo ci picchiava con i manganelli!
Della nostra famiglia partirono in cinque: mio padre ed i miei zii. Noi rimanemmo soli, e avevamo tanta di quella miseria! Si viveva come animali ed era già fortunato chi aveva una camera dove stare con tutta la famiglia. C’era, però, tanta solidarietà tra tutti, che bene o male si riusciva a tirare avanti. Io ed i miei fratelli sapevamo leggere e scrivere, così partivamo da casa con una penna legata ad un bastoncino, una boccetta d’inchiostro e dei fogli di quaderno e andavamo al Castello di Malvezzi (dove sono nata io) dove c’era un centro di smistamento reclute molto grande; facevamo da scrivani per i soldati analfabeti, che erano i più, scrivendo lettere e cartoline per le loro famiglie. Era una cosa bella, perché questi ragazzi si aprivano con noi; si sentiva l’amore e la nostalgia per la loro casa lontana, e, io bambina, anche lì ero costretta a maturarmi e diventare adulta in questo altrui dolore. Così, sul nostro tavolino compariva spesso un qualche centesimo, un soldino, una fetta di polenta o una galletta del rancio…per noi era già una paga più che sufficiente! Per mia madre, che era analfabeta, era più difficile, ma fu di un’energia e di una forza tale da essere esempio per noi per sempre: si mise a fare la lavandaia e così racimolava quel tanto che poteva bastare a non chiedere l’elemosina… che poi non si sarebbe saputo a chi, tanto eravamo tutti poveri.
Ritornarono da questa maledetta guerra in due: mio padre e uno zio. Partirono con la promessa che se fossero stati bravi soldati, avrebbero ricevuto, finita la guerra, un pezzettino di terra in proprietà: la certezza contro la miseria. Ritornarono feriti, delusi nel corpo e nello spirito, e neppure l’ombra del pezzettino di terra, né della pensione d’invalidità di guerra per mio padre ferito al fronte. Come premio, però, gli venne consegnato un fazzoletto quadrato con sopra stampata l’Italia, questo stivale, con tutti i punti delle battaglie, delle vittorie e delle conquiste messi bene in evidenza, e un taglio di vestito militare, che noi usammo per rattoppare le lenzuola.
La vita, dunque, riprese. Fummo educati al risparmio, all’orgoglio di poter dare qualcosa; per anni furono ospitati in casa nostra i bimbi che avevano perso il padre in guerra, e diventarono dei fratelli veri e propri per noi. Erano gli anni delle grandi lotte sindacali e politiche del ’19 e del ’20… lotte per la terra, per l’affrancamento dalla schiavitù dai grandi agrari. Ci fu l’occupazione delle terre incolte e polverose, di proprietà dei latifondisti che appositamente non le coltivavano, creando ancora più povertà; noi cominciammo a lavorarle, a dissodarle, a bonificarle ed a renderle produttive. Nacque così la prima Cooperativa agricola socialista di Molinella: una cooperativa di consumo di tutti i contadini che creava una sicurezza contro la miseria, perché i prodotti della terra non andavano più ad arricchire i padroni, Chiesa o conti che fossero, ma venivano divisi tra i lavoratori. Così, dal paese degli accattoni, come eravamo chiamati, divenimmo quello più ricco!
Questa cooperativa nacque grazie all’aiuto e all’esperienza di Giuseppe Massarenti… lui era un “dottore”, ma di una semplicità tale da non mettere in imbarazzo nessuno! Quando mio padre andava a lavorare, io, spesso, andavo con lui, così approfittavo per parlare con Massarenti, un uomo meraviglioso! Fu il nostro maestro, guidava gli operai nella lotta, li educava all’onestà ed alla solidarietà… è stata una guida importante ed ha pagato con la vita il suo ideale. Venne perseguitato e confinato durante il fascismo: lo fecero passare per pazzo e lo rinchiusero in una clinica psichiatrica a Roma, su ordine scritto di Mussolini. Per i fascisti era essenziale che quella mente non pensasse né comunicasse più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ricordo che quando ci fu la Rivoluzione d’Ottobre in Russia, lui [Giuseppe Massarenti, n.d.r.] promosse la raccolta di grano e generi alimentari per aiutare quel popolo glorioso; io feci la mia parte: con un cassetto e la bandiera rossa andavo casa per casa a raccogliere le cibarie, e in premio ricevetti una medaglietta con la falce ed il martello che fu motivo di grande orgoglio per me. Costruì un asilo e una scuola per tutti i figli dei contadini; non c’era l’ora di religione, ma c’era la mensa: del pane ed un piatto di pasta tutti i giorni. Così io ed i miei fratelli riprendemmo ad andare a scuola: Mario fece la 6^ elementare ed io e Argentina la 3^.
Finiti i tre anni di obbligo scolastico, cominciai ad andare a scuola da sarta da una grande antifascista, la Gelmina Bertoncelli, così per imparare un mestiere. Durante la lotta clandestina, così dura dei primi anni del fascismo, questa donna mi fu anche maestra di vita, perché lei ed i compagni mi utilizzavano come tramite, come staffetta: dovevo andare in zone vicine, con oggetti e lettere di cui non sapevo il contenuto, e consegnarle; quella fu una formazione indispensabile per la mia vita di partigiana di qualche tempo dopo. Verso la metà degli anni 20, dovette fuggire da Molinella, e raggiunse il suo compagno, Angiolino Cavazza, esiliato in Francia. Non la vidi più, e fu un’altra grande perdita per me, morale e politica… ma i suoi consigli, insieme a quelli di Massarenti, mi sono stati utili per tutta la vita.
In quegli anni crescevo molto velocemente, perché i sacrifici formano una coscienza profonda, insegnano a riconoscere il giusto dall’ingiusto… ed insieme cresceva un rancore che mi dava la forza per andare sempre avanti. Poi venne il 1921 e con lui il fascismo , maledetto lui e chi l’ha voluto! Le prime squadracce fasciste comparvero a Molinella in quell’anno; il loro obiettivo principale era di distruggere la nostra cooperativa, con l’appoggio dei padroni e la benedizione dei preti.
Alle prime elezioni comunali dell’anno, sempre il 1921, uccisero Gaiani, un deputato socialista…era appena uscito dal seggio. Chiedemmo di organizzare un corteo di protesta. Le autorità non diedero l’approvazione, ma noi manifestammo lo stesso; la parola d’ordine era “tutti in piazza! Si svuotarono le campagne e le case, le strade erano piene di operai e contadini anche scalzi. Era una cosa impressionante, sembrava che nessuno avesse potuto indebolire quel popolo così grande, compatto. Vennero i fascisti: quando videro l’immensità della folla, silenziosa, ma con queste armi che facevano più paura dei mitra, fecero il giro della piazza e se ne andarono via senza fare nulla, non scesero neppure dai camion… lo rivedo ancora benché siano passati tanti anni. Allora, giù le internazionali, uno stuolo di bandire rosse esultanti, trionfanti, segno che questa gente era riuscita a mettere in fuga i banditi, perché quello erano i fascisti! Fu un successo immenso, ma fu l’ultimo.
Venne il 1 maggio del 1921, l’ultimo. Ricordo, tutta la piazza gremita di lavoratori; ognuno con in spalla l’arma del suo lavoro, la falce, ognuno con il suo fazzoletto rosso attorno al collo, ognuno con il suo garofano rosso, che allora era ancora un simbolo di lotta. L’oratore ufficiale era Nullo Baldini; arrivarono gli squadristi in gran numero con alla testa i loro capi: avevano dei bastoni ed in cima c’erano infilzati dei ranocchi vivi, scorticati, come a dire “voi farete la stessa fine”. C’erano le guardie regie, che formalmente dovevano preservare l’ordine pubblico, ma di fatto erano lì solo per appoggiare e facilitare l’azione dei fascisti.
Per ordine dei dirigenti socialisti di allora ci fu detto di tornare a casa, di non cogliere le provocazioni, di non reagire. Ci fu qualche protesta, ma lentamente quasi tutta la gente tornò a casa. Quel giorno per la prima volta presi delle botte dai fascisti; io ed una mia amica, ribelle anche lei, non volendo tornare in silenzio a casa, continuammo a girare nel paese; in un angolo della piazza vedemmo una ragazza che veniva malmenata dagli squadristi, e tra le botte teneva ben alto il suo garofano rosso. Anche se non era che potessimo fare molto, corremmo in suo aiuto; io fui presa da un certo Erminio Amadori, di Molinella, mi picchiò sodo lesionandomi la spalla sinistra, e poi sberle a volontà: riuscimmo a scappare e a tornare a casa… solo allora sentii il dolore, ma la rabbia era più forte. Ricordo che mia madre non mi sgridò per nulla, ma con gli occhi pieni di lacrime accettava e comprendeva il mio carattere così libero…
Grazie alla linea della “ventata che passa” adottata dai dirigenti socialisti, si passò a un’offensiva inerme, passiva, che non giovò a niente. I contadini, nel giro di qualche anno, persero tutto quello che avevano conquistato in anni di lotte. Fu un periodo di fuoco: cominciarono le botte da orbi quasi quotidiane, le persecuzioni, i sequestri di persona, i boicottaggi sul lavoro, l’olio di ricino. Non ti sentivi più sicuro né in casa né fuori; erano la miseria e la paura dell’incertezza che tornavano a trionfare.
Ricordo l’uccisione di Marani, sparato mentre scappava, davanti agli occhi di sua madre; Frazzoni si rifugiò su un albero tentando di scampare ad una esecuzione sommaria. Nel ’22 ci fu l’incendio degli uffici di collocamento. Il giorno 10 giugno del 1922, venne ucciso in piazza Marcello Cazzola, era una domenica, giorno di mercato, stava diffondendo La Squilla (giornale socialista). Pugnalarono Baraldi, che vendeva L’Assalto; lo fecero con freddezza, lasciandogli il pugnale conficcato nella schiena: prima di morire visse un anno in atroce agonia.
Una domenica andai in piazza; c’era il mercato ed io spianai un vestito nuovo, tutto bianco; avevo i capelli neri lunghi raccolti nelle trecce… mi sentivo una regina! Alcuni squadristi mi videro e mi riconobbero: mi diedero un sacco di sberle, mi strapparono il vestito, mi sciolsero le trecce e mi ricoprirono la faccia di nerofumo. Ero talmente scossa che non reagii né fuggii, ma feci avanti ed indietro per la piazza così conciata; sembravo una strega: i capelli sciolti arruffatissimi, piangevo e le lacrime mi facevano due solchi più chiari nel nero pece del volto… la gente mi faceva largo. Quanta rabbia mi si accumulava dentro!
Quelli furono anche gli anni in cui nacque il PCI , proprio in reazione alla passività del PSI. I miei genitori appoggiarono la nascita del Partito Comunista. In casa mia c’erano sempre riunioni ed assemblee; gli adulti non volevano che io rimanessi ad ascoltare, ero troppo giovane e poi soprattutto ero una donna, di conseguenza dovevo uscire…ma io no, non stavo zitta; loro dicevano che ero una “sberra” ! Quando sentivo di dover dire una cosa, fosse anche il padreterno gliela dicevo!
Ricordo che il 10 giugno del 23, il giorno del mio compleanno, chiesi a mio padre come regalo la tessera del PCI; c’era un signore in casa che avevo visto già altre volte: veniva a dare disposizioni. Mi guardò e si mise a ridere; gli chiesi perché rideva, e lui: ”Mo Ermina, te vut nà tessera…ma te ce l’hai già! Tè ti bele onna dal partè…con tott i servezz ch’te fè par noetar…te ti bele di nostar, l’è par quest ch’um scapa da reddar…!” (“Erminia, vuoi una tessera… Ma ce l’hai già! Sei già una del partito. Con tutti i servizi che ci rendi… Sei già dei nostri, è per questo che mi scappa da ridere…) Fu una gioia tanto grande per me, e mi diede il coraggio per affrontare tutte le prove a cui venimmo sottoposti in seguito.
Il 15 giugno del 1924 si consumò la tragedia più grande per Molinella: i fascisti, appoggiati dalle guardie regie, distrussero la cooperativa, bruciando e saccheggiando per un danno totale di tre milioni… per allora! Massarenti fu costretto a fuggire perché lo volevano uccidere, e protestare e denunciare era completamente inutile. Al nostro negozio fu affidato il compito di sostituire il più possibile le funzioni della cooperativa distrutta. La gente veniva anche dai paesi vicini a comperare da noi, ma la roba non bastava per tutti e pochi avevano i soldi per pagare… in breve, Molinella tornò di nuovo ad essere il paese degli accattoni.
Eravamo in agosto, sempre del ’24, e una sera a casa bussò il prete di Molinella, don Primo Angelini, al merito fascista, anima maledetta, un uomo che di cristiano non aveva niente. Venne ad avvertire la mia famiglia che se non l’avessimo finita di dare da mangiare ai lavoratori, e non avessimo preso la tessera del Fascio, l’avremmo pagata cara…questo fu il messaggio che il prete ci portò da parte degli squadristi. Avevamo paura, eravamo soli: chi cacciato, chi fuggito, ma non volevamo cedere, o aderire al fascio o scappare. Pochi giorni dopo, quelle minacce si tradussero in realtà.
Il 14 agosto arrivò la spesa del nostro negozio: olio, zucchero, farina, roba per i maiali, grani. Verso sera eravamo tutti in cortile… una volta si faceva il “trebb”, come una conversazione: stavamo lì, in questo prato, e si scherzava, si rideva, si viveva, ecco, era solo quello il modo di vivere. Arrivarono i fascisti in una ventina, guidati dal capitano delle Brigate Nere Francesco Forlani, un vero boia. Tutto quello che era arrivato per il negozio fu buttato in mezzo al cortile: diventò tutto un pastone inutilizzabile. Noi prendemmo le botte, tutti: a mio padre, che stava contando i soldi di cassa, gliene diedero tante e gli rubarono i soldi, £. 500; mia sorella, la buttarono sotto un tavolo e la presero a calci. Fu una notte tremenda. Anche se i vicini avevano paura a frequentarci troppo, andarono comunque a chiamare un medico, un vero compagno, il dott. Tonini, che passò la notte con noi.
Il giorno dopo ero nel negozio a fare la bada a quel poco che era rimasto. Venne Forlani tutto gentile, sembrava un damerino! Voleva il ritiro della denuncia fatta da mio padre per il furto dei soldi (la legge dei fascisti dava il beneplacito per uccidere e bruciare, ma non potevano rubare, era considerato un reato grave). Mi chiese di far firmare a mio padre una controdenuncia che lui aveva già pronta; al mio netto rifiuto, da dolce divenne brusco e cominciò a prendermi a schiaffi. Non c’era nessuno lì con me, ma, sia i miei genitori, sia i vicini, sentirono tutto. Mentre se ne andava tutto stizzito mi disse: “son venuto una volta, ritornerò e ti distruggerò, comunista d’una bolscevica!”; avrei volato dalla gioia, perché lui stesso mi diede la conferma che la mia scelta era stata quella giusta. Andai a trovare mio padre, a letto; era commosso, mi disse: “Ermina, conservati sempre così… certi momenti non si possono dimenticare.
Passò una settimana. Una sera venne don Primo, accompagnato da due fascisti, a chiedere di nuovo se mio padre prendeva la tessera del fascio. Al suo secco diniego se ne andarono. L’ indomani il comando fascista aveva decretato 48 ore di coprifuoco per poter fare un “censimento purgativo”, quindi nessuno poteva uscire o anche solo stare alla finestra. La sera dopo, domenica 22 agosto, io ero su in camera da mio padre che l’assistevo e gli facevo compagnia, stavo così bene con lui! Parlavamo tanto: lui mi dava dei consigli, c’era tutto da imparare ascoltandolo. Mia madre era rimasta giù a rassettare; mia sorella era andata a casa del suo compagno, anche lui un perseguitato che aveva già preso delle botte; mio fratello era scappato già da un po’, stava nell’Agro Pontino a bonificare le paludi. Molti esuli emiliani si erano rifugiati, là presso il principe Boncompagni di Vignola. Il principe aveva trovato il modo di guadagnare da tutte queste tragedie: faceva bonificare ai rifugiati le sue immense e malsane terre paludose e non permetteva ai fascisti di entrare nelle sue proprietà intralciando i lavori. Si assicurava così manodopera esperta, copiosa e disperata, quindi disposta a lavorare per una paga quasi nulla. D’altra parte, gli esuli potevano essere sicuri della sua protezione e avere salva la vita, cosa che, per il momento, poteva bastare.
Verso le dieci arrivarono… alla loro guida c’era Chiesa, il capo della Brigata Nera di Budrio; tra loro ce n’era uno giovane che doveva ancora saldare un debito di un credito che mio padre gli aveva concesso al negozio. Cominciarono col fare una perquisizione buttando per aria tutto; ce n’erano due o tre talmente bestiali, scalmanati, che insultavano e davano lo schiaffettino per provocare. Poi “interrogarono” mio padre: due fascisti cominciarono a picchiarlo che era lì infermo a letto. Corsi per difenderlo, potevo fare ben poco, ma quello che avrei preso io non avrebbe preso lui.
Lì io esplosi, non potevo e non volevo più frenarmi: feci funzionare la mia energia di sedicenne, sentivo una tale forza dentro! Mi aggrappai al più bestiale: denti e unghie funzionavano in pieno; mi avvinghiai e gli sfigurai il volto, non lo mollavo, lo mordevo; lui urlava, urlava e non riusciva più a difendersi, perché io avevo tutto che ribolliva dentro di me, e se anche mi picchiava io non sentivo il male. Quando allentai la presa, questo qui fuggì via come un cane giù per le scale! Io e mia madre, con i nostri corpi tentammo di difendere mio padre. Fu inutile: loro erano in tanti, poi erano animali, non erano più esseri umani.
Ridussero mio padre in una condizione poco sperabile di sopravvivenza: aveva un braccio rotto, un trauma in testa e tutti i postumi delle “visite” precedenti ancora più aggravati. Se ne andarono, ma dissero che sarebbero ritornati la sera dopo, e di non sperare su un aiuto dai socialisti, che già gli avevano detto che non si sarebbero compromessi troppo con noi: proprio quelli che dicevano “è una ventata che passa” e che ci avevano tanto pregato perché tenessimo aperto il negozio! Io non sapevo più resistere con mio padre ridotto in queste condizioni… lunedì 23 lo vidi piangere per la prima volta, e per l’ultima lo vidi vivo. Non chiesi niente a mia madre, perché era inutile chiedere, non si potevano dire certe cose.
Ricordo che i vicini si misero d’accordo con uno del nostro cortile, Angiolino, un compagno, e, nonostante il coprifuoco, nascosero mio padre, alla sera col buio, in un posto sicuro, dentro lì nel cortile. I fascisti vennero a mezzanotte, guidati dal tenente dei Carabinieri Ricci, era alto come una patata! Rovistarono dappertutto; Ricci disse: “ lo troveremo, statene certe, lo troveremo e pagherà!”. Questo fu il saluto della buona notte fatto da un maresciallo dei carabinieri, e non dai fascisti! Noi passammo una notte di pura angoscia…c’era lì con noi una compagna, l’Amedea Bernardi, che era venuta per farci compagnia, per non lasciarci sole e disperate.
Al mattino tutti ricominciavano a vivere: le finestre si aprivano, la gente usciva per le strade. Noi aspettavamo una voce, una notizia, un segno di vita per mio padre. Mia madre uscì ed andò in cerca di qualcuno che gli potesse dire qualche cosa… niente, nessuno ne sapeva niente. Io pure feci il mio giro. C’era, vicino al nostro cortile, una stalla che era di proprietà di Pompeo Ungarelli, una canaglia fascista; solo lui aveva la chiave per aprirla dal di fuori. Questo qui si alzava sempre tardi, e invece quella mattina lì, caso strano, si era alzato presto. Erano le 8,30. Arrivai lì davanti: c’era la stalla aperta e questo qui che urlava e strillava; io gli dissi: “mo c’set da ruier, sta ban zett e vergagnett!” (sapendo che era un fascista). Guardai dentro, e vidi attaccato ad un filo della trave della sua stalla, mio padre, morto, impiccato, però con i piedi appoggiati a terra. Non si può, non so, non si può diventare matti, non si diventa neanche assassini, ma in certi momenti bisognerebbe esserlo.
Intanto era arrivata anche mia madre. Volevamo scioglierlo, ma i fascisti, che non avevano abbandonato il campo e ci controllavano, non ci lasciarono staccare mio padre dal laccio di ferro. Chiusero la stalla, dettero la chiave al padrone, e per 38 ore lasciarono mio padre lì attaccato, senza che noi potessimo fare nulla… per fortuna aveva i piedi appoggiati per terra, sennò si sarebbe staccata la testa dal collo. Dopodiché arrivarono le autorità di Budrio: lo slegarono, lo misero dentro ad una bara e fecero una cavalcata di corsa, solo loro coi fascisti dietro: lo portarono all’obitorio di Molinella.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sporgemmo denuncia: volevamo dimostrare che si era trattato di un omicidio e non di suicidio, come sostenevano i fascisti. Così gli fecero l’autopsia: c’era il Dott. Ricci, che era un fascista, ma c’era anche il Dott. Tonini, quello che aveva visitato e curato mio padre la settimana prima e quindi sapeva quali erano le sue condizioni fisiche. Davanti alla commissione ognuno fece la sua dichiarazione: per Ricci, era suicidio tramite impiccagione (ovviamente); per Tonini, invece, sul corpo di mio padre non c’era nessun segno di strangolamento: prima di tutto era appoggiato con i piedi per terra, a conferma che era stato attaccato alla trave già morto. Tonini provò che era stato ucciso barbaramente tra le botte e l’affogamento: secondo la sua ricostruzione gli immergevano la testa in un secchio pieno d’acqua, gliela tiravano su e poi ancora giù ripetutamente fino a che non fosse morto annegato. Aggiunse che se anche non fosse stato ucciso così, sarebbe morto lo stesso da lì a poco, per le gravi ferite riportare: aveva un polmone leso, il cuore aveva ceduto, un trauma cranico non curato ecc… Alla fine, Ricci fu premiato e fece carriera; Tonini, invece, poco dopo venne bastonato, perse la condotta e fu costretto a fuggire da Molinella, perché si era gravemente compromesso per aver avuto il coraggio di difendere la verità.
La partecipazione al funerale fu permessa ai soli familiari; i compagni che erano venuti non poterono entrare, e gli buttarono, dall’altra parte del muro del cimitero, tanti fiori! Il nostro avvocato, Mario Bergami, fece di tutto per far condannare i colpevoli; fummo chiamati a deporre parecchie volte e, ricordo, mi incoraggiava sempre a dire tutto. Anche per lui l’iter fu classico: olio di ricino, un sacco di botte e, per concludere, gli bruciarono lo studio. Si rifugiò in Francia, e non sapemmo più niente di lui. Per mio padre la faccenda finì così, nessuno ne parlò più.
Rimanevano i giorni sempre più duri; il lavoro non lo trovavamo praticamente più: nessuno si voleva compromettere con noi, inoltre nessuno di noi aveva il timbro dell’iscrizione al fascio sul libretto di lavoro, condizione indispensabile per lavorare. Così, mia madre andò a spigolare il grano fuori dal paese, ma venne riconosciuta da un certo Ballardini, un fotografo che aveva lo studio a Molinella; bruciò tutto il grano da lei raccolto e la picchiò rompendole la mascella con un sasso. Il contadino per cui lavorava la trovò e la raccolse; la tenne nascosta per tre giorni: per noi fu un’attesa disperata perché non sapevamo niente. Ce la riportò avvolta in una coperta imbottita, tutta nascosta lì dentro, così che nessuno avrebbe potuto riconoscerla.
Eravamo disperate… sole, con tanti debiti del negozio da pagare e senza lavoro. I vecchi compagni di mio padre, quelli che l’avevano pregato di tenere il negozio aperto per sostenere chi lottava (dopo la distruzione della cooperativa), non si videro neppure, anzi, ci consideravano traditori perché eravamo diventati comunisti! Solo il Soccorso Rosso si ricordò di noi: ci mandò un pacco con £.5 e una cornice dove poter mettere una foto di mio padre. Così, ci andammo ad aggiungere alle circa 300 famiglie che in quegli anni lasciarono Molinella.
Argentina si trasferì a Bologna con il suo compagno e la bambina, Giannina, di quasi due anni; vissero nella Manifattura Tabacchi, tornarono a Molinella quando le cose si calmarono. Io e mia madre raggiungemmo Mario nel Lazio. Laggiù, nell’Agro Pontino, eravamo in centinaia a bonificare queste terre paludose. Noi emiliani avevamo a nostra disposizione una carovana: ci vivevamo dentro in una ventina, senz’acqua, senza nulla, non era una vita da persone, no! Mia madre era l’addetta alla cucina, Mario era il nostro capo squadra. Vivevamo così, isolati, in mezzo alla miseria, in queste terre malsane che dovevamo dissodare, e ovunque solo malaria e paludi, paludi e malaria. Io la presi in forma abbastanza pesante, e allora giù chinino e chinino ed alla fine guarii, ma quanta sofferenza!
Un’estate, mia madre andò a Molinella a pagare i debiti che ancora pendevano sulle nostre teste, e tornò portando con sé la figlia di mia sorella, Giannina, quella nata sotto il terrore delle squadracce fasciste della prima ora. In settembre Giannina dovette tornare a casa perché cominciava ad andare a scuola, ed io l’accompagnai. Era l’autunno del 1928. Da quattro anni non vedevo Molinella. Quanta voglia di rivedere la mia gente, quei pochi compagni rimasti, quel piccolo paesino per me così grande! Così, una volta accompagnata la bambina, rimasi a Molinella in casa di Argentina e non tornai più a Roma, anche perché mia nipote non voleva più farmi andare via e diceva:“ zia, la tua casa è questa, non quella laggiù!”
All’inizio del ’29, tornarono anche la mamma e Mario, che nel frattempo si era sposato con l’Enilde, così ci ritrovammo finalmente tutti insieme, ma in troppi a casa di mia sorella. Così ricominciammo, piano piano, tutto daccapo. Io, Mario, sua moglie e la mamma, ci trovammo una piccola casa, e, dalle piccole cose, prima una sedia, poi un tavolo, lentamente ci costruimmo un’abitazione. Io cominciai in quel periodo a fare il lavoro che avrei fatto poi per il resto della vita: la mondina, in risaia; la mia università. Anche la mamma, nonostante l’età e il suo stato fisico un po’ provato, veniva in risaia.
Per arrivare al lavoro si facevano fino a dodici chilometri a piedi; poi otto ore a raccogliere il riso, chine, con le braccia nell’acqua fino al gomito e le gambe negli stivali di gomma, con l’umidità che ti entrava dappertutto e la schiena schiantata; il tutto ovviamente per due soldi. Non esisteva la mensa o un qualcosa di simile. Il pranzo, consistente in un pezzo di pane con del formaggio o una fetta di mortadella, ce lo portavamo da casa; allora però non esistevano il cellophane e tutte queste cose, così quando a mezzogiorno andavamo a mangiare, spesso trovavamo il panino sparpagliato per terra, e le formiche tutte attaccate alla fetta di mortadella che se la mangiavano. Allora, se si era arrivati in tempo, si dava una scrollatina e via, se invece era tutto immangiabile, non si rimaneva comunque mai a digiuno: c’era tanta solidarietà tra noi, donne, mondine, compagne e non, che alla fine qualcosa nello stomaco si metteva sempre.
Sempre nel ’29, conobbi un romagnolo di Conselice, Camanzi Nino, che divenne mio marito. Ci sposammo anche se lo avevano avvertito che sposare una comunista non gli avrebbe portato fortuna; infatti, faticava parecchio a trovare da lavorare, nonostante lui fosse falegname, mestiere sempre molto richiesto. Così, per vincere la miseria, decidemmo di andare a vivere a Conselice, il suo paese. Nino era un antifascista, ma socialista, per cui esisteva una certa diversità tra noi che si approfondiva giorno dopo giorno; difatti, come arrivammo a casa sua, mi disse: “Adesso che stiamo qui cerca di stare tranquilla e pensa un po’ ai fatti tuoi; vedi cosa succede a fare della politica? Non sei ancora stanca?”. Figurati! Stanca! Tutte le esperienze passate mi avevano fatta maturare ancora, e mettevo sempre più energia in quello che facevo. Conselice, poi, fu proprio la mia università politica: poco dopo il mio arrivo, conobbi degli antifascisti combattenti, Ennio Cervellati, Romagnoli e tanti altri; erano i miei compagni nella lotta clandestina, prima e dopo la caduta del Regime di Mussolini, quando combattemmo nella brigata partigiana “Irma Bandiera”, della VII GAP.
Nino, invece, aveva una gran paura dei fascisti, era normale, quindi, che ci scontrassimo spesso. Io avevo però una grande alleata in casa: mia suocera; lei mi aiutava sempre e mi difendeva anche da suo figlio. Per me era una vera amica e una compagna, e, fino all’ultimo, ci ha unite un rapporto di grande rispetto. Da mio marito ebbi tre figli, le mie perle: Nara del ’29, poi Paolo del ’33 e l’ultima, Iva, del ’36. Loro crescevano in un ambiente uguale a quello in cui crebbi io. Li mettevo a conoscenza di tutto: vedevano lo scambio delle armi, assistevano alle riunioni (per forza poi, visto che vivevamo in una casa con un solo locale diviso da un telone per ricavarne cucina e camera da letto). Le cose bisogna vederle e toccarle, questo è il modo più sicuro per non crescere nell’errore di un ideale falso.
Come madre non ero severa, non picchiavo quasi mai i miei bambini; gli trasmettevo lo stesso affetto che io avevo ricevuto dai miei, e così gli infondevo la fiducia in loro stessi. Gli leggevo dei libri, ricordo ad esempio La Madre di Gorkij e Delitto e castigo, di Dostoevskij, e altri, quei pochi che riuscivo a trovare. Così si andava avanti negli anni; io continuavo a fare la mondina e ad aspettare il crollo del fascismo.
Nel giugno del 1940 l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania nazista; dei primi tre anni di quella che doveva essere una guerra lampo, ricordo solo che la miseria aumentava man mano che il tempo passava, e che io ero sempre in trepida attesa… Poi, un giorno, eravamo nell’estate del ’43, venne a Conselice mio fratello, in bicicletta da Molinella, con un signore così malmesso, e smunto che mi fece una gran pena; Mario mi disse: “Ermina, ti ho portato questo compagno. Ricordati bene che è di un’importanza tale che tu devi difenderlo anche a costo di fare saltare la tua casa”. Per me fu sufficiente, non domandai niente e lo feci entrare in casa. Mentre lui dormiva, era distrutto, preparai da mangiare: andai a comprare quel po’ di carne che mi spettava di diritto secondo la razione, una compagna mi diede un po’ di farina e feci un po’ di sfoglia, così tirai fuori un po’ di minestra in brodo. Quando fu pronto da mangiare, lo svegliammo e ci mettemmo tutti a tavola. Ci fermammo a guardarlo perché la fame che aveva quell’uomo lì, io non l’aveva mai vista.
Non metteva la cucchiaiata di minestra in bocca, ma quasi andava col muso nel piatto per fare prima; gli riempivo di continuo il piatto e lui non si fermava. Si mangiò quasi anche la nostra parte: quando se ne accorse chiese scusa e disse: “ho mangiato troppo, ma non so dire da quanto tempo era che non mangiavo una minestra così! Non lo dimenticherò…” Dopo pranzo, venne la sorella di Cervellati, un compagno, la staffetta Saura; io li lasciai soli perché i segreti sono segreti. Un attimo dopo, lei era già uscita e lui cominciò a prepararsi per andare via. Quando ci salutammo mi disse: “ Ermina, ti dico un segreto per dirti grazie e compensarti per l’ospitalità: entro ventiquattro ore Mussolini cadrà!”.
Non so, non si possono spiegare certe emozioni; non riesco a descrivere quello che provai… era come una campana che suonava nella mia testa, ero intontita dalla sorpresa e dallo stupore. Era un segreto, ma lo dissi lo stesso ai miei bambini. Ero costretta a farlo, perché la gioia che avevo dentro dovevo trasmetterla anche a loro. Il giorno dopo, il 25 luglio del 1943 , la radio annunciò che Mussolini era stato arrestato, l’era fascista era conclusa.
I miei figli erano a scuola, in refezione a mangiare (la scuola dava a mezzogiorno la pasta e una mela), quando si diffuse la notizia. Cominciarono ad urlare di gioia e tutti tiravano le mele ai quadri di quei due mascalzoni del re e del duce appesi al muro, e le maestre non sapevano cosa fare. I miei bambini ripetevano “Noi lo sapevamo! Noi lo sapevamo!”, erano così orgogliosi, ma, per fortuna, nessuno gli ha creduto. Per quarantotto ore provammo veramente che cos’è il paradiso, però in terra! Sono cose che ti rimangono dentro e non si possono cancellare.
Non pensammo all’odio, né alla vendetta, ai rancori, né all’epurazione o ai tanti progetti elaborati nella clandestinità. Non fu per debolezza, ma per spossatezza; avevamo bisogno di goderci i primi momenti da “liberi”, senza più la perenne paura dei fascisti, finalmente, dopo vent’anni, e di assaporarli fino in fondo. Eravamo tutti giovani, insieme, riuniti in piazza, e cantavamo e ballavamo. L’unica cosa concreta che si fece, fu di bruciare le loro divise lì in piazza, rompere l’insegna del fascio littorio che campeggiava sul portone del Municipio e la statua di Mussolini.
Non potevamo saperlo, ma fu tutta un’illusione, solo un’amara illusione. Passate queste 48 ore, Badoglio e quell’altro là, il somarello, il Re, dissero “ la guerra continua”. Fu una nuova tragedia, più grande delle altre, perché allora cominciò un periodo di confusione che non prometteva niente di buono, che culminò nell’ 8 settembre del ’43 … quel giorno cominciò l’occupazione tedesca e lo sbandamento dell’esercito italiano. I ragazzi che erano militari dovevano fuggire, e non si sapeva come fare, perché bisognava nasconderli, dargli dei vestiti civili, un rifugio sicuro.
Quelli che erano in ospedale, li facemmo ammalare noi. La levatrice di Molinella, Elvira Borghesi, mi dette una ricetta stupenda: dare delle olive secche, sia verdi che nere, a questi ragazzi prima della visita militare. Come arrivavano alla visita, cominciavano a fingere di avere un gran mal di pancia. I medici gli facevano una lastra, e vedevano questi bubboni neri, uno diverso dall’altro (accadeva, infatti, che le olive secche non venissero digerite). Gli lasciavamo la loro riserva di olive secche per quando venivano richiamati, e, in questo modo, riuscivamo a rimandare la loro partenza il più possibile, perché i dottori non li dichiaravano idonei.
Anche in questa maniera si formò l’esercito più vero, più sincero: soldati senza divisa né gradi, ma con una consapevolezza tale da capovolgere il mondo! Infatti, molti di quelli che riuscirono a fuggire, si unirono alla lotta partigiana che proprio allora si organizzava per la liberazione armata dal nazi-fascismo; fu una cosa stupenda, benché atroce e terribile…schiaccia il cuore a parlarne, perché non sembra vero. Anche se vado a sbalzi, in qua e in là, ricordo le ore, le date…vivo tutto ancora di nuovo, sento tutto qui, presente, come se fosse oggi. In quell’autunno, noi, che eravamo stati individuati in quelle famose 48 ore, fummo arrestati in massa dai militi repubblichini. Io fui condannata a pagare £ 2800 come risarcimento per i danni che avevo arrecato al fascismo, perché avevo partecipato alla distruzione della statua, delle effigi e degli altri simboli che per 20 anni ci avevano massacrati.
Io mi feci due giornate di carcere. Con me c’era la mia bambina più piccola, Iva, Luciano Romagnoli, un partigiano, e anche il prete, che era un antifascista. Il nostro carceriere era un elemento, perfido, cattivo, disumano, Alfredo Graldi, comandante delle Brigate Nere di Conselice; il suo aiutante, un maresciallo dei carabinieri che era il terrore, si chiamava Scarso Italiano, ed era proprio scarso: anche questo qui, applicando meticolosamente la legge fascista, bastonava che non pareva umano. Mi interrogarono sul 25 luglio, con domande del tipo: “lei guidava le donne in piazza quel giorno, e cantavate; cosa avete cantato?”, e io, per prenderlo in giro: “viva Garibaldi!”. Presi qualche sberla; Graldi mi picchiò lì, davanti a mia figlia, e lei, poverina, si ribellò: gli diede un calcio nelle gambe e urlava “brisa picèr la mi mama! Brisa picèr la mi mama!” (Non picchiare la mia mamma! Non picchiare la mia mamma!) . A lei avevo raccomandato: “Iva, qual cl’lav at dmandar, te diì sempre ca te an se gninta, diì sempre no, no, no” (Iva, qualsiasi cosa ti chiedano rispondi sempre che non sai niente, digli sempre no, no, no!).
Mi rilasciarono con l’obbligo di racimolare queste 2800 lire; dovevo viaggiare sempre con un foglio fatto da loro: se mi avessero trovato fuori tal orario, fuori dalla tal zona prescritta, sarei stata arrestata. Dissi che sarei andata nel ferrarese, dove nel frattempo si era trasferita mia sorella, e che lì avrei trovato il modo di trovare i soldi. Invece di andare a raccogliere soldi, feci un’altra strada e altri raccolti: venni mandata dal comando partigiano a Molinella, per congiungermi con le staffette.
Ebbi un appuntamento con il vice podestà di Molinella, Dario Calori, un antifascista: aveva il negozio proprio davanti al comune; poi andai da Sanni Guido, Mazzacurati per un collegamento di lotte. Passai in queste attività l’inverno del ’43, rimanendo lontana il più possibile dai repubblichini ai quali non avevo ancora risarcito i danni, quindi dovevo ancora scontare la pena. Tutto proseguì senza grandi scossoni fino al giorno in cui, era la primavera del ’44, con dei partigiani romagnoli, dovemmo dare l’assalto allo zuccherificio di Molinella, perché il movimento aveva bisogno di un po’ di tutto. Naturalmente mandarono me con loro, perché conoscevo a memoria la strada ed il paese. L’azione riuscì, e, oltre a portarci via lo zucchero, disarmammo i soldati della brigata nera che erano di guardia, e prendemmo le loro armi, utilissime in una guerra dove nessuno dava i mezzi per combattere, ai partigiani.
Quindi i tre romagnoli, che erano nel gruppo con me, tornarono in Romagna, io rimasi a Molinella ancora un giorno, perché dovevo fare degli altri giri. Le autorità nazi-fasciste iniziarono immediatamente le indagini sui fatti dello zuccherificio. La serva del segretario del fascio di Molinella, Matilde Mariani, era una spia nata, una carogna, era sempre sulla strada a guardare i fatti degli altri; mi conosceva bene, e aveva visto che avevo fatto quel giro qui, quel giro lì, dov’ero andata: così mi denunciò, ed io venni identificata. Il giorno dopo partii da Molinella carica di zucchero, uova, salsicce, vestiti, documenti, ordini e armi, che mi avevano dato per gli antifascisti di Conselice. Quando arrivai a casa, dopo mezz’ora, appoggiai sulla madia tutto questo ben di Dio: non potevo mangiare di quel cibo, non era mio; gli ordini e le armi, le nascosi nell’armadio lì in cucina. Dopo di che andai in bottega a prendere la razione che mi spettava, per fare la cena.
Era una sera che pioveva, e, come arrivai nel negozio, mi raggiunge mio figlio Paolo e mi disse “mamma, ven ban a cà ca iè i fascesta che ien là chi cazen praria incosa” (Mamma, vei a casa ché ci sono i fascisti che buttano tutto per aria!) . Mi venne la pelle d’oca, e pensai: “ Se fuggo metto a repentaglio la vita dei miei figli e dalle lettere che ho sigillate possono risalire a troppe informazioni; e poi dove vado?”. Allora feci come niente fosse, dissi alla bottegaia: “vengo dopo a prendere la mia roba” e corsi a casa. Come arrivai vidi che mi avevano ribaltato tutto, però l’armadio era ancora chiuso; così, un pò rincuorata, mi rivolsi con gentilezza a questi “signori”: “ Ragazzi, avete trovato quel che cercate?”. Mi risposero di no, allora io “guardate che ho un bel salotto rosa dietro casa, se volete vedere…”. Il bel salotto era poi la cantina, ma era una scusa che mi serviva; difatti, quando fummo lì davanti, dissi: “oh! Ho dimenticato le chiavi in casa, aspettatemi qui che vado subito a prenderle”. Ritornata indietro, invece di prendere la chiave della cantina, spostai le armi da dentro l’armadio, e le misi dove avevano già cercato, là sotto ai materassi. Tornata da loro, aprii la porta della cantina: rimasero un po’ delusi, c’erano solo degli stracci. Gli dissi “non volevo che vi rimanesse il dubbio di non aver cercato bene”. Mi risposero: “Non abbiamo trovato niente, però lei, signora, deve venire con noi lo stesso”. Così mi arrestarono di nuovo.
In caserma ritirarono fuori la storia dei danni e che non li avevo ancora pagati. Volevano sapere come mai, nonostante quel mucchio di roba da mangiare sul tavolo, io andassi alla bottega a prendere la razione, che era ben misera. Dovevo essere sempre pronta alla risposta, così mi inventai: “Io sono sarta, e porto i vestiti ai contadini. Spesso non hanno soldi, e così mi faccio pagare in generi naturali, questo però non vuol dire che debba lasciare lì la mia razione che mi spetta di diritto”. Non so se mi credettero, fatto sta che quella notte rimasi dentro.
Il mattino dopo, mi comunicarono la condanna: un anno di campo di concentramento in Germania, per i fatti dello zuccherificio e perché mi ero già esposta e sapevano che ero partigiana. Tutti quelli che arrestarono con me furono condannati alla stessa sorte: il lager. Con me furono più indulgenti perché avevo tre figli, così dovevo scontare un anno solamente, per gli altri la pena era a tempo indeterminato. Una parte di quelli che fecero partire li uccisero, e buttarono i cadaveri dentro al Po. A noi rimasti, diedero un permesso di ventiquattro ore per tornare a casa e salutare i familiari, dopodiché saremmo partiti. Era il 4 aprile del 1944.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quelle ventiquattro ore lì, non so come posso spiegare in che stato le passai. Pulii la casa, feci il bucato. Raccomandavo ai miei bambini di non muoversi di casa perché, se per caso mi venivano a prendere prima, almeno li potevo vedere. Non c’era il telefono per poter chiamare i miei a Molinella, ma forse era meglio così. A una cert’ora, c’era un più bel sole, venne una staffetta, la Grandi, e mi disse: “Ermina, qualunque cosa senti o vedi, non ti muovere di casa, qualunque cosa sia, non ti spostare; perché c’è chi sta pensando alla vostra partenza”. Allora mi misi in attesa, e, verso l’una, vidi un fascista che abitava lì di fronte a me, si chiamava Visitta, correre per la strada con la rivoltella in pugno; subito dopo, sentii degli spari e poi scoppiò un incendio nella caserma del fascio. Avevo paura e mi domandavo cosa potesse essere successo. Seppi solo più tardi che erano venuti giù dalle colline di Faenza i partigiani del comandante Corbari, e che avevano fatto fuori Graldi, il grande capoccione, il grande squadrista, insieme al suo segretario.
Così, nel caos e per la paura, la nostra partenza venne sospesa: infatti, quelli che presero il posto di Graldi non avevano il coraggio di rendere esecutivo l’ordine della nostra deportazione, perché sapevano che Corbari era vigile e non perdonava. Grazie ai partigiani di Faenza eravamo salvi, per ora però, infatti, non eravamo liberi: eravamo là, segnati, sospesi, e vivevamo con il tormento che, in qualsiasi momento, ci potevano venire a prelevare e portare in Germania. La mia fortuna arrivò dall’est: venne giù dalle colline la 5^compagnia, formata da ex prigionieri russi e polacchi, unitisi ai partigiani. Un giorno dovetti ospitare un russo, un piccolino, Surka, che dire che era bravo è prenderlo in giro, e gli spiegai come ero messa. Con mio stupore, lui, a cavallo, andò dritto dentro la casa del fascio, e disse “se vi azzardate anche solo a toccare quella famiglia lì, io faccio saltare tutte le vostre case: e se prometto qualcosa, io la mantengo”. Così, per tutto il tempo in cui la 5^ fu nei dintorni, godemmo di una libertà assoluta: potevamo mantenere i contatti, portare assistenza medica e cibo ai partigiani feriti, e, soprattutto, allontanare il pensiero della deportazione.
Venne purtroppo il giorno in cui la 5^ fu spostata. Come lo seppero, i fascisti alzarono la testa, e noi ci trovammo ancora una volta in loro balìa. Difatti, poco dopo, arrivò da me una staffetta e mi disse: “Erminia, vai via, parti d’urgenza, subito, subito, perché la Brigata Nera sta per venirti ad arrestare, e quel che farà non si sa”. Dove andare, con tre figli, tra l’altro, malati? Non potevo certo pensare di andare in “base”; così, un po’ affidandomi alla buona sorte, lasciato un messaggio a mio marito, partimmo con due biciclette: io presi su Paolo, che era il più grandino, e la Nara l’Iva, che era la più piccola. Con noi avevamo cinque lire e pochi indumenti, per non dare nell’occhio.
La prima tappa la facemmo da mia madre a Molinella; figuriamoci quando mi vide arrivare in quello stato! I bambini rimasero da lei e aspettarono che Nino li raggiungesse, io dovetti andarmene subito, quello non era certo il posto più adatto, specie perché la Matilde era sempre lì, pronta a fare la spia ogni volta che poteva. Così andai da Argentina, nel Ferrarese. Non andai in casa sua, perché stava nascondendo già tre ricercati e perché era più facile per i fascisti venirmi a cercare da lei. Andai perciò in casa da dei contadini, però con mia sorella ci vedevamo, perché stava là vicino, e mi aiutava, mi sosteneva, mi portava anche da mangiare.
La lotta continuava. A Molinella c’era tanto lavoro da fare; soprattutto bisognava risolvere delle questioni politiche, ovvero degli scontri piuttosto accesi tra il PCI ed il PSI: una parte diceva di fare, l’altra diceva di no e disfaceva, noi andavamo a dare degli ordini, gli altri andavano a disdirli…insomma, era una battaglia anche tra noi compagni, che è una cosa ben brutta!
Io andavo spesso a Molinella, nonostante il mio “esilio”; anche se non era la zona più sicura per me, la libertà ha un prezzo che bisognava pur pagare. Avevamo escogitato uno stratagemma infallibile per poter continuare i nostri contatti: io partivo spesso dal ferrarese in bicicletta, con due sporte piene di mele; in quel periodo non c’era il mercato a Molinella per motivi bellici, così vendevo queste mele. Era solo una scusa, in realtà la vendita era il collegamento, il punto di riferimento: venivano a prendere un messaggio, venivano a darlo, perfino da Selva Malvezzi; fu una buona iniziativa.
Lasciai calmare le acque, poi, mi trasferii di nuovo a Molinella con tutta la mia famiglia. Andammo a vivere in affitto in una casa che era parte dei vasti possedimenti del conte Dal Pozzo, e quella fu la mia abitazione fino a che non venni a vivere a Bologna, negli anni ’60. Nino faceva svariati lavoretti come falegname, io continuavo ad andare in risaia. La Nara aveva già 15 anni, anche lei era in formazione, nella brigata Bianconcini. Lavorava all’ufficio della Feldgendarmeria dei tedeschi: gliel’aveva mandata il comando partigiano, perché c’era bisogno di qualcuno che circolasse là dentro per recuperare moduli, timbri, permessi, e la Nara, avendo fatto le scuole di avviamento professionale, sapeva un po’ di tedesco e di francese, era quindi l’unica che avrebbero potuto assumere. Paolo era un ragazzino di 11 anni, ma anche lui aiutava: così piccolo, infatti, riusciva ad arrivare dove un adulto non avrebbe mai potuto. Ad esempio, si metteva a giocare con le biglie davanti alla casa del fascio, e riusciva a carpire delle informazioni preziosissime; infatti, i militi non si facevano dei problemi a parlare davanti ad un bambino! L’Iva, la più piccola, era malata e gracile. Io le mettevo dei bigliettini dentro la pancera, tanto, chi avrebbe mai perquisito una bimba così?
Quante battaglie abbiamo fatto a Molinella! E poi, voglio dire, prima di tutto le donne. Senza le donne la resistenza non si faceva. Avevano un’energia, una coscienza, un valore tale, che anche le donne socialiste battevano i loro uomini, che erano spesso “attendisti”: loro erano sempre presenti nelle lotte e non si sono mai risparmiate. Tutto questo non si dovrebbe dimenticare, e invece, purtroppo…
A tale proposito, un giorno, io e una grande compagna, la Dirce Galliani, anche lei mondina, vedova, con l’unico figlio partigiano morto a Monte Fiorino, ricevemmo l’ordine di accompagnare due partigiani, Vincenzo Dall’Aglio e Marcello Canova, in due basi ben precise in Romagna. Solo io potevo andare perché solo io conoscevo bene la strada e sapevo dove erano le basi in questione. Difatti, li accompagnammo a destinazione; rimanemmo all’oscuro del resto della loro missione, non dovevamo sapere di più, perché era pericoloso. Così, io e la Dirce ritornammo indietro, ma con quattro sporte piene di armi e di messaggi sigillati… cose che fanno rabbrividire!
Anche lì, l’astuzia della donna! La donna ha un’astuzia come una lepre; non c’era nessuno a insegnarci come fare a nascondere queste armi, ma noi ci siamo ingegnate: abbiamo messo sopra le armi un bello strato di patate guaste e cipolle marce; la pestilenza era talmente grande che nessuno si avvicinava per guardare meglio, così si salvava capra e cavoli. Dovevamo attraversare il fiume, nella zona fra Sant’Antonio e Conselice, ma c’era stata un’esondazione ed era tutto allagato. C’era il coprifuoco alle sei di sera, e, per fare in modo che nessuno si trovasse fuori dopo tale orario, avevano organizzato un servizio di traghettazione con due barche che facevano la spola tra un argine all’altro del fiume: in una barca andava la gente, nell’altra le biciclette. Come facevamo noi a dividerci dalle biciclette con quello che avevamo dentro gli sportoni? Lasciammo partire due barche, ne lasciammo partire altre due, e non sapevamo che strada prendere; ci dicemmo: “beh! Aspettiamo il coprifuoco, qualche diavolo ci penserà”.
E difatti, arrivò proprio il diavolo in persona: un carro tedesco, con due soldati a bordo; videro queste due donne un pò malmesse e ci invitarono a salire sul carro. Fu una fortuna per noi! Più protette di così! Capivano abbastanza bene l’italiano, così, mentre caricavano le sporte, scherzando dicevamo: “Fate piano, fate piano perché è pieno di bombe eh! Bum! Bum!”, e loro ripetevano come noi: “bombe eh! Pum! Pum!”, ridendo. Sarà stato per la puzza, fatto sta che non controllarono il contenuto del nostro seguito, e attraversammo tranquillamente la valle. Quando arrivammo sulla strada di S.Antonio, verso Medicina, incontrammo un posto di blocco di tedeschi sulla strada, che ci fermò. Fino a quel momento i due soldati erano stati gentili con noi, ma, quando videro i loro superiori, si irrigidirono e ci fecero scendere brutalmente.
Non appena fummo lontani dal blocco, loro ritornarono educati e rispettosi, e ci aiutarono a scaricare sporte e biciclette; e di nuovo ricominciò il gioco: ”piano che ci sono dei cannoni! Piano, piano!”. Una volta scese, con il nostro carico così pesante, scottante, prezioso, ma tanto puzzolente, salimmo sulle biciclette, e la volata, la corsa che abbiamo fatto da S. Antonio fino a Molinella! Coppi non ci avrebbe superato! Ad un certo punto proprio non ce la facevamo più; abbiamo lasciato andare il manubrio e tutto il resto e siamo andate a finire dentro ad un fosso: abbiamo pianto tutte e due, abbracciate, esauste per lo scampato pericolo; non avevamo nemmeno più la forza di guardare cosa e chi c’era attorno a noi. Siamo arrivate in paese e abbiamo consegnato quello che dovevamo consegnare; eravamo felici perché tutto era andato bene.
In seguito poi, ritornarono anche Dall’Aglio e Canova; anche a loro era andato tutto bene, ma non avevano niente di compromettente: tutto il peso era nostro, tutto sulle donne. Noi imparavamo da sole a fare la guerra, a lottare, senza che nessuno ci avesse mai insegnato come comportarci. Finalmente tornai a casa, ma la quiete durò poco: il giorno dopo arrestarono quattro delle nostre partigiane: l’Orietta Bandiera, la Bianchi Lenina, la Mirka Coletti, e la mia compagna dell’ultima azione, la Dirce Galliani. Era una tragedia, perché venirono a mancare le persone che davano veramente, quelle su cui si poteva contare anche a tutte le ore.
Così, organizzammo la giornata della mondina, fissata per il 12 marzo del ’45. Era uno sciopero di protesta al quale dovevano partecipare tutte le mondine della provincia, e, in questo modo, speravamo di ottenere la scarcerazione delle nostre compagne. Molti personaggi del CLN fecero un giro tra i contadini, per dissuaderli dal dare le proprie case come basi di partenza per l’assembramento, perché questione troppo rischiosa e inutile. Alla fine, invece di otto basi, quelle necessarie, ne avemmo solo tre. Allora, dovetti mettere a disposizione la mia casa, anche se non era il posto più sicuro: dietro il mio cortile c’era un magazzino dei tedeschi; da una parte ero protetta, dall’altra correvo un grande pericolo, ma non ci si poteva pensare. L’appuntamento a casa mia era per la sera dell’11 marzo per le undici circa.
La mattina dopo venne una staffetta, l’Annella Ortolani, a dirmi che a Baricella c’era una riunione militare con gli alleati, molto importante; Martoni, il comandante della mia zona, non poteva andarvi, così il comando aveva deciso di mandare me, e l’Annella mi avrebbe accompagnata, perché era meglio essere in due a ricordare cose di estrema importanza. Quella mattina pioveva, era un gran freddo; avevo una bicicletta come quella dei bersaglieri: a tubolare chiuso, duro. Non stavo bene: ero esausta, sfinita. Soprattutto, ero stanca di non potere mai stare con i miei figli.
Alla riunione c’erano dei militari alleati che avevano attraversato il fronte, e davano istruzioni su come preparare e organizzare la sollevazione della popolazione il giorno della liberazione, che sarebbe avvenuta da lì ad un mese. Erano sicuri che, entro quel periodo, le armate alleate avrebbero sfondato il fronte sulla linea gotica, così bisognava sistemare tutti gli aspetti tecnici e organizzativi in vista di quell’evento. Mi ricordo i segnali che bisognava fare con dei teli o dei lenzuoli per gli apparecchi: una croce per gli atterraggi, una linea per qualcos’altro, ecc… Era una cosa bellissima sentir parlare di libertà, ma c’era anche tanta diffidenza: sapevamo che i nostri cosiddetti alleati giocavano su questa nostra speranza, ed era già un po’ che ci dicevano di attendere, che il momento era vicino; e il momento non arrivava mai… la speranza però, inevitabilmente, era sempre viva. Tutto quello che fu deciso in quella riunione, me lo dovetti registrare nel cervello: non potevamo scriverci niente, perché se ci fermavano era la fine per tutti.
Tornai a casa con la testa piena di notizie, che mi faceva un gran male; arrivai a Molinella che se mi avessero dato un mucchio di botte non le avrei sentite perché ero esausta. Mi buttai sul letto. Sapevo che alla notte dovevano venire i partigiani per la manifestazione del giorno dopo, infatti era l’11 marzo, ma non potevo più muovermi, non ce la facevo ad alzarmi, così rimasi sdraiata a riposare per tutta la giornata. Si fece sera, venne mia madre, mi portò la notizia che sarebbero venuti sette o otto partigiani, un’altra parte sarebbe andata in casa dell’Iddillia, la moglie di un partigiano; insomma, li distribuimmo tutti nelle nostre case, nessuno li voleva, avevano paura.
Il coprifuoco cominciava alle otto quella sera, e, poco dopo lo scoccare dell’orario, sentii la civetta cantare, quell’uccellaccio; una volta si pensava che portasse disgrazia, si diceva: “eh! aiè la svatta l’a canta! Anch quella là la ven a feres gli auguri!”. Difatti, alle 8,30 sentimmo bussare alla finestra; mi sorpresi, pensai: ”beh! I partigiani non sono perché c’è un segnale che questi non hanno fatto… chi può essere…”. Non risposi. Andò la Nara: erano i fascisti che volevano entrare. Venivano da Argenta, da Porto Maggiore, e c’era al loro comando l’avvocato Borgatti, di Cento di Ferrara, un criminale nato, ma anche morto come si meritava, una carogna; però aveva una raffinatezza tale che ingannava, non sembrava un criminale. La Nara rispose in tono duro e gli disse: “Noi abbiamo ricevuto l’ordine di non aprire dopo le otto per nessun motivo; adesso sono già le otto e trenta, e quindi non apriamo”. Così, i repubblichini andarono a chiamare i tedeschi. Venne proprio il comandante delle S.S. Quando la mattina dopo vide la Nara rimase sorpreso e lei gli disse: ” Vede comandante, voi avete lasciato la vostra patria per difendere noi, mentre loro sono qui, imboscati, e vengono di notte per arrestare le mamme che sono qui vicino ai loro figli… vedete che vergogna!”. Il comandante tedesco fece una “lavata” di testa al comandante della Brigata Nera, disse che garantiva lui per noi, che sapeva che la Nara era una gran lavoratrice e non una partigiana di sicuro.
Il 24 marzo ’45, tornarono i repubblichini da soli. In casa avevo un arsenale: il focolare era pieno di armi, nascoste sotto la piastra con sopra gli alari e la legna, e dentro al secchiaio, nella parte alta, c’erano le lettere e delle rivoltelle. Il comandante mi ordinò di prepararmi perché ero in arresto, e mi disse: “ Faremo anche una perquisizione, anche se inutile, perché lei avrà avuto tutto il tempo di nascondere la roba”, al che io risposi: “Dove vuole che la nasconda, abbiamo solo una camera qui al pianterreno!”. Mio marito, socialista, di indole diversa dalla mia andò a braccia e gambe aperte davanti al secchiaio, come a dire:”cercate dappertutto, ma non qui!”. I repubblichini guardarono dappertutto, ma non trovarono niente.
Mi portarono via. Dissi alla Nara: ”Te t’an è brisa sol un compit… te et da fer anch la mama…!”. Salutai i miei bambini con gli occhi: i nostri sguardi dicevano tutto, nessuno parlò, e non ci fu neppure un bacio tanto eravamo congelati tutti. Mentre mi portavano via, passarono ad arrestare anche un socialista, Angiulen al calzulèr, di Molinella. Lui si stava preparando per andarsi a nascondere, tentava di scappare, e in viaggio quasi mi rimproverò come ad accusarmi del suo arresto! Se avessimo tardato anche solo di dieci minuti, lui si sarebbe messo al sicuro. Ci portarono nel carcere di Porto Maggiore.
Iniziarono la sera stessa a torturarci, ma con delle torture raffinate! Non sapevo che le mie amiche, le mie compagne che avevano arrestato qualche giorno prima, erano lì; lo scoprii perché quei banditi chiamarono lì la Bianchi Lenina, e me la misero davanti mentre mi torturavano; anche lei aveva i segni delle botte che aveva preso. Mi misero su due sedie: le spalle su di una, le gambe sull’altra, e nel mezzo il vuoto; finché potevo, rimanevo rigida, dritta, ma la schiena dopo un po’ cedeva, allora un milite lì vicino mi tirava dei calci, alcuni dei quali mi hanno rotto due costole. Poi mi misero in mezzo alle dita dei piedi della carta, e la bruciavano. La Lenina non sopportava più di vedermi soffrire in quel modo, allora con tanta amarezza mi disse: ”Ermina, sat se quel dil, parchè lor que i fan dscorrer anch i mort”; io, pur nel dolore che provavo, urlai: “Mo chi it te?me an so gnanc chi it te, me an so gninta!”; dopo la riportarono in cella.
Se durante la tortura ti lamentavi perché non resistevi, ti mettevano in bocca dell’urina guasta (aveva anche la schiuma), che era in un vaso lì vicino a noi, in terra. Io ero davanti al tavolo della presidenza: sopra c’erano tutti gli arnesi per le torture, bombe a mano, mitra, e, appeso al muro, un cristo inchiodato, là, in mezzo a tutto quel lavoro…tutti noi che siamo passati in quella stanza eravamo Cristo.
Ad un certo punto fecero entrare Angiulen; il comandante gli strinse la mano e disse: ”Diamoci la mano, noi siamo colleghi, perché il suo socialismo è anche il mio… con lei no, lei no, comunista, una nemica mortale!”. Mi confortò e mi riempì di orgoglio, perché i comunisti facevano paura anche ai più grandi criminali. Fu lunga: quattro giorni di supplizi indicibili. Dopo mi chiusero in una cella di punizione… un gabinetto pubblico non è così per terra. Il mangiare era quello che era, non mi accorgevo neanche di quello che mi davano. Mi diedero l’ultima salata: mi batterono sulla testa, ed io me la riparai con le mani, così mi ruppero il pollice e l’indice; mi diedero una bastonata sulle gambe, si ruppe il bastone e mi rimase dentro il pezzettino di legno; mi fecero un buco nel ginocchio e mi schiacciarono le dita dei piedi. Ce n’ era abbastanza per fare crollare chiunque, ma io pensavo a mio padre, a quante ne aveva passate lui senza piegarsi, allora traevo forza e non dissi una parola né un nome per tutta la mia prigionia.
Dopo quest’ultima batosta, mi avvolsero in un panno e mi portarono su per delle scale; io ero in stato di semi incoscienza. Ad un certo punto, aprirono una porta e mi buttarono dentro, ma nello stesso modo in cui si butta un sacco di stracci. Io non lo sapevo, ma ero nella cella delle mie compagne, la Dirce, l’Orietta, la Mirka, una cattolica socialista ma molto brava e di cuore, la Lenina, e l’Anna. Loro scoppiarono in un grido di gioia, perché, anche se ero ridotta malino, ero viva, mentre la Lenina gli aveva detto che mi sarei fatta ammazzare, così non speravano più di vedermi, perciò immaginate la felice sorpresa in mezzo a tanto dolore! Mi curarono come poterono, e quando fui in grado di parlare mi chiesero cosa mi avevano fatto, dissi: “Niente, niente… mi hanno dato solo degli schiaffi…”; allora, la Lenina, tutta arrabbiata: “Stai zitta lì! Bugiarda che sei! Ti ho visto, non resistevo più, ti han fatto di tutto!”, e io: “Va bene, è vero, ora però sono qui, siamo tutte insieme, ed è questo l’importante”.
Io e la Dirce dormivamo nello stesso letto. Lei era mamma, io pure. Lei parlava sempre del suo Pirèn, non vedeva l’ora di riabbracciarlo. Per non farci scoprire, le dissi sottovoce quello che avevo saputo alla riunione militare, vale a dire che nel giro di un mese ci sarebbe stata la Liberazione e che i partigiani sarebbero tornati alle loro case. Allora disse: ”Dio, quando vedrò il mio Pirèn che ritorna sotto la bandiera tricolore, pensa la gioia che proverà anche lui nel vedere che anche la sua mamma è stata partigiana!”.
Voglio ricordare un episodio che rende la misura della crudeltà e della barbarie in cui vivevamo tutti quanti. Avevano arrestato un partigiano di venti anni, Toni, un ragazzone biondo figlio di una madre vedova, e l’avevano torturato in modo indicibile: gli grattarono il viso con una grattugia per il formaggio, e gli si era attaccata la paglia del letto dove dormiva, di modo che la sua faccia era tutta una piaga purulenta. Per pura crudeltà (i nazifascisti la chiamavano esempio educativo), ci costrinsero ad assistere ad un suo interrogatorio: i brigatisti gli chiedevano “conosci questo o quello” e lui rispondeva sempre si, e diceva: ”comandante, un goccio d’acqua, per favore, un goccio d’acqua”. Gli mettevano il bicchiere vicino alla faccia, lui tirava fuori una lingua riarsa che faceva pena, e loro gli facevano sgocciolare l’acqua per terra e ridevano…non gliene hanno data neppure una goccia. Alla fine l’hanno sepolto vivo in un fosso vicino a Ferrara, dove l’hanno trovato dopo la guerra, mangiato dalle formiche.
Solo il cuore piangeva, né io né le mie compagne potevamo piangere, perché il pianto è segno di debolezza, e noi non potevamo permetterci di apparire deboli; per andare avanti non dovevi sentire nulla. Erano giorni tremendi, in cui però sapevamo che eravamo tutte vive. Un giorno arrivano i militi, aprono la porta della cella, e, senza dire niente, ci portano via tre donne, la Lenina, l’Anna e la Mirka. Figurarsi noi! Giù a chiederci dove le avevano portate, cosa gli avevano fatto. Ci dissero di stare tranquille perché non avevano sofferto: un colpo secco dietro la nuca, non se n’erano neppure accorte; i loro corpi li avevano poi gettati nel Po’. Non si possono descrivere certe sensazioni, sapevamo solo che non dovevamo crollare, non impazzire. Allora mi venne un’idea: l’Orietta ha una voce da soprano favolosa; quando cantava nella risaia, la sua voce attraversava tutte le risaie e risuonava ovunque, perché l’acqua non solo porta la voce, le dà anche più potenza.
Mi misi davanti a loro e dissi: ”Cantè mo un poc ragazoli”; loro mi guardarono un po’ allibite, pensando che io fossi andata un po’ giù di testa, ma io insistetti, e alla fine l’Orietta cominciò a cantare la canzone delle mondine di Molinella, all’inizio piano piano, poi sempre più forte, con quella sua voce squillante che sembrava una sirena. Tutte cantavamo e il cuore ci si riscaldò. “Siam le mondine di Molinella, siamo tutte di un sentimento, morir di fame, morir di stento, noi vogliamo la libertà…”; il ritornello diceva “fascisti e krumiri son tutti da ammazzar” e non potevamo cantarlo, ma facevamo l’aria. Ad un certo punto, vedemmo lo spiraglio della porta che si apriva: un mucchio di teste di brigatisti fece capolino dietro il buco.
Questo nostro canto li aveva messi sul chi va là, forse pensavano fosse un richiamo, un contatto coi partigiani. Furono presi dal panico: ci presero e ci caricarono su una macchina; per strada avevamo una scorta che neanche il Presidente della Repubblica ne ha mai avuta una tanto imponente: dentro alla macchina con noi c’erano due brigatisti, davanti c’era una moto per ogni lato della macchina e un’altra macchina piena di militi, dietro, una fila di motociclette. Ci portarono nel Castello Estense di Ferrara, momentaneamente trasformato in un carcere, dove trovammo le nostre compagne che ci avevano fatto credere morte, forse per divertirsi nel vederci stare male. Dopo un nuovo interrogatorio ed un’altra fila di sberle, ci portarono nella cella che ci ospitò fino alla Liberazione.
Nella cella non c’erano letti, solo materassi, luccicanti dal tanto che erano sporchi, buttati per terra; dormivamo senza lenzuola, con addosso solo un panno talmente lurido che ci si potevano scorgere le cimici e le pulci che vi saltellavano sopra. Tutta la notte ci grattavamo per il prurito che ci provocavano questi animaletti, era una cosa schifosa, ma dovevamo andare avanti. I secondini, a mezzogiorno, ci venivano a portare il mangiare dentro un paiolo come quello che si usa per fare il bucato, ma il pentolone puzzolente lo portavano dei detenuti che stavano nel reparto degli uomini, dove c’erano anche molti dei partigiani della zona attorno a Molinella. Così trovammo il modo di metterci in contatto con i nostri compagni: quando i prigionieri entravano nella nostra cella, lasciavano cadere di nascosto un bigliettino che ci avevano scritto, il giorno dopo prendevano il nostro messaggio di risposta e glielo portavano quando tornavano al loro reparto, e così via.
C’era un sistema di comunicazione tra il reparto maschile e quello femminile, che gettava nel panico i fascisti in maniera particolare: noi urlavamo “Bel colpo” e loro rispondevano “Pataca”…e si sentivano queste grida volare per tutto il carcere e nessuno poteva fermarle, perché giungevano da tutte le parti; i militi credevano che fossero delle parole d’ordine o il segnale di qualcosa, per questo si agitavano.
Alla domenica, tutte le mie compagne andavano a Messa, non so quanto per fede o quanto per cambiare un po’ aria o per potersi scambiare dei messaggi, a gesti naturalmente, con i compagni, visto che nella cappella stavano da una parte gli uomini e dall’altra le donne. Io non ci volevo andare, non mi da fastidio chi va in Chiesa, ma io sto bene fuori. Un giorno le ragazze mi dissero che Fiero Romagnoli, un partigiano di Molinella di vent’anni cui avevo fatto un po’ da mamma, aveva chiesto di vedermi, e così mi lasciai convincere ad andare. La domenica dopo, mentre andavamo alla Messa, chiesi alla Mirka: “Beh! Mirka, come faccio io che non so neanche cosa debbo fare, cosa debbo dire!”, e lei: ”Tu stai vicina a me, e fa quello che faccio io!”. Il problema era che a me interessava dei compagni, non di quello che faceva la Mirka, così, quando mi ricordavo di guardarla, se lei era in ginocchio mi inginocchiavo anch’io, ma poi lei si alzava su ed io non ero pronta e rimanevo giù; stessa cosa per il segno della croce: io partivo quando gli altri l’avevano già fatto, e via così: io arrivavo sempre per ultima. Il prete, accortosi di come stavano le cose, ci mandò fuori urlando: “Vergognatevi, non siete degne di entrare in Chiesa! Da oggi in poi non verrete più qui per la messa, ma verrò io nella vostra cella tutte le mattine!”.
Io avevo la risposta pronta, mi sembrava già scritta nella mente, dissi: “Senta, io non sono venuta per sentire la Messa, ma per vedere i miei compagni di sventura, per me è questa la vera Messa. In quanto poi a venire nella nostra cella, si ricordi una cosa: la cella oggi è la nostra casa, e in casa nostra vengono solo le persone bene accette da noi… lei non lo è, rimanga fuori, perché se viene, rimane dentro con noi!”. Non è mai venuto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Verso la fine di aprile, cominciammo a sentire i bombardamenti farsi sempre più continui e vicini. Ci chiedevamo il perché di tutti quei carri armati che passavano di notte e di tutto un via vai sempre più frenetico. Non potevamo certo sapere come stavano le cose: la famosa Liberazione era arrivata a Bologna e provincia, e la linea del fronte si era spostata proprio dove stavamo noi, per questo la battaglia infuriava con tanta violenza. La mattina del 22 aprile del‘45, sotto un bombardamento che aveva come obiettivo proprio il carcere di Ferrara, eravamo nel cortile per l’ora d’aria; stavamo lì a fare le pulizie col nostro bugliolo e a raccogliere i cocci divelti dai muri e i pezzi di metallo (potevano sempre venire utili).
Finita l’ora tornammo in cella. Dopo un po’, la porta della cella si aprì ed entrarono cinque brigatisti… fu tragica in quel momento lì; tutte pensammo: questa è la fine, o ci portano via o ci uccidono qui. Ci guardammo, ci stringemmo tutte le une alle altre. Quello che sembrava essere il comandante, con in mano il foglio con tutti i nomi dei detenuti, disse: “Chi è la Bianchi Lenina? “, io risposi: “Qui siamo tutte Bianchi Lenina!”. Lui : “Ho detto: chi è la Bianchi Lenina!”, io: “Lo ripeto: siamo tutte Bianchi Lenina!”; allora lui mi diede una sberla, ma data bene. Sono nata ribelle per diritto alla vita e per difendermi, e, anche se stavo per morire, la mia dignità ebbe un sussulto: mi dissi basta, basta botte da questi banditi! Gli diedi due sberle, ma con tutta l’ira e tutta la rabbia che sentivo dentro di me, talmente forti che gli apersi le cicatrici che aveva sul viso; erano ancora fresche, e cominciarono a sanguinare. Al che lui sorrise, certo del fatto che le persone che stava liberando erano quelle giuste, e disse: “Svelte! Svelte! Siamo partigiani, siamo venuti a liberarvi”. Il comando partigiano a Molinella, infatti, aveva dato disposizioni perché liberassero le partigiane ancora prigioniere nel carcere di Ferrara. Non poteva fare diversamente, perché non poteva presentarsi come partigiano!
Io crollai, non so se dal dispiacere di averlo picchiato, o per l’emozione a sentire quella parola: liberarvi… L’Orietta gli disse: “Dimmi come ti chiami, che almeno, se ti rincontro un giorno, io ti possa ringraziare!”, lui rispose: “Non ringraziarmi… sai che il nome non lo posso dire, ti dico solo che sono un avvocato”. Aprirono il cancello della cella, ma prima di lasciare il carcere andammo ad aprire le celle di tutti gli altri detenuti, perché quelli che c’erano dentro, anche se ladruncoli, erano sempre meglio di quelli che erano fuori. Liberammo tutti, e poi via, libere finalmente! Si unì a noi anche Fiero Romagnoli.
Raggiungere Molinella non era facile; prima di tutto il fronte era lì, per cui noi eravamo tra due fuochi: piovevano bombe ovunque, un fuoco tremendo dappertutto. La strada era inagibile: i ponti erano stati fatti saltare, il fiume era in piena, e non sapevamo come fare per passare gli argini; in più non sapevamo che direzione dovevamo prendere, e non c’era nessuno in giro cui poterlo domandare. Cominciammo a camminare per la campagna ferrarese, e ci accorgemmo che, a forza di girare, stavamo tornando a Ferrara: vedemmo il castello da lontano; la Lenina urlò: ”Eh! La Madona! Sagna a Frera un’etra volta!”. Allora via, tornammo indietro, di corsa, sempre di corsa, scalze, perse, sotto il fuoco… non si possono spiegare certe cose.
Ad un certo punto arrivammo vicino a San Bartolomeo, in aperta campagna. C’era una famiglia tutta disperata; la mamma stava attaccata ad un albero dove gli avevano ucciso un figlio, gli altri la chiamavano da dentro una specie di rifugio che si erano costruiti: un buco in terra coperto con dei fasci di legna, ma lei non voleva saperne di staccarsi da lì. Noi ci siamo avvicinate e le abbiamo raccontato la nostra storia, abbiamo cercato di farle coraggio, e lei, sentendo solidarietà per il suo dolore, non solo ha accettato di entrare nel rifugio, ma ci ha invitate a trascorrere la notte dentro con loro. Per tutta la notte abbiamo sentito un lavoro, un inferno sopra le nostre teste! Carri armati, gente che correva, urli, bombe, spari. Verso il mattino non si sentiva più niente: sembrava un sogno. Uscimmo dal rifugio; tutt’intorno cadaveri, terra bruciata e distruzione, ma anche delle lenzuola bianche stese alle finestre delle case ancora in piedi: non era bucato steso, era il segnale che lì era zona liberata! Per noi era una liberà tanto attesa, tanto sognata!
Eravamo ai confini tra il ferrarese e il bolognese, e trovammo i carri armati dei nostri cosiddetti alleati americani che ci venivano a prendere per portarci a Molinella, perché avevano ricevuto la comunicazione che le partigiane erano state liberate e che stavano tentando di tornare verso casa. Ci sono venuti a prendere coi carri armati: è stata una cosa che mi ha fatto male… abbiamo detto: “No!” tutte! Non sarei mai entrata nel mio paese su un carro armato! Mai! Ne avevo già visti troppi, e avevo rischiato la vita mia e dei miei cari, proprio per non vederne mai più; avevo combattuto una guerra perché fosse l’ultima, per lasciare al futuro una società più giusta e pacifica, e così le migliaia di compagni che con me soffrirono e morirono, e non era coerente accettare un rientro a Molinella liberata su di un mezzo di distruzione! Così, loro ci seguirono con i carri, e noi proseguimmo davanti a loro, a piedi, scalze, ferite, esauste, per altri venti km.
La radio aveva già diffuso la notizia della nostra liberazione, e fu una gioia immensa, perché, strada facendo, c’era tutta la gente sui cigli delle strade, sulle porte, a salutarci; c’era chi ci dava un fiore, chi un bicchiere d’acqua: non riuscivamo ad assaporare quei momenti, perché ci sembrava ancora di sognare, non ci sembrava vero quello che vedevamo. Arrivammo al nostro paese, e trovammo le autorità ad aspettarci, tra cui il sindaco fresco fresco, Martoni, un socialista. C’erano mio marito, i miei figli, malati ma vivi, mia madre, distrutta ma non avvilita, sempre forte…che gioia fu il poterci riabbracciare! Ma ci furono ancora morti, troppi morti da contare: il figlio della Dirce non ritornò, cadde combattendo a Montefiorino, aveva venti anni; mio fratello fu ucciso il 20 aprile!
Davanti a noi c’era un mondo da ricostruire, tutto da ricominciare, mille nuove lotte da affrontare. Fu diramato l’ordine di deporre e consegnare tutte le armi. Noi le mettemmo tutte in una bara, con l’impegno, un giuramento fatto sui nostri caduti, che non le avremmo usate mai più, che nessuno avrebbe più usato un’arma, perché non volevamo più guerre. Purtroppo, invece, quelle armi e molte altre sono state prese, e usate anche contro di noi partigiani… questa è la cosa che mi pesa ancora oggi.
Io, per non impazzire tra i ricordi, mi buttai a capofitto nella ricostruzione di Molinella: la mia coscienza era ancora viva, e volevo risanare, riparare tutto il male che ci avevano fatto. Fui eletta consigliera comunale. Avevo il compito più amaro: la distribuzione dei generi contingentali. Non c’era nulla da dare a nessuno, la miseria era sovrana ovunque. Quello che si riuscì a fare, fu, anche in questo caso, merito delle donne, mondine e braccianti. Di loro iniziativa, fecero il giro dei contadini e presero le famose primizie che questi dovevano al padrone come regalia; invece che agli agrari, le distribuirono a chi aveva più bisogno: i poveri, gli ammalati, gli ospedali, gli orfanotrofi. Furono le donne ad organizzare tutto, a mettere in campo questa rete di solidarietà!
Un’altra attività di quel periodo, era la ricerca dei nostri prigionieri, internati militari e deportati sopravvissuti ai lager nazisti, sparsi per l’Italia e l’Europa, e non ancora tornati. Una volta si organizzò una spedizione dalle parti di Trieste, e partimmo col camioncino di Bologna. Eravamo lì che giravamo per le strade, quando vedemmo un ragazzone alto e biondo tutto sporco e barcollante; quando lui si accorse che era il camion di Bologna, si sbracciò e noi lo caricammo. Durante il viaggio lo riconobbi: era Ivano, il figlio della Matilde Mariani, quella che aveva fatto la spia e mi aveva fatta arrestare la prima volta. Arrivati a Molinella, lo portammo a casa da sua madre. Il giorno dopo, la Matilde venne all’ufficio dei generi contingentali chiedendo le razioni che spettavano a lei e suo figlio; io le dissi: “A te non do niente, a Ivano spetta anche la tua parte, ché se la merita; mandamelo qui domani, che voglio che sappia la verità da me, non dalla gente in giro che storpia sempre le cose”.
L’indomani arrivò sto bel biondone tutto pulito che non sembrava neanche più lui, prese la sua razione ed io, facendomi coraggio, cominciai a parlare. “Ivano – gli dissi – devo dirti una cosa che non ti piacerà, ma sei un uomo forte, hai superato il campo di concentramento, ed è giusto che tu sappia come stanno le cose da me. Mentre tu eri in un lager perché hai combattuto per un’idea, tua madre qui faceva la spia per i tedeschi ed i fascisti. Finita la guerra avrei potuto denunciarla, ma non l’ho fatto perché non ne vale neppure la pena, però non dimentico…”, e gli feci leggere la denuncia che avevo subito a causa sua, come prova. Il dolore che provò quel ragazzo fu enorme: si sentì tradito dalla sua stessa madre; infatti, anche se la perdonò, si staccò da casa, e, per lavoro, girò molto all’estero.
Le cose, intanto, miglioravano nella mia famiglia. Sarò grata per sempre a Togliatti per essersi preso a cuore i miei figli: senza il suo aiuto e quello del partito, il PCI, sarebbe stata più dura. La Nara frequentò la scuola per infermiera professionale e assistente sanitaria all’ospedale S.Anna di Ferrara, ed il primo anno di studi glielo pagò Togliatti con il partito: £ 5000! Quanti soldi erano per allora!
Dopo un po’ io crollai; ero sfinita, le ferite non guarivano, zoppicavo, avevo dei dolori insopportabili, volevo resistere, andare avanti, ma c’è un limite a tutto. Fui ricoverata al Putti, un ospedale militare; da lì mi mandarono in un convalescenziario dello Stato per i partigiani, Villa Altura, a Bologna. Riposarmi e curarmi andava bene, ma se stavo ferma a letto tutto il giorno senza fare niente, mi ammalavo ancora di più; i medici si accorsero del mio carattere irrequieto, così un giorno mi chiamarono in direzione. C’era il dott. Avellino, e mi chiese se fossi stata disposta ad occuparmi di una ventina di bimbi molto poveri provenienti dal napoletano, che l’ospedale aveva accettato di accogliere per curarli; mi avrebbero dato un appartamento molto grande all’ultimo piano della Villa, dove stare con loro. Io rimasi un po’ sorpresa; ero ammalata, non sapevo se sarei stata in grado di stare dietro a venti bimbi da rimettere in sesto, ma non potevo dire di no, non ne ero capace… accettai.
Arrivarono questi bambini, in venticinque; sembravano dei cagnolini: erano malmessi, sporchi, rotti, con delle giacche con le maniche che avevano trenta centimetri in più, al posto dei bottoni avevano le spille. Sono cose che mi demoralizzavano, mi chiedevo perché erano ridotti così; va bene la miseria, ma quello non era miseria, era non pensare a quei bimbi, era lasciarli a loro stessi, perché un bottone, anche nella più nera miseria, lo si riesce ad avere. Arrivarono in stazione a Bologna, stanchi e affamati. Appena ci sentirono parlare in dialetto fra noi, ci sfuggirono di mano; urlavano spaventati: “Ci hanno portato tra i Russi, adesso ci uccidono, aiuto!”…non conoscendo il dialetto bolognese, erano convinti che fossero capitati un Russia. Dopo un po’ di battaglia li recuperammo, spiegandogli dov’erano e perché.
Sono stata cinque mesi con quei ragazzi lì, ma se lo dovessi rifare, forse ci penserei due volte! Alla fine, riuscii a renderli presentabili e civili, ma quello che non ho faticato! Per tutto, una lotta: quando bisognava portarli a lavare erano urli e liti, perché non venivano, dicevano che noi li avremmo annegati. Quando era pronto da mangiare idem, perché avevano paura che il cibo fosse avvelenato; così mangiavo io per prima, e loro si tranquillizzavano. La ragazzina più grande, Di Bauni Francesca, era un po’ il loro capo: gli altri facevano come faceva lei. Il problema era che era una cinna tremenda e molto diffidente, perché il parroco del loro paese, prima che partissero, li aveva messi in guardia contro di noi, i comunisti emiliani, perché li avremmo uccisi e poi mangiati, e sciocchezze simili, e lei stava molto attenta a quello che facevamo.
Mi ricordo quando avevamo il problema di togliergli i pidocchi. Tutti ne erano pieni zeppi, ed io feci di tutto per farglieli andare via, ma le uova non morivano, così, quando venne il dott. Bianchi per la visita, glie ne parlai. Lui decise che l’unica era rasare a zero tutti quanti. Quando la Francesca lo sentì, si mise ad urlare come una matta ed a sobillare gli altri. ”Aveva ragione il prete! Me lo aveva detto che mi avrebbero tagliato i capelli!”, poi sputò in faccia al dott. Bianchi e mi diede un calcio. Il dottore la prese per un braccio e in tono severo le intimò: ”Chiedi scusa a questa signora che è qui in ospedale per farsi curare e invece sta qui a prendersi cura di voi! E dì a tua mamma che invece di farti la permanente -Francesca aveva, infatti, dei lunghi boccoli permanentati- poteva pensare a toglierti i pidocchi da dosso!”. Quella volta non chiese scusa, ma poi, piano piano, con una gran pazienza, divenni la Mamma di questi bambini.
Mi feci dare una macchina da cucire, io ero anche sarta, e gli confezionai dei vestiti nuovi con della stoffa; andai a batter cassa dai signoroni di Bologna, così gli comprai delle scarpe. Quando venne il momento, li lavai e li pettinai, indossarono gli abiti e le scarpe nuove, e li portai giù nella mensa del convalescenziario, per mostrarli a tutti. Fu una bella soddisfazione: erano bellissimi, sembravano tanti fiorellini! Non sembravano neanche più gli stessi di prima, e loro gongolavano dalla contentezza. La Francesca, di sua spontanea volontà, scrisse una lettera al suo parroco: ”Appena torno, verrò a Messa, ma mi metterò sul pulpito di fianco a lei, e dirò che lei ha detto tante bugie: sì che ci hanno dato da mangiare, ma non erano avvelenate le tagliatelle; sì che ci hanno lavato, ma non ci hanno affogati; sì che ci hanno tagliato i ricci, ma erano pieni di pidocchi…” .