Giugn 2015. La bontà disarmata.

 

 

 


La bontà disarmata,
incauta, inesperta e senza accorgimento
non è neppure bontà,
è ingenuità stolta e provoca disastri.

 

Antonio Gramsci

 

 

 

 

 

 

 


“El mestéè del mes” è dedicato a un libro-inchiesta di Valentina Furlanetto, giornalista di Radio24-Il sole24ore sul non profit “L’industria della carità”(ed.Chiarelettere, 2013), ovvero storie e testimonianze inedite sul volto nascosto della beneficienza. Ho estratto alcuni brani per, come sempre è nelle mie intenzioni, dare un assaggio stuzzicante e provocatorio del tema limitandomi alle testimonianze riferite agli interventi delle ONG– ONLUS nel terzo mondo.
Il libro esamina la generalità del non profit o presunto tale, dalle adozioni internazionali al commercio equo-solidale, dai bilanci alle fonti di finanziamento delle ONG-ONLUS, dalle strutture manageriali e operative e relativi costi al marketing, dagli interventi internazionali a quelli nazionali, dagli intrecci tra profit e non profit agli scandali e al malaffare.
Non intendo delegittimare il non profit, ma istigare al dubbio, invitare all’informazione preventiva: se dovete versare soldi a qualche organizzazione assumete dati su come opera, sui bilanci pubblicati, sui progetti, sulle fonti di finanziamento, porre attenzione sulla differenza progettuale tra emergenza e sviluppo compartecipativo, non fatelo limitandovi al “nome”, alla pubblicità, al testimonial, all’amico che ve l’ha consigliata.
Concludo, per correttezza di informazione, che il libro ha avuto molteplici critiche dal mondo non profit, come sempre le determina un’inchiesta mirata: alcune critiche sono reperibili su internet.

 

 

 

 

 

 

 

 

È importante questo libro di Valentina Furlanetto su un tema di cui in Italia si è sempre parlato poco, come si è riflettuto poco sulla nostra «mala cooperazione». È un argomento che mi ha sempre appassionato, soprattutto nel periodo in cui sono stato direttore della rivista «Nigrizia››. Purtroppo devo ammettere che dal 1985, quando su «Nigrizia» pubblicai l'editoriale “Il volto italiano della fame africana”, una denuncia del sistema di aiuti ai paesi del Sud del mondo, le cose non sono cambiate. Casomai sono peggiorate.
In quelli articolo denunciavamo il fatto che i partiti avevano messo le mani sui fondi per la cooperazione e sui soldi per la lotta alla fame in Africa, tanto che, se un magistrato avesse indagato, io credo che già allora sarebbe scoppiata Tangentopoli. Oggi la cooperazione è ridotta a zero, quindi la politica non può più lucrare tanto su questi fondi, ma è stata sostituita da strumenti più raffinati e sofisticati come la finanza e altri.
Al momento l'unica cooperazione portata avanti sia dal governo Berlusconi sia dal governo Monti è il business. Ne abbiamo avuto un esempio a ottobre 2012 durante il Forum sulla cooperazione a Milano, organizzato dal ministro Andrea Riccardi, dove sono stati invitati tra l’altro l’Eni e un personaggio discusso e discutibile come Blaise Compaoré, divenuto presidente del Burkina Faso dopo il colpo di Stato del 1987. Anche in questa occasione è venuto a galla quanto è sotto gli occhi di tutti da anni, cioè che il ministero degli Affari esteri fa appunto affari. Altro che «Muovi l’Italia, cambia il mondo», com’era lo slogan del Forum!
Questo mi addolora molto perché invece gli italiani sono un popolo generoso. Non ho mai incontrato un popolo così vivace nell'associazionismo, così disposto a donare e a dare una mano agli altri. La generosità però non deve servire a scaricarci la coscienza. Dobbiamo infatti controllare chi sono i finanziatori delle associazioni e dove vanno a finire i soldi. Posso dire che, secondo me, nell'opinione pubblica sta crescendo questa consapevolezza e questa richiesta di trasparenza. Non noto altrettanta consapevolezza nella stampa italiana, che è estremamente provinciale. Nei nostri giornali non c'è attenzione critica a queste realtà, quando invece sarebbe compito della stampa offrire un’informazione seria sul Sud del mondo.
La stampa potrebbe imparare molto da questo libro, che racconta come associazioni e istituzioni che dovrebbero aiutare gli altri a volte spendano troppo per tenere in piedi la struttura, per pubblicizzarsi, per competere fra loro e avere i fondi. Alla fine troppo poco va allo scopo finale per le quali sono nate queste realtà. Le grandi istituzioni, come la galassia Onu, spendono l'80 per cento dei fondi per finanziare la struttura dell'Onu stessa. Funzionari e dipendenti mantengono uno stile di vita nel Sud del mondo che io definisco semplicemente scandaloso.
ln Africa ci sono immensi campi di rifugiati dove la gente vive in situazioni drammatiche, mentre vicino vivono funzionari e cooperanti con tutti i comfort occidentali. Questo è uno scandalo! E le ONG? E’ un mondo molto variegato quello delle ONG, c’è chi lavora e opera a fianco della povera gente e chi ha assunto il modo di fare delle grandi istituzioni. ln generale, però, ho l'impressione che le ONG -con le dovute eccezioni, ovviamente- alla fine siano servite più a noi che non agli impoveriti perché funzionali a un modello di sviluppo occidentale. Diventano spesso i paletti avanzanti del nostro commercio estero. Non sempre questo accade consapevolmente, ma accade.
Basta con la carità, c’è bisogno di giustizia. È assurdo un mondo come il nostro, dove c'è così tanta ricchezza mal spartita. Un mondo dove il 20 per cento della popolazione consuma l’80 per cento delle risorse è un sistema di apartheid che produce un miliardo di obesi fra i ricchi e un miliardo di affamati fra i poveri. É l’Africa soprattutto a pagarne le spese. Forse è proprio la sua ricchezza a essere la sua maledizione.
Tutto questo è frutto di politiche economiche e finanziarie che rendono pochi sempre più ricchi e molti sempre più poveri. Questo vale non solo per il passato (schiavismo, colonialismo, neocolonialismo, neoliberismo), ma anche per il presente. Le assurde politiche economico-finanziarie sono sotto gli occhi di tutti. Basterebbe pensare al fenomeno del land grabbing, dove i ricchi del mondo «arraffano» terre nei paesi impoveriti per produrre cibo per sé o per ottenere biocarburanti. Oppure la nuova politica della Ue, che impone ai paesi impoveriti gli Epa (Economic partnership agreement), obbligandoli a togliere i dazi. Così l’Unione europea, che sostiene la propria agricoltura con 50 miliardi di euro l'anno, può svendere i propri prodotti agricoli sui mercati africani. I contadini africani non possono competere. È un'altra maniera per affamare l'Africa.
Una vera politica di aiuto sarebbe quella di sostenere gli agricoltori africani perché il Continente nero possa arrivare all’autosufficienza alimentare. Altrettanto inique sono le politiche commerciali imposte dall'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), che strozzano i poveri. Proprio per contrastare tali politiche e informare i cittadini del Nord del mondo abbiamo sostenuto il commercio equo e solidale (Ces). Lo ritengo una perla preziosa. Eppure il nostro sistema è talmente scaltro che è capace di rendere questa perla funzionale al sistema. Oggi purtroppo tanto del commercio equo e solidale è diventato un altro business, perché il fine di tutto è vendere. Certo, permette ai contadini del Sud del mondo di fare qualche soldo in più, ma non è così che aiuteremo noi stessi e queste persone a capire l'iniquità delle regole del commercio internazionale. Ogni bottega dovrebbe diventare un luogo dove chi entra capisce dove e come è stato prodotto quel manufatto, perché lo paga un po’ di più, che cosa ci sta dietro. È questa la vera funzione del commercio equo e solidale. Invece una parte del Ces è diventata oggi business.
Per cui dobbiamo costantemente vigilare su tutto quello che facciamo e sui mezzi che utilizziamo per aiutare i popoli impoveriti. Dobbiamo far sì che loro diventino i soggetti della loro liberazione. È interessante notare che oggi l'aiuto più grande che viene inviato ai paesi impoveriti non è il nostro, ma il loro. Il vero aiuto sono le rimesse, il flusso di denaro che gli immigrati in Italia inviano alle famiglie, frutto del loro lavoro. La liberazione viene sempre dal basso, dai poveri, mai dai ricchi. Per questo ritengo importante il testo che avete nelle vostre mani. (Alex Zanotelli, 2013)

 

 

 

 

 

 

 

 

Ci sono persone convinte che la linea di confine fra buoni e cattivi sia netta. lo ero una di queste. Fra indiani e cowboy, per dire, non ho mai avuto dubbi. D’accordo, non ho mai donato il sangue (ma solo per una non risolta avversione nei confronti degli aghi) e non sono mai saltata a bordo di una di quelle imbarcazioni che solcano gli oceani per salvare balene e foche (ma solo perché non ne avrei il coraggio), nonostante per balene e foche nutra molta simpatia. Se qualcuno suona all’angolo di una strada mi fermo, se c'è da partecipare a una colletta lo faccio e se bisogna lottare per una causa non mi tiro indietro.
Così, quando ormai molto tempo fa ho iniziato a occuparmi di beneficenza, non profit, onlus e organizzazioni non governative (ong), nutrivo per queste realtà un sotterraneo pregiudizio positivo. Confesso di aver sempre coltivato simpatia per queste associazioni, così come ho sempre rispettato e ammirato le persone che si dedicano agli altri, nella convinzione, abbastanza diffusa, di avere molto da imparare e nella certezza che tutti quelli che si occupano di questi temi, che mettono a disposizione il loro tempo, le loro energie, la loro professionalità per gli altri siano fondamentalmente persone migliori.
Soprattutto non ho mai fatto distinzioni. Ho sempre guardato al mondo non profit come a un gruppo compatto, motivato dalle stesse ottime intenzioni e privo di secondi fini, un universo di bontà monolitico, coeso, omogeneo. Credo di essere in buona compagnia. ll preconcetto che ho coltivato per anni è quello di molti. L’ammirazione incondizionata per chi fa parte del cosiddetto Terzo settore (volontari cooperanti, funzionari di organizzazioni non governative) è una delle poche cose che accomuna la generazione post muro di Berlino. Orfana di qualsiasi tipo di ideologia, il suo solo modello spendibile era quello di una società etica: la solidarietà e la costruzione di rapporti sociali etici come unici surrogati alla perdita di protagonismo delle masse.
Dopo tanti anni, la società civile è tornata così alla ribalta. Non a caso, in occasione del Montréal International Forum nel giugno 2005, l’allora segretario generale dell’Onu Kofi Annan la definì come «la nuova superporenza mondiale». Le onlus hanno interpretato questo passaggio storico riempiendo di aspettative ciò che il neoliberismo andava svuotando non solo nelle funzioni dello Stato, ma anche nelle aspirazioni dei numerosi militanti che hanno creduto nella possibilità di rendere compatibili profitto e solidarietà. Alla ricerca di una «buona causa» per la quale lottare, una causa che fosse limpida e lontana dalla politica, la generazione che nel 1985 cantava stonando “We are the world” ha incontrato la «causa umanitaria», ci ha creduto ciecamente e buonanotte al senso critico. Onlus e organizzazioni non governative, con la loro distanza dalla politica e dai governi (corrotti per antonomasia), sono state percepite come isole felici.
Il mio pregiudizio positivo su queste realtà era amplificato dal fatto che parallelamente mi sono occupata anche di economia. Non profit e profit, onlus e multinazionali, operatori umanitari e manager, indiani e cowboy, buoni e cattivi insomma. Ma è proprio così?
Sono passati alcuni anni e di questi temi ho continuato a occuparmi con assiduità. Nel frattempo ho visto spuntare ong come funghi, la mia posta è stata inondata dalle mail degli uffici stampa di questa o quella onlus, sempre più frenetiche, sempre più pressanti, sempre più in competizione fra loro. Ho conosciuto operatori umanitari, volontari, funzionari di enti prestigiosi, famose ong, stimate associazioni, ho ascoltato i loro discorsi, a volte preoccupati di far fronte a emergenze, spesso focalizzati sull'effetto mediatico che i loro progetti avrebbero potuto produrre. Ho raccolto le loro confessioni, talvolta commoventi, altre volte piene di cinismo. Ho visto lo stesso Kofi Annan sorseggiare champagne in infradito su una spiaggia delle Maldive dopo una conferenza stampa sullo tsunami. Ho sentito operatori umanitari vantarsi di aver «sfruttato bene›› la situazione creata da una crisi locale per raccogliere fondi, ho ascoltato gli sfoghi di semplici volontari di grandi associazioni convinti di operare per una buona causa e ridotti a servire i vertici delle associazioni stesse, ho osservato presidenti di associazioni ecologiste passare al soldo di multinazionali, ho visto la parabola di piccole onlus costrette a chiudere, schiacciate mediaticamente dalle costose campagne pubblicitarie di grandi associazioni. Ho spulciato i bilanci delle associazioni benefiche (quando è stato possibile, in Italia curiosamente non esiste l'obbligo di renderli pubblici) per capire che fine facciano i nostri (vostri) soldi.
Ho scoperto che alcune associazioni accantonano liquidità proprio come fanno le aziende. Ho appreso che talvolta pagano i loro vertici come i top manager delle multinazionali, altre volte invece, pur facendo della loro neutralità e del loro pacifismo una bandiera da sfoggiare in pubblico, li ho visti in privato venire a patti con il diavolo, nei panni di un generoso donatore accusato di crimini contro l'umanità. Ho capito che la povertà è un prodotto che viene venduto come altri prodotti, promuovendo costose analisi di mercato, organizzando campagne stampa, sbattendo spesso il volto di un bambino, preferibilmente affamato o sfigurato o impaurito, sullo schermo di un televisore o a tutta pagina su un quotidiano.«Lo facciamo a fin di bene» ci si sente rispondere. Ma più spesso di quanto si desideri non è così. Si raccolgono soldi anche per comprare jeep, pagare campagne pubblicitarie, stampare volantini su carta plastificata di associazioni in paesi ricchi.
Anche se l'Africa non sta a guardare, queste cose avvengono. Fino a che punto ci possiamo spingere «a fin di bene››? E quanti soldi si fanno, sempre «a fin di bene››? Ecco la domanda alla quale questo libro tenterà di rispondere, una domanda politicamente scorretta, a quanto pare. È infatti opinione comune, a destra come a sinistra, fra persone cattoliche come fra laici, che chi fa volontariato o si occupa di cooperazione e di cause umanitarie si dia comunque da fare e sia quanto meno poco elegante chiedergli conto di cosa fa, per quanti soldi lo fa, da chi si fa finanziare, quali sono stati i risultati di ciò che ha fatto e se sono stati positivi o hanno (come a volte è accaduto) nuociuto addirittura alla causa che tentavano di portare avanti. È politicamente scorretto parlar male dei buoni.
Eppure nel resto del mondo non si fanno tanti problemi. Negli Stati Uniti, dove il volontariato è praticato da più tempo e l'opinione pubblica è più consapevole, tengono gli occhi aperti. In Italia, cavalcando il buon cuore del telespettatore- donatore, si può fare quasi tutto, di certo si raccolgono soldi per le cause più disparate, si semplificano e si banalizzano complesse situazioni di crisi e quasi mai si viene a sapere che fine hanno fatto i soldi. Una carrellata di bambini che piangono (preferibilmente infastiditi da mosche che volteggiano sulle loro scodelle vuote), sms che salvano, adozioni che mettono al sicuro, partite del cuore, maratone benefiche e chi più ne ha più' ne metta scorrono davanti ai nostri occhi. Non c’è niente di male, beninteso. Tuttavia abbiamo il diritto di chiedere dove vanno a finire le donazioni e il dovere di farlo nei confronti di chi vogliamo aiutare.
Nessuno si lascerebbe operare da un medico senza essere certo della sua competenza e senza sapere se le operazioni che ha portato a termine sono andate a buon fine. Nessuno chiede a un chirurgo di commuoversi, ma di essere bravo in sala operatoria. Lo stesso si dovrebbe chiedere a un operatore umanitario. Invece nel nostro paese si dona senza chiedere conto di nulla, con il rischio che il paziente muoia e il medico scappi con le tasche piene.
Solo una maggiore consapevolezza dell'opinione pubblica può metterci al riparo da abbagli clamorosi e, in generale, da eccessi di retorica. Non sono ragionamenti popolari, perché stropicciano la nostra consolidata mappa mentale dei «buoni» e dei «cattivi››. La reazione più comune è «almeno loro fanno qualcosa». In parte è vero. Ma anche chiedere conto di come le associazioni usano i nostri soldi, controllare i bilanci ove pubblicati, non dare credito a operazioni di puro marketing è sacrosanto.
Questo libro non accarezzerà la mappa mentale delle vostre radicate convinzioni. Vi dirà piuttosto quanto spendono per il marketing e per gli stipendi le ong e le onlus in Italia e quanto finisce effettivamente ai progetti che voi, con la vostra beneficienza, vorreste fossero realizzati. Perché anch'io, che avevo un ben radicato pregiudizio positivo, alla fine mi sono chiesta: che cosa differenzia il non profit dal profit, una ong o una onlus da un'azienda o un'attività commerciale? Ormai molto poco. Le ong e le onlus sono in competizione tra loro, proprio come le aziende. Per sopravvivere nel mondo della solidarietà le organizzazioni devono fare a gara per le sovvenzioni dei donatori. Parlano lo stesso linguaggio delle aziende, usano le medesime strategie.
Queste pagine non intendono mettere in dubbio l'impegno di centinaia di oneste associazioni e di migliaia di volontari, né screditare le molte ong e onlus che conoscete, tantomeno vogliono sbeffeggiare la vostra(nostra) generosità, a volte ingenua ma sincera, piuttosto hanno lo scopo di invitarvi a guardare quelli che consideriamo i buoni e i cattivi, indiani e cowboy, con uno sguardo critico e a distinguere tra solidarietà e business perché, come scriveva Antonio Gramsci dal carcere: «La bontà disarmata, incauta, inesperta e senza accorgimento non è neppure bontà, è ingenuità stolta e provoca solo disastri».
Chiedere maggiore trasparenza ed efficienza va a vantaggio del non profit, se è vero quello che riporta un sondaggio lpsos: fra chi dichiara di non aver fatto nessuna donazione, sei su dieci donerebbero se avessero una maggiore fiducia nella reale destinazione dei soldi. Ecco, alla fine non ho smesso di tifare per gli indiani, semplicemente non credo più che la linea di confine fra indiani e cowboy sia così netta. (V.Furlanetto, 2013)

 

 

 

 

 

 

 

 

Vista da fuori, la casa di chi «fa del bene›› è sempre più linda e bianca della vostra. I vetri sono più puliti, le tende più profumate, gli intonaci più immacolati, i fiori sui balconi più freschi. Di solito sull’uscio c'è anche l’insegna «Benvenuti››. Ma se ci si avvicina si iniziano a intravedere le prime crepe, si nota un po' di muffa, si sente qualcuno che dall’interno alza la voce. Vista da vicino, la casa di chi «fa del bene» è come quella di tutti gli altri. Si va d'accordo, ma a volte ci si tira i piatti; il divano è comodo, ma talvolta salta una molla; il caffé è caldo, ma le tazzine sono leggermente sbeccate. Solo che non lo dicono, non si deve sapere. Ad esempio, non si parla volentieri del fatto che, se in principio erano i funzionari Onu e delle agenzie collegate, come la Fao, a essere famosi per i lauti stipendi, i bonus, i privilegi e i benefit, oggi i grandi enti hanno fatto scuola e hanno contagiato anche le ong.
«Conosco questo mondo da molto tempo, comprese le schifezze che ci sono, il business degli aiuti umanitari è una realtà con la quale ho imparato a convivere, senza farmi illusioni.›› La voce arriva dall'Angola con qualche secondo di ritardo, la linea telefonica è disturbata. Silvana è partita nuovamente per l'Africa: è trascorso qualche mese da quando ci siamo conosciute in una delle tante pause fra una missione e l’altra. Davanti ai suoi occhi in trent’anni sono passati il Benin, il Burundi, la Sierra Leone, Haiti e la Palestina. Silvana, che ha base a Bologna, ha lavorato sia per enti che dipendono da grandi istituzioni, come le Nazioni unite e l'Unione europea, sia per ong e onlus, italiane e internazionali.
Ha potuto osservare quindi il mondo delle ong da punti di vista diversi. É conosciuta e apprezzata in questo ambiente ma, poiche' è una persona che non nasconde le tazzine sbeccate e le molle rotte del divano, è stata spesso oggetto di critiche, perché se c'è una cosa che questo mondo di «buoni» non perdona è il dissenso interno. E tutte le volte che Silvana ha parlato in pubblico di ciò che non va è stata isolata e attaccata. Nonostante tutto, Silvana ama il suo lavoro e desidera continuare a farlo. Per questo oggi preferisce non rivelare la sua identità, ma i suoi racconti circostanziati e la sua riconosciuta autorevolezza ne rendono importante la testimonianza.
ll primo punto che le sta a cuore è il fatto che le associazioni costano tantissimo e ci sono troppe sovrapposizioni che creano uno spreco di risorse. Silvana dice che «per i 4 euro che arrivano alla gente, se ne spendono milioni che vanno a tenere in piedi le componenti di qualunque struttura che conosciamo, anche a casa nostra: stipendi, affitti, pubblicità, noleggio di jeep». Clientelismo, spreco, mala gestione e cattiva organizzazione non appartengono solo ai grandi enti o alle agenzie Onu, spesso criticate come «macchine mangiasoldi», ma anche alle ong, che tanto si vantano di essere alternative. «La fauna degli aiuti umanitari -mi confida- è davvero pazzesca, tanto nelle grandi come nelle piccole strutture. La cooperazione è questo. É costituita da persone che sono sul campo per fare le stesse cose spendendo un sacco di soldi.››
Silvana è partita e tornata diverse volte dall’Africa. All’inizio in valigia, assieme alle magliette, ai libri di Chatwin, alle penne per i bambini e alle pastiglie di profilassi antimalaria, c’erano parecchie illusioni e molta passione. Poi con i libri, le penne, i farmaci e le T-shirt è rimasta solo la passione e si è infilato un bel po’ di disincanto. «Esiste -mi racconta- una sproporzione tra fondi dedicati all'emergenza rispetto a quelli destinati allo sviluppo, il che spinge alcune associazioni ad abbandonare quest'ultimo per l'emergenza, che “rende” molto di più. La cooperazione è nata per generare sviluppo, ma da quando sono stati chiusi i rubinetti per i progetti di cooperazione tantissime ong si sono buttate sull'emergenza, alcune addirittura sono nate ex novo per questo. Il fatto è che l'emergenza frutta maggiormente e ha tempi di approvazione più rapidi. Passa pochissimo tempo da quando si presenta un progetto a quando si riceve la risposta perché ovviamente se c'è un'urgenza, la risposta non può arrivare dopo un anno. Invece da quando un progetto di cooperazione viene presentato a quando è approvato trascorre un lungo periodo. Se il progetto non viene accettato subito, bisogna rivederlo e passano altri mesi per avere una risposta. Alla fine il sì al finanziamento si fa attendere anche un anno, un anno e mezzo. Poi ci sono motivazioni più politiche. In certe situazioni, infatti, conviene essere in emergenza perché se c'è allarme arrivano i soldi, se non c’è non arrivano, quindi ogni tanto bisogna sparacchiare, ammazzarsi, così si può continuare a dire di aver bisogno subito. L’ho scoperto in Burundi, ma è valido anche per altre zone.››
Silvana e una tosta, pragmatica, abituata alla fatica. Una che per vacanza intende una pedalata fra amici di 3000 chilometri, Bologna-Varsavia e ritorno in bicicletta. Una così può essere solo irritata dal lassismo, dall’inefficienza, dagli sprechi. «In Africa -dice- come altrove, una marea di cooperanti e volontari occidentali scorrazza da un locale all'altro, da un festino all’altro. Gente che in Italia sarebbe disoccupata in questi posti fa una vita da nababbo.›› Chiaramente lei ci tiene a distinguere fra chi lavora con abnegazione e professionalità e gli altri: «In missione si conduce una vita molto sacrificata e c’è gente che lo fa con grande professionalità e coscienza umanitaria. Ci sono persone meravigliose, tanto nelle ong quanto nelle grandi agenzie, che lavorano molto e in condizioni allucinanti, ma se ci si illude che la cooperazione delle ong sia alternativa, che abbia dei valori diversi, ci si sbaglia. In realtà non è così. Non è che il mondo delle ong sia fatto da angeli, si trova di tutto, compresi pazzi, psicopatici, nullafacenti, gente di trenta o quarant’anni fatta di cocaina o fumo o alcol alle dieci di sera, quelli che magari con i soldi dei progetti ci pagano le puttane e non si preoccupano nemmeno di nasconderlo. E sto parlando di ong italiane e magari anche cattoliche. Il fatto di vivere in paesi difficili e in contesti così diversi dal nostro mondo sembra rendere lecita qualsiasi cosa».
Proprio perché non le piace nascondere la polvere di casa sotto il tappeto, a chi le chiede come partire per l’Africa per «fare del bene» Silvana risponde con stizza. «C’è un atteggiamento razzista in una frase del genere, perché ci si pone con superiorità verso queste persone. Bisogna essere efficienti, non caritatevoli. In Italia domina generalmente il dilettantismo nella selezione del personale. Nel nostro paese la scelta dei candidati per un posto in una ong non risponde quasi mai a un criterio di professionalità. Ad esempio, raramente viene fatta la selezione in base alla conoscenza della lingua del paese dove si va a operare, al contrario va molto l'analisi psicologica fai da te. Talvolta mi sono ritrovata a un colloquio in Italia con persone che mi chiedevano: ma tu perche' vuoi partire? E s'improvvisavano psicoanalisti. Ai colloqui per le ong di Londra nessuno pone domande di questo tipo. Ti dicono: gli obiettivi sono questi, il progetto è questo, sai la lingua? Hai le competenze per realizzare il progetto? C'è una bella differenza sul piano qualitativo. E i risultati sono diversi.
Capita di vedere in Africa o altrove i cooperanti italiani, pagati migliaia di dollari al mese, che non si sa come lavorano perché non sanno la lingua. Ad esempio, io sono stata strapagata in Ciad come consulente Unicef: dovevo fare una consulenza sulla violenza nelle scuole, un problema vero. Ho consegnato periodicamente dei report, ma non servivano a niente perché poi non venivano utilizzati. Quando ho chiesto: “Allora perché mi pagate tanto?”, mi hanno risposto: “Ma noi dobbiamo pagare le consulenze”, come se dovessero giustificare solo delle voci di spesa. In Ciad per l’Unicef mi pagavano 5000 dollari al mese, più altri 5000 di rimborso spese: 10.000 dollari netti al mese per non ottenere nessun risultato.››
Nonostante le disillusioni, Silvana resta una persona con una naturale e professionale predisposizione alla fiducia nell’essere umano. «Alla fine -ci tiene a dirmi al termine della nostra chiacchierata- penso che la differenza, come in tutti i campi, la facciano le persone. Siamo sempre noi che decidiamo di tenere pulito, o no, il giardino.›› (V. Furlanetto, 2013)

 

 

 

 

 

 

 

 

Anche a Viviana Salsi, trentenne milanese con diverse esperienze come cooperante, non piace nascondere le tazzine sbeccate e le molle rotte del divano. Viviana ha lavorato all’Onu e poi per una grande associazione, prima a Trinidad e poi a Goma, nella Repubblica democratica del Congo.
Quando ci vediamo a Milano indossa una casacca lunga dai colori accesi: nel nero dominante della città pare un arcobaleno che cammina. Sorride spesso, Viviana. È contenta perché sta per partire per New York. E mentre immagino che effetto farà questo arcobaleno con le gambe a Manhattan, lei mi sorprende tirando fuori dalla tasca una collana africana. «È per te» dice. La sua non è una vita facile: essere così lontani da casa, isolati nel cuore dell’Africa, talvolta fa vacillare il proprio equilibrio. Bisogna davvero ancorarsi alla propria «sanità mentale» per non lasciarsi travolgere. È necessario focalizzarla bene, quest’Africa di Viviana: dal 1994 la città di Goma è oggetto delle attenzioni di tutta la gamma di organismi umanitari che la comunità di espatriati chiama «circo umanitario». La definizione dice molto di che tipo di vita si faccia in Congo.
«Quando sono arrivata -mi racconta- gli altri cooperanti mi hanno detto: “Benvenuta nel grande circo umanitario”, lo chiamano così perché gli umanitari sono un po’ dei circensi, fanno una vita a parte rispetto ai congolesi.›› Sì, ma anche perché sotto il tendone rosso si allenano maghi della raccolta fondi, giocolieri della logistica d'emergenza e leoni dell'intervento umanitario. Una comunità coesa e ben distinta dalla popolazione locale. Difficilmente si esce dal tendone rosso. A Goma volontari di ong, funzionari Onu e cooperanti si spostano come palline di un flipper in un network di punti accessibili: casa, albergo, ufficio, ristoranti, palestra, locali notturni, night club, quartieri generali delle altre organizzazioni. Fuori da queste «zone franche›› non si avventurano mai. Da un punto all'altro, se si è bianchi e benestanti, ossia se si fa parte del circo umanitario, si va solo se accompagnati.
«Ci sono queste enormi jeep a nostra disposizione -spiega Viviana- con il logo dell’organizzazione sulla fiancata, guidate da un autista locale che ha il compito di scortarci attraverso il paese. Quello che sappiamo del Congo lo vediamo spesso solo dal finestrino. La povertà scorre come un film sul vetro. Passiamo da un rassicurante ufficio a un altro, frequentando per lo più solo bianchi come noi.›› Si vive a parte. Spesso si vede alla tv quello che accade a un passo da casa. Come quella volta, nell’agosto 2010, che a Walicale vennero violentate 179 donne. «Noi stavamo a pochi chilometri -confessa Viviana- ma, invece che andarci, leggevamo la notizia sul “The New York Times”.››
Traspare una certa malinconia nelle parole di questa trentenne con il pallino dell'umanitario, un malcelato senso di colpa per un mondo che si è andati a conoscere e aiutare, ma che alla fine si tiene a distanza, si teme, si guarda da lontano. Non è una vita facile, d'altra parte, il Congo è un territorio pericoloso, anche se poi la giornata di chi fa parte delle ong, dai racconti di Viviana, non è poi così male.
«La differenza fra i nostri stipendi e quelli dei congolesi che fanno il mio stesso mestiere nella ong all’inizio mi aveva disgustato. Un europeo o un americano entry level, primo livello, può prendere 30.000 dollari netti di base l’anno, a cui si devono aggiungere circa 800 dollari al mese, esentasse perché in Congo non si pagano. A cui si devono aggiungere i benefit, i voli, le vacanze, le assicurazioni. Un pari livello congolese prende 250 dollari al mese. Questa è la differenza». É anche una questione di stile di vita. La carovana dei circensi è piena di comfort. «Io e altri espatriati condividiamo una casa con vista sul lago Kivu. Ogni mattina il giardiniere mette i fiori sul tavolo. Non ci manca nulla, c’è un cuoco che cucina per noi, le guardie e gli autisti.››
Sotto il tendone del circo umanitario, inoltre, si fanno delle feste fantastiche, garantisce Viviana. Uno non se lo aspetterebbe da gente che è partita da casa per aiutare gli altri e vive accanto a baracche e violenza, eppure è così. E questa è una bella cosa, ed è anche abbastanza normale, nessuno pensa che chi lavora per una buona causa debba per questo fare la vita di un asceta. A volte però è la stessa Viviana a essere disturbata dal clima che si crea in questi raduni.
«Sono turbata -mi confessa, guardandomi con i suoi occhi azzurri sgranati- perché ci si rifugia facilmente nell'eccesso. Il fatto è che il circo umanitario è affollato di persone giovani e sole in cerca di emozioni. Ho visto molti che sono caduti in esaurimento nervoso per troppi eccessi: eccesso di lavoro, eccesso di droghe, di gioco d’azzardo. Sono tutti in cerca di amici, tutti in cerca di sesso. Le feste sono una cosa bella, intendiamoci, ma a lungo questa vita assurda, estrema, può creare degli squilibri.››
I resoconti delle feste si trovano anche nel suo blog. Come quel party «in una megavilla sul lago, con giardino all’inglese, mobili di design, lusso scintillante. Schermi piatti, vetrate con vista, bar al centro del soggiorno con gli sgabelli attorno. La musica del Buddha Bar, di sottofondo, altissima, che faceva pulsare tutto. Come in un video ambientato in California». Invece è Goma, ma la differenza gli umanitari non la notano spesso. «È sempre un po' straniante -dice Viviana- trovarsi nella Repubblica democratica del Congo a vivere situazioni simili sapendo che a qualche chilometro fuori città si arriva a un campo di rifugiati, che realisticamente la guerra potrebbe riscoppiare da un momento all'altro e che c'è chi vive nella povertà e nella paura proprio dietro la porta di casa.››
Viviana parla lentamente. Fa anche delle lunghe pause, si tocca i lunghi capelli biondi, misura le parole come chi non è più abituato a parlare spesso in italiano o forse come chi sa che ogni frase che pronuncia potrà essere pesata su una bilancia che non può controllare fino in fondo. «A volte mi pongo dei problemi. La Goma bianca, fatta di funzionari Onu, circensi delle ong, consulenti e militari, frequenta sempre gli stessi luoghi e gli unici congolesi che si incontrano in questi posti sono le prostitute o i ricchi mulatti di discendenza belga. Sono loro che possiedono le ville dove si fanno le feste più estreme. Sono famiglie molto chiacchierate. Mi chiedo quanto sangue hanno, sulle loro mani, questi ragazzi così ricchi, ma soprattutto quanto continuo a farli arricchire io stando qui. Noi umanitari andiamo ai loro party, affittiamo le loro belle case sul lago, acquistiamo le auto vendute da loro, andiamo a cenare e a bere nei locali e negli alberghi che appartengono a loro. Mi domando quanto contribuisco io alla loro ricchezza».
A volte capita anche che qualcuno esageri, come quando un superiore di Viviana si spogliò completamente in un locale. «Nudo, nemmeno le mutande, ballava ubriaco sul banco del bar nell'euforia generale. Non era neppure la prima volta che lo faceva. Era una cosa che capitava spesso, ma quella era un’occasione ufficiale. Io non sono una bacchettona, ma un capo missione, un uomo di quasi cinquant’anni, intelligente, preparato, venuto qui per aiutare gli altri, che fa uno strip-tease in un locale pubblico non è normale. Tra l’altro si trattava di una persona che aveva a che fare con i diplomatici in visita da Kinshasa e New York, che spiegava loro i bisogni e i dilemmi dei nostri interventi sul campo.››
Al circo umanitario ci si tiene anche in forma. Gli espatriati frequentano la palestra della missione dell'Onu, l'unica in città. «È in effetti straniante -dice Viviana- andare in palestra passando attraverso il cancello sorvegliato da guardie armate in tuta mimetica. La frequentiamo noi, come i funzionari Unicef e i cooperanti delle altre ong. La stessa gente che va alle feste o ai meeting per gli aiuti umanitari.›› Al centro di tutto però c’è l'ansia di sopravvivenza delle associazioni e quindi la necessità che arrivino soldi dai donatori.
Un’ansia che può trasformarsi in una risata grottesca. Come quando ad agosto 2010 Viviana appunta nel suo blog: B. è appena entrato in cucina, ridendo. «Things are getting hot, girls. Hanno sparato sull'ambulanza.›› «Che cosa?›› chiedo io distrattamente, mettendo il piatto nel microonde. «Hanno sparato!›› continua ridendo. «Sulla nostra ambulanza, quella di Rutshuru. Era sul terreno, come sempre, portava una in ospedale. Tra l’altro una che stava perdendo sangue. E boom! gli spari. Things are getting soooo hot out there» Io sono un po' confusa. Mi sembra che non ci sia continuità tra quello che dice e il modo in cui si comporta. (...) Lui non mi dà retta, e continua a parlare. «Hanno sparato, capite? E l'autista è uscito dalla macchina e si è nascosto tra i cespugli, lasciando la donna sanguinante dentro.›› (...) Poi lui fa per uscire dalla stanza, e proprio nel momento in cui tocca la maniglia, decide di voltarsi per dirci un’ultima cosa. Un'ultima cosa che mi fa pensare che c'è qualcosa di eccessivo in questo cinismo. Di spaventoso. Che stiamo diventando persone peggiori, con questo lavoro da umanitari. Le sue parole ancora mi rimbombano in testa. «E poi, ragazze -dice sfoderando il più glorioso dei suoi sorrisi- vi immaginate che effetto fa una storia così sui donatori? La sparatoria sull'ambulanza vende, eccome se vende. Statene sicure.›› (V. Furlanetto, 2013)

 

 

 

 

 

 

 

 

Enrico Crespi ha abitato la casa di chi «fa del bene» per qualche anno. Prima ha lavorato in diverse organizzazioni non governative nei settori dell’educazione, dell’assistenza medica e dello sviluppo in Nepal e Yemen, poi, dal 2003 al 2007, ha contribuito alla nascita e alla crescita del Ccs (Centro cooperazione e sviluppo), che lavora nei paesi del Sud del mondo per migliorare le condizioni di vita dei bambini, in Nepal e Cambogia. Ha operato nelle zone di Kavre, Chitwan e Kathmandu. Poi da “questa casa dei buoni” è uscito. Da allora ha iniziato a scarabocchiare graffiti sui muri immacolati di quella casa, in modo che si veda bene che non è diversa dalle altre. Graffiti sfrontati di tutti i colori, per raccontare che cosa accade là dentro?
«Me ne sono andato -dice- perché il Ccs è cambiato. Era una realtà brillante, che consentiva di fare cose interessanti, poi tutto questo è stato trasformato in altro e non ho più voluto farne parte. É paradigmatico di come vanno le cose in Italia: nel momento in cui interviene la politica, in un modo o nell'altro riescono a sfasciare tutto.››
Enrico parla da Ginevra, dove oggi lavora per un’azienda. È passato al profit dopo anni nel non profit, da cui è uscito letteralmente «disgustato››. Resta in contatto con piccole realtà nepalesi che va periodicamente a visitare. Resiste in lui l’accento genovese, che non ha perso neppure dopo anni in Asia, ma anche la grinta e il senso di giustizia che lo avevano portato a lavorare a tempo pieno per il Sud del mondo.
«Credo che troppe cose non vadano» dice Enrico. «La principale è che nella cooperazione, pubblica o privata, non c’è efficienza. Se tu investi 1000 euro per fare qualcosa, con quei soldi devi dare dei benefici reali. E questo spesso non accade. Faccio un esempio: a Bajura, nel Nepal nord-occidentale, da dieci anni si lavora a un progetto sugli ulivi. Lo portano avanti il ministero degli Esteri italiano, l’Università della Tuscia e la Fao. Dieci anni di lavoro, e per cosa? Quest’anno per la prima volta hanno prodotto una bottiglia d’olio, il cui costo ovviamente sarà di un milione di euro. È assurdo. Se poi si riuscisse anche a produrre più di un litro d'olio, sarebbe comunque un progetto insensato perché viene portato avanti in un’area del paese dove non ci sono le infrastrutture. Se si producessero litri e litri di olio nepalese, non riuscirebbero comunque a commercializzarlo perché non ci sono le strade per trasportarlo.››
Perché si portano avanti progetti così insensati? Secondo Enrico perché conviene a tutti. «Se lavori in università come ricercatore guadagni 2000 euro, se vai lì ne guadagni 5000. Poi c'è l'interesse dell'istituzione, che si fa un po' di pubblicità, tanto poi nessuno va a vedere come va a finire il progetto.›› Vabbè -si dirà- questi meccanismi riguardano (in parte) la cooperazione pubblica, la cosa è nota. Ma le ong? Enrico sorride quando provo a sostenere che sia diverso. «Le grandi organizzazioni private hanno dei budget a livello mondiale elevatissimi. E replicano quello che fanno le Nazioni Unite: grandi strutture, grandi chiacchiere, grandi report, grandi meeting. Loro poi hanno un problema in più, perché a differenza dell'Onu devono anche fare marketing per raccogliere soldi. Non è che lo dico io, lo dice pure il ministero delle finanze nepalese. In un comunicato di qualche tempo fa esprimeva la preoccupazione che derivava dal vedere che la maggior parte dei fondi delle ong destinati allo sviluppo andavano a finire in quello che loro chiamano soft development, cioè report, workshop, convegni, attività inutili.
Ci sono spese di struttura, spese di marketing e di fundraising elevatissime. Ti faccio un esempio: noi vivevamo a Kavre, in un'area del Nepal dove operava anche Save the Children Norway. Hanno speso 200.000 euro in cinque anni di lavoro per creare una rete di asili, dopo cinque anni il poco personale formato localmente lo hanno preso e trasportato da un’altra parte e gli asili sono rimasti lì. Casi di questo tipo ce ne sono a bizzeffe. Action Aid non è da meno, possono dirsi gli inventori della “cooperazione soffice”.››
Ci sono poi le piccole organizzazioni, quelle che arrivano e magari distribuiscono un po’ di soldi qua e là, ma -dice Enrico- non modificano il cuore del problema. Casomai lo aggravano. Enrico si interrompe, fa un tiro dalla sua sigaretta, poi riprende a parlare: «Faccio sempre il paragone di mia nonna. Se mia nonna butta dalla finestra 100.000 euro, chiaramente qualcuno ha dei benefici. Però un conto è se qualcuno arriva e investe 100.000 euro per creare qualcosa che si trasformi in sviluppo, un conto se butta soldi dalla finestra. Il classico esempio è di chi va in Nepal per fare un trekking e, colpito dalla povertà che vede in giro, viene agganciato da qualcuno che gli propone di fare qualcosa. Quello torna in Italia, riunisce qualche amico e mette su una onlus. Raccolgono un po’ di soldi per costruire un asilo, una scuola o altro. In novanta casi su cento l'associazione viene truffata. Come minimo l’intermediario fa magicamente lievitare i costi del progetto della scuola, che alla fine ai donatori costa uno sproposito. E poi magari in quella zona la scuola non serviva, oppure non ci sono gli insegnanti, l'elettricità, le infrastrutture. Capita continuamente.
Ci sono state delle persone che si sono rivolte a me perché avevano costruito una scuola a Pokhara, ma la scuola ora non funziona e loro hanno il dubbio che sia costata molto più di quanto servisse. Per non dire del fatto che queste associazioni, essendo piccole e con pochi fondi, non vanno a controllare poi il risultato del loro sforzo. Oppure a volte, non conoscendo il territorio, scelgono le persone sbagliate, si fidano del primo che passa. Bisogna anche capire che i locali considerano gli occidentali dei portafogli che camminano. E non c'è da biasimarli, visto che si distribuiscono soldi senza verificare gli esiti delle donazioni. Comunque in genere è sempre meglio coinvolgere la popolazione locale, responsabilizzarla. Ad esempio, nella costruzione di una struttura chiedere loro un contributo di almeno il 30 per cento. Se loro contribuiscono, anche in piccola parte, sono portati a interessarsi e a prendersi cura del progetto, altrimenti se si regala loro una cosa (che magari neppure serviva), questa rimane lì e spesso va in rovina senza che nessuno la utilizzi. Oppure viene usata da personaggi senza scrupoli locali per farci la cresta. Ne ho viste molte di queste situazioni».
Funzionano invece le esperienze che nascono dal basso. A Kavre, in un’ampia valle dove resistono le risaie che salgono verso Dhulikel, hanno avuto una bella idea: i bambini delle scuole realizzano dei salvadanai di terracotta, li dipingono e li vendono. L'iniziativa di Read Nepal, una piccola ong che opera da oltre vent’anni in zona, ha lo scopo di raccogliere fondi per costituire la biblioteca scolastica e un centro comunitario interamente finanziati da nepalesi. Grazie ai porcellini dipinti, Read Nepal ha già inaugurato 49 librerie nelle scuole del Nepal. I ragazzini si divertono, utilizzano un'arte un tempo molto diffusa e fanno qualcosa di utile.
«Nelle ong che ho visto operare in Nepal le cose non vanno per molti motivi» ragiona Enrico. «Innanzitutto ci vorrebbe un po' di passione. Se tu sei una non profit dovresti avere la trasparenza nel DNA. Poi chiaramente ci vorrebbero delle norme. Attualmente una onlus da 10.000 euro deve rispettare le stesse regole di una onlus da un milione di euro. Infine mancano i controlli esterni, come negli altri paesi: qualcuno che verifichi i conti delle associazioni e, nel caso, intervenga.›› Crespi ricorda che la necessità di maggiori controlli è stata auspicata anche dalla Corte dei conti.
I giudici contabili nel luglio 2012 hanno pubblicato una relazione dai toni abbastanza preoccupati dal titolo “Contributi alle Organizzazioni non governative per la realizzazione di attività di cooperazione”. La Corte ha monitorato 84 progetti nel triennio 2008/2010 in 23 paesi, e ha trovato di tutto: soldi mai arrivati, progetti fermi o in ritardo da anni, infrastrutture realizzate su terreni di terzi o inesistenti, rendiconti spariti, fondi fermi in Italia da mesi, responsabili di progetti fantasma e irregolarità di ogni tipo nel rendiconto delle spese sostenute. A conclusione della sua relazione, la Corte esige l'ovvio, cioè di «non sovvenzionare progetti che non siano preceduti da un’accurata, approfondita e informata istruttoria, esaustiva della situazione locale; di verificare non solo la sufficienza del patrimonio delle ong, rispetto alle obbligazioni assunte, ma anche di verificare che la ong fornisca effettive garanzie in ordine alla realizzazione dell’attività››. In particolare -spiega Crespi- i giudici hanno fatto notare che la ong Celim ha costruito nella zona di Sacaba, in Bolivia, su terreni di terzi; che appena il 20 per cento del programma di sostegno alla salute materno-infantile a Malavane, in Mozambico, della ong Cestas è andato a buon fine; che i risultati del progetto di turismo sostenibile portato avanti dalla ong Ciss nel governatorato del Fayoum sono stati «irrilevanti››. E questi sono solo alcuni esempi.
«Se l’emergenza rimane tale per quarant'anni, come nel Sahel -continua Enrico-, c'è qualcosa che non va.›› La regione del Sahel è una striscia ai margini meridionali dei Sahara lunga almeno 4500 chilometri. Crespi ricorda che l'industria dell'assistenza ha iniziato a operare e a spendere in quest'area dal 1973. Da allora sono sbucate come funghi molteplici strutture Onu (dal United Nations Sahelian Office a The International Fund for Agricultural Development) e decine e decine di ong. Si calcola che dagli anni Settanta siano stati investiti in aiuti diretti e indiretti oltre 300 miliardi di dollari, eppure nel 2012 c'erano 18 milioni di persone bisognose di aiuto. In quarant'anni di convegni, progetti, report la situazione è solo peggiorata.
«I campi profughi -dice Enrico- sono diventati città stabili, i governi corrotti hanno prosperato con le creste sugli aiuti internazionali, i capibanda si sono moltiplicati, spartendosi i soldi dei donatori e facendo affari sulle derrate per i rifugiati, gli estremisti islamici si muovono come pesci nell’acqua della disperazione dei profughi e dei problemi irrisolti. Bande, militari, gruppi estremistici, funzionari governativi terrorizzano i contadini, rubano loro il bestiame e i raccolti, li obbligano ad abbandonare i villaggi, migrare o cercare salvezza nei campi profughi, dove sono merce preziosa: attirano gli aiuti internazionali sui quali le bande criminali e i funzionari corrotti prosperano.››
Crespi non è un personaggio morbido e accomodante, è un genovese ruvido, senza peli sulla lingua. Non ama la retorica della beneficenza, ha la nausea a forza di sentir parlare di bontà, sfugge ai luoghi comuni, e quando gli ricordo i pericoli che gli operatori umanitari corrono nel loro lavoro (di essere rapiti, di venire uccisi) si arrabbia. «Muoiono molti più camionisti o operai sul lavoro che operatori umanitari- sbotta- e loro non hanno scelto di andare in posti del globo in cui ci sono guerre o altro. É una retorica che mi dà fastidio. Se continuiamo a fare delle sviolinate su quanto siamo buoni e bravi in questo paese non cambierà mai nulla.››
Nella melma di ciò che ha visto Crespi è stato anche trascinato personalmente, uscendone pulito. Il Ccs è stato infatti al centro di uno scandalo nel 2006, dal quale è partita un’inchiesta giudiziaria. I vertici della onlus sono stati accusati di associazione per delinquere e di appropriazione indebita. In parole povere -secondo le accuse- si erano intascati i soldi della beneficenza. Nel febbraio 2012 Simone Castellini, ex segretario generale del Ccs, è stato condannato a un anno e dieci mesi e 800 euro di multa e Patricia Cavagnis, ex-responsabile del Ccs in Mozambico, a un anno e quattro mesi e 400 euro di multa. Secondo il difensore di Cavagnis, Emanuele Tambuscio, la ex responsabile del Ccs per il Mozambico «ha di fatto confessato il reato per il quale è stata condannata. C'è da dire che lei non ha mai intascato soldi, ma ha solo assecondato le richieste dei suoi superiori. Quando ha deciso di interrompere i versamenti è stata licenziata››. Altri due indagati hanno patteggiato. Assolti con formula piena invece Enrico Crespi, che ai tempi era responsabile di Ccs Nepal («perché il fatto non sussiste››), e Corrado Oppedisano, allora presidente.
«Quello che mi è pesato molto -dice oggi Crespi- è che a causa di questi personaggi tutto sia crollato e molte brave persone che lavoravano con me in Nepal, dove abbiamo fatto molto e bene, abbiano perso tutto.›› Uno di loro si chiama Kul Chandra Silwal, è un operatore umanitario nepalese con tre figli che, dopo quattro anni di lavoro in Ccs, è stato licenziato senza preavviso nel 2008. (V.Furlanetto, 2013)

 

 

 

 

 


 

 

Certi incontri avvengono per strada, altri sono solo virtuali. Betta la incontro su internet. É una cooperante italiana con esperienza in Etiopia (al campo di Dollo Ado), in Sri Lanka, nella Repubblica Centrafricana, in Sierra Leone, autrice di un blog. Appassionata del suo lavoro, ma anche critica («Non sempre sono d'accordo sullo stile choc delle nostre campagne›› dice), non si tira indietro se c’è da dire la sua, come quella volta in Sierra Leone: Ci ho pensato e ripensato... non sapevo se pubblicare questo post e poi mi sono detta che è giusto dare un’idea reale di quello che succede qui, di chi sono davvero le ong, di cosa fanno e in questo caso di chi ci lavora. Quando racconto chi sono e come si comportano i miei colleghi ricevo spesso commenti esterrefatti e stupiti del genere: «Come è possibile, io pensavo che le persone che fanno un lavoro così fossero completamente diverse». Ebbene, gli operatori umanitari spesso, e fin troppo spesso, dimostrano di essere «meno›› umanitari di quello che dovrebbero.
Ho smesso di essere Biancaneve, so bene come stanno le cose, so che è difficile trovare personale per venire a lavorare in condizioni difficili e so che non tutti quelli che fanno questa scelta hanno stessi valori, ma ci sono comunque dei limiti. (...) Oggi i sierraleonesi vedono cosa è stato fatto e con che faccia siamo qui a dire cosa devono fare, come possiamo far credere di avere qualcosa da insegnare, perché dovrebbero volere l’aiuto di persone così? Questa gente fa di molto peggio, ci convivo da due anni (in Liberia le cose non erano molto diverse) e ancora mi scioccano, mi fanno venire i brividi.
Nei vari post l’insofferenza, con il passare dei mesi, cresce e alla fine Betta pone delle condizioni per restare: «Resto se ha senso quello che mi si chiede di fare e se posso farlo da sola, senza gli incompetenti, svogliati e nullafacenti che vivacchiano alle spese degli aiuti umanitari». Ancora il 10 novembre 2007 scrive: «La violenza sembra essere il carattere dominante di questa missione (...). Nei tre giorni di workshop sulla strategia 2008 di tutto si è parlato fuorché di strategia e sono volate minacce piuttosto pesanti».
In Etiopia, nel luglio 2012, Betta visita un campo profughi. Gente che è dovuta scappare dalla Somalia con i figli appesi al collo. Anche in questa situazione Betta mastica amaro: «Qualche giorno prima della mia visita ho saputo che volevano chiudere il progetto di cui mi occupo. La prospettiva di chiusura mi è stata presentata così: “Nel campo nessuno è traumatizzato e, anche se fosse, sono talmente abituati a vivere in quelle condizioni che per loro è normale”. Una frase mostruosa detta da umanitari che pensano che le persone che aiutiamo non hanno gli stessi nostri bisogni, che soffrono e che non meritano che per loro sia “normale”››.
Dopo il terremoto di Haiti, Betta viene ingaggiata per una missione sull’isola: «Si tratta di un progetto che ha come obiettivo quello di dare un supporto psicologico e nutrizionale alle donne in gravidanza, alle donne che allattano, ai bambini di età inferiore ai cinque anni e alle persone affette da trauma in seguito al terremoto del 12 gennaio». Va quindi a Port-au-Prince, ma prima scrive: Sono molto arrabbiata e sconfortata (...). Sono passati pochissimi giorni dalla tragedia di Haiti e molti professionisti delle emergenze si sono attivati e organizzati per prestare i primi soccorsi e definire piani di intervento per la ricostruzione. Eppure insieme a tutti loro si stanno muovendo anche quelli che questo lavoro non lo sanno fare, che sperano di ottenere qualcosa, se non subito, magari in futuro! Raccogliere soldi, inventare progetti, improvvisarsi tecnici esperti per averne un tornaconto di immagine, aprirsi nuove possibilità, aggiungere un paese di intervento alla lista, per autocelebrarsi come i più bravi o forse, più banalmente, per non essere da meno. Ne ho abbastanza di vedere questo approccio agli aiuti umanitari e alla cooperazione internazionale: non bastano «buona volontà e voglia di fare «qualcosa››. Bisogna essere preparatissimi per essere veramente di aiuto! Haiti è molto piccola, in questo momento è affollata di cadaveri, tutto è distrutto! Non capisco perché non si lasci il posto ai veri professionisti, a chi era già là prima e che quindi sa come muoversi, conosce il paese, le persone, le istituzioni. Trovo questo «gettarsi sulla torta» una grande mancanza di umiltà, incapacità di riconoscere che non si può sempre fare tutto e male, che non si può essere sempre ovunque solo per cogliere delle occasioni. La trovo una grande mancanza di rispetto per la vita umana. (V.Furlanetto, 2013)

 

 

 

 

 

 

 

 

Viviana, la blogger del circo umanitario che abbiamo conosciuto all’inizio del libro, si lamenta in rete nel febbraio 2010: Quante ong internazionali ci sono qui a Goma? Tante, tantissime. C’è chi dice sessanta, c'è chi dice cinquecento. «Il circo dell'umanitario››, come lo chiamano da queste parti. Sono venuta nel centro di questo vortice di aiuti per osservare il lavoro concreto, dopo tutta la burocrazia ariosa dell'Onu. Il lavoro di field, porca miseria. Quello che salva le vite. E ora che sono qui comincio già a sentire voci critiche. Che questo è un sistema assurdo, che non si combina niente, che ci sono tantissimi soldi che girano senza che cambi mai nulla. Che le organizzazioni sono tutte in lotta fra loro, lotta spietata per i fondi, una competizione per l`ultimo dollaro. Pochi donatori, somme alte, tantissime organizzazioni che sgomitano per vincere bandi. Intanto i congolesi si trovano a essere beneficiari di migliaia di piccoli progetti che si susseguono istericamente. E abituati a sopravvivere tra una guerra e una carestia, finiscono per pensare solo a una cosa. Ad approfittarsene.
Approfittarsi di questi bianchi confusionari e un po’ allocchi che spargono soldi in giro. Approfittarsi perché non c'è mai nulla di gratuito nella vita, e quando c’è bisogna tenerselo stretto. Allora quando arriva l’esperto in food security gli dicono che non hanno zappe, è per questo che non possono coltivare la terra. Così l'esperto redige il progetto delle zappe, e gliene manda a casa di nuove, direttamente dall’America. E il congolese le rivende al mercato nero il mattino dopo, facendoci pure la cresta. Tanto l'esperto è già altrove.
Il 5 marzo 2010 sempre Viviana scrive: A Goma, le organizzazioni umanitarie coordinano i propri interventi attraverso assemblee tematiche mensili in cui ci si comunica a vicenda “Qui fait quoi où”(chi fa cosa e dove). L'idea è semplice e intelligente, in un posto in cui operano decine di organizzazioni con mandati di assistenza simili e ci si deve spartire il territorio per non sovrapporsi. Le riunioni sono giustamente coordinate dall’Onu, che ha in generale un mandato di supervisione e organizzazione delle risorse umanitarie. Detto questo, tali riunioni sono anche un interessantissimo punto di osservazione sul mondo dell’umanitario, inclusi i suoi aspetti più discutibili. L'Onu ha appena annunciato il disborso di un nuovo grant (prestito) di qualche centinaio di migliaia di dollari. Neanche moltissimo, ma sono pur sempre soldi. Che verranno attribuiti all'organizzazione che presenterà il progetto migliore in ogni settore tematico prestabilito (salute, educazione, violenza sulle donne...).
Ora, la cosa interessante è che la decisione sul progetto da premiare viene presa proprio durante queste riunioni, composte da rappresentanti delle organizzazioni in gara. Quindi le ong sono allo stesso tempo giudicante e giudicato. E qui comincia la buffa lotta per accaparrarsi i soldi. Innanzitutto, a queste riunioni che di solito non fila nessuno, cominciano ad apparire tutti i pezzi grossi non appena viene lanciata la notizia di un nuovo grant. Poi, nella fase preparatoria (quando ancora non è stato detto quanti soldi verranno di fatto assegnati), il gruppo cerca di decidere delle priorità geografiche e dei criteri di selezione sulla base dei quali verranno giudicati i progetti presentati. Ovviamente, ognuno tira acqua al suo mulino. Quando si passano in rassegna le aree geografiche, sembra di partecipare a un’asta. Tutti lanciano numeri: «È una zona a priorità cinque!» dice l’organizzazione che, guarda caso, vuole proporre un progetto in quella zona. «Ma no, al massimo è una priorità tre, non ci sono nemmeno i rifugiati» dice l’organizzazione rivale. «Non ci sono rifugiati perché sono tutti scappati a causa della guerra» si ribatte. E così via. Non ci sono dati oggettivi, non ci sono ricerche precise. Ci provano tutti, a monitorare la zona, ma è impossibile. La guerra è troppo fresca, l’accessibilità è troppo ridotta. Non ci sono strade, il territorio è troppo vasto, non prendono nemmeno i cellulari. E poi ci sono i banditi, i gruppi armati. Insomma bisogna andare a braccio. E a braccio si va, anzi a gomitate.
Il giovane partecipante turco ride sotto i baffi. È qui da un anno, ha capito come gira la giostra. «La parola distribuzione va eliminata dalla lista di attività prioritarie. Bisogna sostituirla con cash transfert, che è più generale, più onnicomprensiva» dice ad alta voce. Ma non ce la fa a stare serio. Lo sa che lo sanno tutti, che la sua organizzazione non fa distribuzione. Lo sa che ha una gran faccia di tolla, a proporre questa modifica. Ma non riesce a trattenersi. È troppo divertente per smettere di giocare. Tira la stessa aria ad Haiti, colpita da un devastante terremoto all’inizio del 2010, e oggi soprannominata la «Repubblica delle ong››“ per la proliferazione delle associazioni, attaccate spesso dalla popolazione locale perché fanno il bello e il cattivo tempo." (V.Furlanetto, 2013)

 

 

 

 

 

 

 

 

Vittorio poi è uscito letteralmente «disgustato da Haiti, dove sono stato un anno dopo il sisma, a gennaio 2011, e dove la povertà è diventata una merce. Serve a fare soldi sulla pelle dei poveri disgraziati. E le ong e le onlus non sono solo complici, ma sono le artefici di tutto questo». A Port-au-Prince «esiste un mercato delle opere buone» e anche gli italiani, intesi come associazioni o filiali di grandi ong, vi partecipano. Ad Haiti, racconta Vittorio, l’industria della solidarietà ha fallito. «É impossibile che nonostante sia stato speso un miliardo di dollari per Haiti la situazione sia ancora quella che ho visto con i miei occhi. Allora significa che i soldi erogati sono stati spesi in progetti inutili.››
É quello che sostiene anche Evel Fanfan, presidente della haitiana Aumohd (Action des unités motivées pour une Haiti de droit), organizzazione di avvocati che dal 2002 si occupa della difesa dei diritti umani e civili della popolazione di Haiti: «Il 66 per cento di tutte le donazioni che sono state fatte nel mondo non sono state investite per la gente di Haiti, ma per il funzionamento delle ong. Alcune hanno comprato fuoristrada da 40-50.000 dollari e il 20 per cento delle donazioni è andato in stipendi del personale delle organizzazioni››. Fanfan ha proposto alle ong presenti nell'isola di creare un osservatorio per evitare lo spreco di denaro e verificare la trasparenza delle spese, ma «la maggior parte non ha accettato››. Secondo «Le Monde» per Haiti sono passati oltre 5 miliardi di euro (fra donazioni di Stati e privati), ma la popolazione per ogni euro stanziato ha ricevuto appena un centesimo.
Francesco, un giovane volontario nell'isola, racconta: La mia paura è che ad Haiti si ripeta quanto accaduto in tante parti del mondo, dove i campi profughi sono diventati un business per l’industria dell’assistenza, che continua a procacciarsi denaro per mantenerli; per gli operatori, che bivaccano e guadagnano fior di soldi; per i governi, che trattengono parte dei fondi; per la mafie, che si creano per spartirsi gli aiuti e per gli abitanti più furbi, che approfittano dei soldi che girano. Qua sta ripetendosi quanto denunciato in altre situazioni analoghe.
Nel 2011 sono stati spesi 1500 dollari per ogni rifugiato haitiano, il doppio o il triplo del reddito pro capite annuo. L’economia degli aiuti e dell’assistenza (invece che dello sviluppo) sta annullando l'economia agricola dell’isola e ha indotto i contadini a venire nella capitale ad allargare il numero dei rifugiati che, nel gran marasma della distribuzione d’aiuti, almeno riescono a sbarcare il lunario. Su cento progetti che ho visto (quasi tutti concentrati sull’educazione e la sanità), solo una decina hanno un senso, sono in fase di completamento e non sono costati cifre iperboliche. L’eccellenza è qui minima, come l`impegno serio verso i beneficiari anche da parte degli operatori internazionali. Per mantenere in piedi la baracca di uffici, macchine, stipendi, case, viaggi aerei degli espatriati va via oltre il 30 per cento dei soldi che arrivano qui (già al netto di quelli trattenuti per i costi amministrativi in Italia o negli altri paesi), più c’è tutto il personale locale, la corruzione, i costi sovrastimati.
I cosiddetti operational ram, in un’industria privata, raramente superano il 22 per cento. Gli affitti nella capitale sono saliti alle stelle, le jeep bianche delle organizzazioni internazionali sono il mezzo più diffuso, i bar dove gli espatriati s'inciuccano e trovano prostitute sono le altre, uniche, nuove fonti di business per gli haitiani. Questo è accaduto ovunque, in Kenya, Congo ecc., dove tante organizzazioni umanitarie hanno trovato fonti di reddito. (V.Furlanetto, 2013)

 

 

 

 

 

 

 

 

Il 20 febbraio 2010, a proposito di Haiti, Viviana registra nel suo blog: “Oggi c'è stata una riunione straordinaria per tutte le ong che operano a Goma. Uno dei finanziatori più importanti per i progetti di emergenza deve ridurre drasticamente i fondi destinati a questa regione. Il motivo del taglio improvviso è di natura mediatica. I soldi verranno dirottati su Haiti, che è stata colpita da un terribile terremoto meno di un mese fa. I giornali non parlano d’altro, i canali di notizie hanno trasmesso aggiornamenti di ora in ora per i primi quindici giorni dopo la catastrofe. Tutto il mondo si è impietosito per Haiti, l’isola triste in cui pare che una carestia e un colpo di Stato negli ultimi anni non siano stati sufficienti. E quindi gli americani ci vanno, e con loro gli europei, in una lotta a chi pianta per primo la propria bandierina. C’è bisogno di visibilità, nell’umanitario. È importante che il presidente degli Stati Uniti possa fare un bel discorso sull’intervento americano, perche' tutti sappiano. Poco male se si tace che i soldi sono stati portati via dal Congo. Quante persone negli Stati Uniti sanno dove si trova il Congo? Quanti sanno che c'è una guerra in Congo? Quanti sanno che il Congo esiste? E così Haiti si trova sommersa di soldi, milioni e milioni di dollari. Come verranno impiegati? Come verranno sprecati? Certo, c'è Port-au-Prince da ricostruire, ma poi? Quanto verrà scosso il fragile mercato haitiano da un influsso di denaro così copioso? Sono domande di cui non so la risposta. Spero solo che di tutti questi soldi ne benefici chi ha davvero bisogno”.
La «febbre da progetti» dell’umanitario a volte è solo fine a se stessa. Per correggere queste distorsioni il cooperante Fabio Pipinato, direttore del portale Unimondo, in splendida solitudine chiede da anni una «Carta di Trento» dei diritti-doveri delle ong. Secondo Pipinato, «molte ong sono sin troppo preoccupate a sopravvivere. Rincorrono i denari anziché le idee. Sono brave a elaborare progetti su progetti, credo invece sia essenziale fermarsi a valutare cosa sono stati questi sessant'anni di cooperazione. Mancano alcuni anni al 2015, la deadline tracciata dall’Onu per dimezzare la povertà nel mondo. La Carta di Trento è una provocazione per dire alle ong: smettiamo di continuare a chiedere solo lo 0,7 per cento del Pil per l'aiuto allo sviluppo. Sappiamo che anche le risorse sono importanti, ma chiediamoci prima per cosa e come. Chiediamoci il perché delle buone pratiche e dei fallimenti. Siamo contrari a una solidarietà internazionale ridotta a “proiettificio”. Bisognerebbe che i donatori imponessero delle pause di riflessione alle ong, che oggi prolificano, inseguono i bandi dalla città fino all'Onu. Per avere che cosa? Più donatori che finanzino più progetti in più paesi?››
Pipinato è visto un po’ come un guastafeste nel mondo del non profit, dove la torta è grande e tutti ne vogliono una fetta. Ma non demorde e racconta che una volta in Kenya, dove si trovava, «è giunta in visita una cooperante che si occupava di ambiente. Mi ha subito chiesto di quanti progetti mi occupassi e mi ha rinfacciato che in quindici giorni lei ne aveva messo in piedi ben sette. Ecco, la gente di Nyahururu, tra cui vivevo, che munge la mucca al mattino, bada alle capre e porta a scuola i figli -che fa insomma cose normali- vede questi “alieni” che arrivano, sfornano un report dietro l’altro per “creare sviluppo” e poi se ne vanno via. L'Africa è piena di cattedrali nel deserto, di progetti importati e poi falliti». Ma che intanto hanno procurato all’associazione una fetta della torta. (V.Furlanetto, 2013)