November 2015. Vajont.
E’ uno dei rarissimi ricordi indelebili della mia infanzia che esulino dai ricordi inerenti alla sfera degli affetti familiari e amicali, al gioco, alla scuola. Avevo 11 anni appena compiuti e certamente sia prima, sia dopo, fatti di cronaca di estrema gravità saranno accaduti, ma inspiegabilmente il Vajont si è impresso nella mia mente di bimbo. Saranno state le migliaia di morti, la paura che incuteva l’immaginare quella valanga d’acqua notturna che scavalcata la diga travolgeva la valle dormiente, la natura “cattiva” che devastava e uccideva senza pietà. Solo qualche anno dopo capì come andarono realmente le cose, comprendendo per bene la “cattiveria” della natura e l’infamia del potere dell’uomo.
Per questo ho deciso di dedicare “el mestée del mes” alla strage, con un articolo di Tina Merlin, da L’Unità del 11.10.1963, uno di Alexyk, da Carmilla on line del 14.10.2015, ma soprattutto proponendo l’opera teatrale “Vajont 9 ottobre '63 -Orazione civile–“ del 1993 di Marco Paolini.
È stato un genocidio. Lo gridano i pochi sopravvissuti, resi folli dal terrore della valanga d’acqua e dalla disperazione di trovarsi soli e impotenti a superare una realtà tragica, fatta oramai di nulla, o meglio fatta di sassi e melma amalgamati dal sangue dei loro cari. Una realtà che ha sconvolto all’improvviso la fisionomia di interi paesi, ma che era purtroppo prevedibile da anni, da quando ancora all’inizio dei lavori del grande invaso idroelettrico del Vajont i tecnici sapevano di costruire su terreno argilloso e franabile, che perciò potevano portare alla catastrofe.
Genocidio quindi, da gridare ad alta voce a tutti, affinché il grido scuota le coscienze del popolo e il popolo, la cui pelle non conta mai niente di fronte ai dividenti dei padroni del vapore, spazzi via alfine con un’ondata di collera e di sdegno chi gioca impunemente, a sangue freddo, con la vita di migliaia di creature umane, allo scopo di accrescere i propri profitti e il proprio potere.
Che qualcuno, se ne ha il coraggio, mi smentisca in questo momento. Io assumo la responsabilità di quanto dico; i colpevoli si assumano la responsabilità di quanto hanno fatto. E la giustizia giudichi.
Affermo che ci sono responsabilità morali e materiali. Ho seguito la vicenda dell’invaso del Vajont con passione non solo da giornalista, ma di figlia di questo popolo contadino e montanaro che si ribella alla retorica delle «virtù tradizionali» che mal nasconde il cinismo dello sfruttamento più spietato. Con questo cuore ho seguito tutte le vicissitudini, le resistenze, le paure dei montanari di Erto contro la «Sade», non per impedirle di costruire il grande bacino idroelettrico del Vajont, ma per impedire di compiere un delitto.
L’intuito e l’esperienza di quei montanari, confortati peraltro da pareri di grandi geologi, indicavano la Valle del Vajont non adatta a reggere la pressione di 160 milioni di metri-cubi d’acqua. La realtà ha dimostrato la ragione dei montanari, non quella dei tecnici della «Sade». La società elettrica sapeva che le pareti dell’invaso erano formate dal terreno di una enorme frana caduta centinaia di anni fa, sulla quale è sorto in seguito il paese di Erto. Sapeva che il Monte Toc era esso stesso parte di quella frana e che era prevedibile che l’acqua immessa nel bacino dovesse erodere piano piano il sottosuolo e provocare disastri.
Quattro anni fa, quando è stata esperimentata la resistenza del bacino, grosse fenditure avevano segnato le case di S.Martino e delle altre frazioni di Erto alle pendici del Toc. Esse piano piano si estesero a ridosso del monte, facendo nascere la paura tra gli abitanti di Erto. Costoro si appellarono inutilmente ad ogni autorità possibile dando veste giuridica ad un largo comitato unitario che lottò per anni nel tentativo di opporsi alla costruzione dell’invaso, sorretto anche dall’autorevole parere tecnico del geologo prof. Gortani, contrario in pieno alla perizia del geologo della «Sade», prof. Dal Piaz.
Il prof. Gortani riteneva, infatti, pazzesco costruire il bacino su un terreno tanto inadatto come quello di Erto. Il comitato inoltrò ricorsi. Organizzò petizioni e pubbliche proteste. Interessò autorità governative e amministratori locali. Presso qualcuna di queste autorità la voce del comitato venne accolta. Il Consiglio provinciale, in data 15 febbraio 1961, votava all’unanimità un ordine del giorno per chiedere la revoca di ogni concessione alla «Sade» per inadempienze di legge. In esso si faceva preciso riferimento alla situazione del Vajont chiedendo l’approntamento tempestivo di tutte le misure di sicurezza per garantire la incolumità di quelle popolazioni. Fu una presa di posizione che restò senza risposta. Cosa sarebbe successo se il monte fosse franato nel lago al massimo della sua capienza?
Io mi feci portavoce di quei montanari e scrissi per «l’Unità» un articolo, indicando quello che sarebbe potuto accadere e che oggi è accaduto così come esattamente lo avevo descritto. La pubblica autorità mi accusò di propagare notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico. L’autorità giudiziaria mi incriminò di reato, senza peraltro recarsi sul posto per accertare la verità. Venni processata a Milano assieme al direttore responsabile dell’«Unità».
A Milano si offersero generosamente di venire a testimoniare tanti abitanti di Erto che mi ebbero vicina nelle loro proteste, nelle loro pubbliche manifestazioni, nel sostenere la lotta; cosa che non fecero tanti parlamentari governativi e non governativi di allora, malgrado fossero stati ufficialmente invitati ad intervenire dalla popolazione. Io e il compagno onorevole Bettiol, che rappresentavamo il Partito comunista, fummo solo e sempre gli unici a sostenere attivamente le ragioni dei montanari di Erto. Essi mi difesero energicamente davanti ai giudici del Tribunale di Milano e dimostrarono, con prove e testimonianze, non solo che io avevo scritto la verità, ma che tutto il paese si trovava in pericolo e che, assieme ad Erto, anche i paesi del Longaronese correvano rischi.
I giudici mi assolsero, ma le autorità che dovevano tener conto dei fatti e impedire un possibile massacro, diedero invece via libera alla «Sade» per i suoi esperimenti criminosi. Fatti, oltretutto, con i miliardi del popolo italiano, i tanti miliardi che il governo diede alla «Sade» a fondo perduto per la costruzione del lago artificiale e che, magari, ora stanno al sicuro oltre frontiera. Miliardi rubati al popolo, col consenso delle autorità di governo. Quelle stessa autorità che gestendo oggi gli impianti idroelettrici, e sapendo che da circa un mese la situazione del Vajont peggiorava, non hanno provveduto a scongiurare la immane sciagura che si è abbattuta stanotte sul Bellunese, creando un cimitero su una vasta zona popolata.
Sto scrivendo queste righe col cuore stretto dai rimorsi per non aver fatto di più per indurre il popolo di queste terre a ribellarsi alla minaccia mortale che ora è diventata una tragica realtà. Oggi tuttavia non si può soltanto piangere. È tempo di imparare qualcosa. (Tina Merlin, 11.10.1963)
Il 9 ottobre è passato, e con lui il 52° anniversario della strage Vajont, quasi assente quest’anno dai telegiornali e dai quotidiani nazionali. Come era prevedibile, una volta spenti i riflettori del cinquantennale, il silenzio ha ricoperto ciò che era già stato sepolto dal fango. Fango materiale, ma anche morale e politico.
Devo dire che a volte è meglio il silenzio piuttosto che la retorica. Se non altro quest’anno ci siamo risparmiati il mantra del “Che non succeda mai più!”, recitato dagli stessi soggetti che nemmeno un anno fa hanno deciso, col decreto ‘Sblocca Italia’, un salto in avanti nella devastazione dei territori. Ci siamo risparmiati le commemorazioni edulcorate, che rievocano ‘l’immane tragedia del Vajont’ dopo averla asetticamente ripulita da una serie di dettagli: la complicità fra potere politico e industriale, le violenze contro le popolazioni, la connivenza dei media e dei ceti accademici con i monopoli dell’energia, la corruzione degli organi di controllo, i conflitti di interesse, la privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite.
Dettagli su cui è meglio sorvolare, casomai risvegliassero analogie col presente. Con la storia, per esempio, di un’altra valle, dove la devastazione è imposta per legge e difesa manu militari. Oggi come allora, lo Stato fa muro attorno alla grande opera. Esimi scienziati la difendono, come è successo ad un convegno della Società Geologica Italiana, dove si è decretato che la produzione di 300.000 metri cubi di detriti contenenti amianto, prevista per la perforazione del tunnel in Val di Susa, non costituisce un problema per la salute pubblica. Era il 2006, ma sembrava di tornare ai bei tempi di Giorgio dal Piaz, il luminare della geologia le cui perizie diedero ‘rigore scientifico’ al progetto della diga del Vajont. Del resto al convegno di Torino relazionava anche suo nipote, Giorgio Vittorio Dal Piaz, responsabile degli studi geologici di base per il Traforo del Brennero (perché la grande opera è una passione di famiglia).
Oggi come allora, si usano i tribunali per far tacere gli oppositori alla grande opera, come successe a Tina Merlin, inquisita per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. Oggi come allora, i media decantano la grande opera, con la stessa subalternità e servilismo dimostrati all’indomani della strage del Vajont, quando sfoderarono le più grandi firme del giornalismo nazionale per assolverne d’ufficio i responsabili e tacciare di sciacallaggio chi ne indicava i nomi:
“Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere, quindi non si può … dare della bestia a chi l’ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d’arte, testimonianza della tenacia, del talento e del coraggio umano… Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alle spalle” (Dino Buzzati, Corriere della Sera, 11 ottobre 1963).
“… si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona e non è cattiva, ma indifferente. Non c’era niente da fare, non ci sono colpevoli” (Giorgio Bocca, Il Giorno, 11 ottobre 1963).
“… nella vita delle Nazioni ci sono anche le tragedia spaventose, le carestie, pestilenze, i cicloni, i terremoti. Ciò che conta è di saperle affrontare con coraggio, senza farne pretesto di odi e di divisioni interne … Se certe reazioni sbagliate venissero dai poveri sopravvissuti che nella catastrofe hanno perso tutta la loro famiglia, non dico che le approverei, ma le comprenderei e giustificherei. Ma qui vengono invece dagli sciacalli che il partito comunista ha sguinzagliato, dai mestatori, dai fomentatori di odio. E sono costoro che additiamo al disgusto, all’abominio e al disprezzo di tutti i galantuomini italiani” (Indro Montanelli, La Domenica del Corriere, novembre 1963).
Di certo gli sciacalli c’erano, ma non quelli indicati da lui. Dopo la strage strani individui cominciarono a circolare a caccia di sopravvissuti. Erano gli avvocati del ‘Consorzio dei danneggiati del Vajont’, un organismo creato dalla stessa Enel per dissuadere i superstiti dall’intento di costituirsi parte civile. Un’operazione decisa dai vertici dello Stato, che vedeva coinvolti alti esponenti della DC e del Partito Socialista. “A voi superstiti non spetta niente” dicevano gli avvocati. Del resto a chi chiedere i danni se è colpa della natura, come dicono anche Buzzati, Bocca, e Montanelli? “Vi conviene accettare quello che ora vi viene offerto, altrimenti non avrete niente». In cambio l’Enel offriva una transazione sulla base di un tariffario predefinito: 3 milioni per un coniuge, 2 milioni per un figlio unico, 800.000 lire per un fratello… Al massimo 33.000,00 euro, ai valori attuali.
Anche l’epilogo giudiziario del Vajont ha forti affinità coi giorni nostri, con quell’impunità ribadita l’anno scorso dalla sentenza di Cassazione del processo Eternit. Lievissime furono le condanne e colpirono solo i livelli tecnici. Indenni, nemmeno inquisiti, la proprietà della Sade (il conte Vittorio Cini) i vertici dell’Enel, ed i padrini politici della ‘diga più alta del mondo’. Dal resto l’Enel/Sade aveva ottimi avvocati. Qualche giorno dopo la strage, mentre i sopravvissuti scavavano nel fango, scese dall’elicottero il Presidente del Consiglio Giovanni Leone, promettendogli giustizia.
Scaduto il suo mandato di governo, l’avvocato Giovanni Leone andò a presiedere il collegio di difesa dell’Enel, contro quegli stessi superstiti a cui aveva promesso giustizia. Pare sia stato lui a scovare, nel codice civile, il cavillo della ‘commorienza’, cioè quel meccanismo per cui se muoiono contemporaneamente i nonni e i genitori, i nipoti perdono ogni diritto ai risarcimenti per la vita dei nonni. Grazie alla ‘commorienza’, Leone riuscì a far risparmiare all’Enel una bella fetta di risarcimenti agli orfani del Vajont. Poi lo fecero Presidente della Repubblica.
Più di recente anche i vertici di Marzotto, Solvay, Thyssenkrupp, Eternit, inquisiti per disastri ambientali e morti operaie, si sono avvalsi dei migliori legali sulla piazza.
Ottobre 1963: muore Longarone, nasce il Nord Est. Quello della ‘commorienza’ fu solo uno degli innumerevoli oltraggi subiti dai superstiti del Vajont. Ce ne furono altri: il processo tenuto a l’Aquila per ostacolarne la partecipazione; il trasferimento forzato dei sopravvissuti di Erto e Casso a Vajont –un paese anonimo creato per l’occasione– che ha determinato la perdita, per questa gente, dei propri luoghi e punti di riferimento, in aggiunta a quella dei propri cari; la sparizione dei fondi delle donazioni private; i sussidi da fame, insufficienti per gente che ha perso ogni cosa, e tali da indurla ad accettare l’offerta di transazione dell’Enel; l’assenza di qualsiasi supporto psicologico dopo un trauma così profondo; l’adozione degli orfani da parte di famiglie che avevano il solo scopo di incassarne i sussidi, senza nessun controllo da parte di un giudice tutelare; l’interruzione delle ricerche dei corpi (centinaia mancano all’appello); la costruzione (con i contributi della Legge Vajont) di un salumificio in un’area del comune di Erto sotto la quale, probabilmente, giacciono ancora delle vittime.
Fino all’ultimo insulto del 2004: la ‘ristrutturazione’ (costata 4 milioni di euro) ad opera dell’ex sindaco De Cesero, del cimitero di Fortogna, che raccoglieva i resti ritrovati di quei poveri corpi. La rimozione delle croci, delle foto, delle lapidi con le iscrizioni poste dai parenti, distrutte in parte dalle ruspe e sostituite da cippi di Stato, tutti uguali, ai quali non si può aggiungere una foto o porre un fiore, e che non coincidono più con la posizione dei corpi. La creazione di una sorta di sacrario istituzionale, che cancella la memoria viva dei sopravvissuti per sostituirla con una memoria fittizia, come la commozione dei politici che l’usano, di tanto in tanto, come passerella. Nuovo dolore per gente che non ha più nemmeno una tomba su cui piangere.
Ma uno degli oltraggi più abnormi fu certamente la gestione del fiume di denaro della cosiddetta ‘Legge Vajont’. Un massiccio trasferimento di ricchezza sottratta all’assistenza ai sopravvissuti a favore del capitale privato. Col pretesto della strage, la Democrazia Cristiana ha provveduto a nutrire la propria rete clientelare del Triveneto, finanziando con una massiccia iniezione di denaro pubblico quell’imprenditoria nordestina che stentava ad agganciarsi al ‘miracolo economico’.
La ‘Legge Vajont’ (n. 357/1964) –emanata dal governo di centrosinistra presieduto da Aldo Moro– prevedeva per la ricostruzione o l’ampliamento delle attività distrutte dalla catastrofe, finanziamenti pubblici a fondo perduto e prestiti a tasso agevolato praticamente illimitati, oltre a forti agevolazioni fiscali. La legge non obbligava, per ottenere i benefici, a ricostruire lo stesso tipo di attività, né a farlo a Longarone e dintorni. L’azienda poteva essere ricollocata in qualsiasi parte delle provincie di Belluno, Udine e limitrofe… vale a dire Trento Bolzano, Gorizia, Vicenza, Treviso e Trieste… praticamente mezzo Triveneto.
Dulcis in fundo, i diritti acquisiti con la legge Vajont erano cedibili, assieme alle licenze, a terzi, sia che fossero persone fisiche o giuridiche. Così recita un’informativa della Polizia tributaria: “Di queste disposizione approfittarono diverse persone le quali provvidero a rintracciare e avvicinare i sopravvissuti già titolari di licenze per l’esercizio di qualsiasi impresa o eredi di questi, facendosi nominare ‘procuratori speciali’ per la cessione dei diritti dietro compenso di somme esigue… Una volta in possesso della procura, tali persone, per la maggior parte liberi professionisti, proponevano a grossi complessi industriali, a commercianti che volevano ampliare le proprie aziende o a persone facoltose che avessero intenzione di far sorgere una qualsiasi attività, l’acquisto dei diritti dei quali erano venuti in possesso”.
Poteva quindi accadere che il sig. Giuseppe Corona, artigiano e ambulante, cedesse i suoi diritti per meno di trecentomila lire alla Arredamenti Morena Spa di Gemona, che ne avrebbe ricavato quasi 503 milioni (dell’epoca) fra finanziamenti a fondo perduto e mutuo agevolato. Al lordo, si intende, della parcella di 21 milioni al mediatore, tal rag. Aldo Romanet (Romanet diventerà famoso, per aver –in concorso con altri– sottratto e convogliato in conti svizzeri, 1.200 milioni dai fondi destinati alla ricostruzione).
La Zanussi Mel, fabbrica di compressori del gruppo Zanussi, ricevette più di 6 miliardi di finanziamenti e prestiti agevolati grazie all’acquisto delle licenze dagli eredi di un commerciante di calzature di Longarone, di un rivenditore di elettrodomestici e di un oste.
La Indel Spa di Ospitale di Cadore ottenne 3.222 milioni comprando le licenze di un geometra e di un fotografo. La Filatura del Vajont, comprando la licenza di una segheria, ricavò 3.190 milioni. La Confezioni SanRemo Spa, una delle aziende italiane del tessile più grandi dell’epoca, beccò 2.300 milioni, comprando la licenza di un falegname. Ottenne anche forti agevolazioni IGE (poi IVA), e grazie alla Legge Vajont costruì uno stabilimento e un magazzino centrale a Belluno.
Stesso discorso per le Industrie meccaniche di Alano di Piave (1.125 milioni grazie alla licenza di un commerciante di legname), per le Ceramiche Dolomite (1.200 milioni per le licenze di una sarta e di una carpenteria), per le Industrie San Marco Spa (4 miliardi con la licenza di un albergo e di un impiantista idraulico).
Per capire pienamente il valore di tali cifre, relative a stanziamenti degli anni ’60-’70, bisogna riparametrarle ai valori attuali moltiplicandole anche fino a venti volte, a seconda dell’anno di erogazione. Centinaia di aziende ottennero contributi (circa trecento solo nel bellunese), in zone che non c’entravano nulla con i luoghi della strage, e quelle dei sopravvissuti erano un’esigua minoranza. Che fine han fatto queste attività? Alcune chiusero subito. “Nel 1968 ero una sindacalista, capo della Commissione interna di una fabbrica di manifattura nata con i soldi dei morti e finita male, come molte altre aziende che hanno chiuso non appena sono cessate le sponsorizzazioni per il Vajont”.
La Filatura del Vajont ha chiuso dopo aver campato per anni solo grazie ai finanziamenti pubblici. Nel ’75 veniva segnalata da un’interrogazione parlamentare perché non pagava gli stipendi. La San Remo ha chiuso definitivamente nel 2004. La Ceramica Dolomite è stata acquisita dal fondo americano Bain Capital, che le ha riversato addosso i suoi debiti, e l’anno scorso lo stabilimento di Trichiana ha rischiato la chiusura. La Zanussi Mel è stata da poco acquistata dal colosso cinese dei compressori «Wanbao», acquisizione che ha evitato la chiusura dello stabilimento ma con 142 dipendenti in meno. A Ospitale di Cadore, nello spazio della vecchia Indel, la Società Italiana Centrali Elettrotermiche (SICET), pensa di costruire un nuovo inceneritore. C’è caso che della Legge Vajont ci rimanga soltanto il fango. (Alexyk, 2015)
La valle del Vajont prima e dopo il 9 ottobre 1963; per avere un’idea sulle dimensioni del fenomeno si consideri che la larghezza della valle in corrispondenza della diga (nel cerchio rosso) è di circa 160 metri.
Tutti sappiamo ormai, senza ombra di dubbio, che la tragedia del Vajont è stata colpa degli uomini. E non voglio su questo ritornare, se non per augurarmi che essa sia stata e sia in avvenire raccontata in maniera veritiera alla generazione cresciuta dopo e a quelle che verranno. Perché quella tremenda colpa degli uomini del potere –potere economico, potere politico– può anche essere perdonata dai cristiani, ma mai dimenticata.
Essa resta un esempio nefasto, nella più generale storia umana, di quanto poco conti la gente di fronte agli interessi dei potenti e di quanto conti la voce dei potenti dentro allo Stato rispetto alla voce della gente (…). Di come, purtroppo, ancora oggi, malgrado gli insegnamenti del Vajont, vi siano due linguaggi e due misure in alto e in basso, e chi è in alto comanda e chi è in basso subisce”. (Tina Merlin, 1983)