April 2016. Shining.

 

 

 

 

Da una parte c’è l’Overlook, il simbolo del Sogno Americano dove tanti cittadini possono lavorare e arricchirsi e dove tanti altri possono spendervi il loro denaro.
Dall’altra c’è il cimitero indiano, simbolo del genocidio su cui è stata costruita la civiltà americana.
Dunque, nel nome della civiltà e del progresso, gli USA hanno ghettizzato, distrutto e sepolto una cultura millenaria, sostituendo a capanne e amore per la natura, alberghi e megastore.
Per King e per Kubrick non c’è scampo: prima o poi il Sogno Americano cede e crolla su se stesso, uccidendo i propri figli.
Perché sbagliato, contro natura, contro cultura.
É contro.

 

 

 

 

 

 

 

 

Per “el mestée del mes” tre testi su “Shining” di Stanley Kubrick: il primo è una lettura interpretativa prodotto di una rielaborazione di Filippo Ulivieri della tesina "Shining e il Doppio Perturbante" scritta per l'esame di Semiotica delle Arti, Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, Università di Siena, anno accademico 1998/1999. Il secondo è una analisi, partendo dalla disputa sorta all’epoca tra Stephen King e Stanley Kubrick, delle differenze e le analogie tra il romanzo e il film a cura di Failù da arpnet.it.
Il terzo è un’altra lettura interpretativa che parte dalla dichiarazione che fece la sceneggiatrice del film Diane Johnson: “voleva (Kubrick) che il film mostrasse una sorta di vendetta degli spiriti di questi Indiani sui bianchi”. Foto dal backstage del film intervallano i testi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Contrasti inversi.

 

Dopo aver affrontato vari generi cinematografici, Stanley Kubrick si cimenta per la prima volta con il film horror. Shining si inserisce volutamente nel filone classico del cinema dell'orrore americano, come provano i numerosi ed evidenti richiami, sia tematici che figurativi, agli stilemi del genere horror. Ad esempio, il motivo della casa stregata (o haunted house), presente nel film di Kubrick con il malvagio Overlook Hotel, era già stato utilizzato in film illustri; allo stesso modo, ampiamente sfruttati risultano il tema della pazzia di uno dei personaggi e quello dei fantasmi. In Shining non mancano anche riferimenti meno evidenti a temi cari ai racconti dell'orrore, quali il vampirismo (Danny che torna dalla camera 237 con i segni sul collo), i morti viventi (la vecchia nel bagno della stessa camera), il patto con il Diavolo (Jack e gli abitanti dell'hotel) e quello della reincarnazione (ancora Jack che è sempre stato il guardiano dell'albergo), ecc.
Coerentemente con le regole del genere, il film sfrutta queste figure classiche per spaventare il pubblico, ossia per raggiungere, anche a detta del regista, il fine principale di un film horror. Si potrebbe anzi affermare che uno dei punti di forza di Shining risieda proprio nell'ostentazione anche eccessiva di questi motivi. A livello figurativo si osserva tuttavia un fatto interessante che in parte smentisce la precedente osservazione: Shining ribalta alcuni stereotipi figurativi del genere horror, in particolare quello che vuole "il male" (personaggi-nemici, creature malefiche, luoghi malvagi, ecc.) associato a zone buie, alla notte e alla mancanza di luce.

 

Gli stereotipi dell'horror.
I film dell'orrore classici sfruttano da sempre una serie di contrasti che servono a generare tensione e a provocare la scossa emotiva nello spettatore: in questo saggio ci concentriamo sulla contrapposizione tra buio e luce, uno dei contrasti fondanti della "poetica dell'orrore". In tutti i film horror la categoria espressiva [buio/luce] è associata alla coppia di contenuti [male/bene], rispettivamente; già dai primi film dell'orrore si delinea una separazione completa fra queste due sfere: le creature del male sono relegate agli angoli scuri e alle zone in ombra delle scenografie mentre gli eroi trovano la salvezza in posti pienamente illuminati.
Un buon esempio è dato da “Nosferatu il Vampiro”, forse il primo film che lavora consciamente con le convenzioni del genere da un punto di vista cinematografico. In questa pellicola il vampiro è legato in modo inscindibile alla notte e al buio: in quasi tutte le sequenze il suo arrivo è preannunciato dall'entrata in campo della sua ombra o dall'emergere del suo viso da uno spazio completamente nero. E' anche interessante osservare come il personaggio di Dracula, già nel romanzo di Bram Stoker, venga ucciso dalla luce del giorno. Talvolta, inoltre, il Conte ha ricevuto l'appellativo di "principe delle tenebre" come a presiedere la congrega di tutti i demoni e mostri della letteratura horror, genericamente appellati "creature della notte".
Questa separazione netta fra i due settori, sedimentata in secoli di racconti dark (nome non casuale), stabilisce che i personaggi malvagi trovino collocazione spaziale nelle parti in ombra di un ambiente e temporale nelle ore buie. La minaccia di queste figure nasce esattamente dalla possibilità di un sovvertimento di questo ordine prestabilito, con i mostri che fanno incursione nella sfera della luce per trascinare nel loro mondo buio i personaggi buoni.

 

I ribaltamenti in Shining: la luce come male.
Shining segue una strategia opposta: tutte le scene terribili si svolgono in piena luce e l'ambiente principale, l'Overlook Hotel, è sempre insolitamente, inspiegabilmente illuminato a giorno; le scene notturne sono pochissime, a differenza di un comune film horror, e coincidono, significativamente, con gli sviluppi positivi della storia.
Facciamo due esempi per chiarire l'atipicità delle scelte di Kubrick: uno dei momenti di maggior tensione del film è l'ingresso di Jack Torrance nella camera 237 in cui il piccolo Danny dice di aver incontrato poco prima una donna che ha tentato di strangolarlo. In questa descrizione ipotetica si fa di proposito riferimento anche ad elementi non pertinenti alla categoria buio/luce per evidenziare come la strategia di ribaltamento di ogni stilema classico dell'horror da parte di Stanley Kubrick sia tutt'altro che arbitraria. Un film horror classico avrebbe seguito Jack in un corridoio in penombra fino all'arrivo davanti alla stanza; Jack avrebbe aperto la porta, facendo immancabilmente scricchiolare i cardini, e sarebbe entrato titubante in un ambiente tetro e buio. Probabilmente la donna impazzita sarebbe saltata al collo di Jack all'improvviso emergendo da un angolo buio, provocando uno shock emotivo tanto a lui quanto agli spettatori, e imprimendo un cambio di ritmo repentino nei movimenti della macchina da presa e nel montaggio.
Invece Kubrick posiziona Jack in un corridoio perfettamente illuminato, lo fa entrare in una stanza che ha già le luci accese e mostra la donna in fondo alla scena, mentre esce lentamente dalla vasca da bagno. La ragazza si avvicina con calma a Jack e quando si rivela essere una vecchia putrescente la macchina da presa e il montaggio mantengono il loro ritmo rallentato.
Al contrario, verso la fine del film, quando ormai Jack è stato assorbito dalla sua pazzia e Wendy e Danny stanno cercando di salvarsi, la scena si svolge di notte: lo vediamo quando Danny esce dalla finestra del bagno scivolando nella neve mentre Halloran, il cuoco con poteri paranormali, è in arrivo per cercare di salvare quello che resta della famiglia Torrance. Il buio e la notte accompagnano i possibili esiti positivi della storia: Halloran in arrivo con il gatto delle nevi e Danny in fuga dal padre impazzito. Non solo, le scene immediatamente successive perseguono questo ribaltamento: da una parte, Halloran muore appena entrato nell'hotel proprio sotto l'unico lampadario acceso tra i tanti presenti nel corridoio, e analogamente il fantasma del signore con la testa sanguinante visto da Wendy nel corridoio adiacente fa accendere con la sua apparizione il lampadario spento fino a pochi istanti prima; dall'altra, quando poco dopo Danny cerca la salvezza entrando nel labirinto, esso è in penombra, a luci spente, ed è proprio Jack, il male, ad accendere i faretti sia dentro al labirinto che nello spazio fuori dall'albergo. E' la luce quindi che accompagna le presenze malefiche dell'albergo e preannuncia la possibile tragedia, l'attuazione dei piani di Jack.
Altri veloci esempi confermeranno che tutto l'orrore di Shining è associato alla luce: le folgoranti apparizioni delle gemelline nei corridoi illuminati a giorno dell'hotel; lo snervante faccia a faccia fra Jack e Wendy nella luminosissima Sala Colorado; il dialogo fra Jack e il cameriere Grady nei bagni rossi, con la disturbante rivelazione sul passato (presente e futuro...) di Jack stesso; il racconto delle passate violenze a Danny al bancone del bar; ecc. Kubrick non usa mai l'espediente del buio come premonitore del male e di un possibile colpo di scena. Perché questo binomio originale luce-male?

 

Il perturbante di Sigmund Freud.
In un'intervista rilasciata dopo l'uscita del film, Kubrick ha parlato dei riferimenti letterari che ha preso in esame con la sua co-sceneggiatrice Diane Johnson per affiancare il lavoro di adattamento sul romanzo di Stephen King. Il referente teorico principale di Shining è un saggio breve scritto da Freud, “Il Perturbante”, definito dal regista "il massimo discorso fatto dalla cultura occidentale sul tema della paura".
In questo saggio Freud cerca di spiegare un particolare sentimento, quello appunto definito perturbante ("unheimlich" in lingua tedesca), studiando le cause del suo insorgere e portando alcuni esempi di situazioni perturbanti. Si tratta di una specie di sentimento spaventoso che trae origine dal suo essere novità, dal fatto che non è conosciuto, che è inconsueto: "il perturbante sarebbe [...] qualcosa in cui, per così dire, non ci si raccapezza." Freud elenca nel saggio una serie di situazioni che possono far insorgere questo sentimento, dalla ripetizione dell'uguale al motivo del sosia. Come vedremo nel prossimo paragrafo, tutti gli esempi freudiani sono presenti in Shining: Kubrick ha utilizzato il trattato come guida tematica, come mappa dell'immaginario dell'orrore.
Freud analizza inoltre l'uso linguistico della parola tedesca e nota un'ambivalenza di significato che si riflette in una particolarità in questo sentimento. Il significato della parola "heimlich" in certi contesti può assumere una connotazione che la fa coincidere con il suo contrario "unheimlich": ecco allora che ciò che sembra confortevole e protettivo diventa, esattamente all'opposto, infido, pauroso, ingannevole. Nel vocabolario della lingua tedesca il termine "heimlich" ha infatti due significati distinti, uno nel senso di "non straniero, familiare, domestico, fidato e intimo" e un altro come "nascosto, tenuto celato in modo da non farlo sapere ad altri o da non far sapere la ragione per cui lo si intende celare". Dice Freud: "la parolina heimlich, tra le molteplici sfumature del suo significato, ne mostra anche una in cui coincide con il suo contrario unheimlich. Ciò che è heimlich diventa allora unheimlich"; e ancora "unheimlich [...] è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e invece è affiorato"; "heimlich è quindi un termine che sviluppa il suo significato in senso ambivalente, fino a coincidere in conclusione con il suo contrario unheimlich. Unheimlich è in un certo senso una variante di heimlich."
Così, nello stesso modo in cui il sentimento del perturbante nasce da, e porta con sé, il contrasto e l'opposizione fra qualcosa che sembra sicuro e può diventare infido (che anzi allo stesso tempo è sicuro e infido), la paura in Shining dipende da questo ribaltamento apparentemente inspiegabile, che genera una condizione di perenne spiazzamento e imprevedibilità. Kubrick ha utilizzato il saggio freudiano non solo come ispirazione tematica, ma anche come referente formale, visivo, per ideare lo stile del film.
Analizzeremo nei due prossimi paragrafi questa doppia ispirazione freudiana in Shining: prima ci occuperemo di rintracciare casi di perturbante nel film derivati direttamente dal saggio del 1919, poi illustreremo come lo studio del filosofo viennese abbia influenzato in modo forte anche la forma del film.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il rimosso.

 

Il perturbante freudiano.
Torniamo al saggio freudiano e definiamo con esattezza le cause che provocano il sentimento del perturbante: "il perturbante che si sperimenta direttamente si verifica quando complessi infantili rimossi sono richiamati in vita da un'impressione o quando convinzioni primitive superate sembrano aver trovato una nuova convalida [...]; al fine della nascita del sentimento perturbante è necessario [...] un dilemma relativo alle possibilità che le convinzioni superate e ormai ritenute indegne di fede si rivelino, nonostante tutto, rispondenti alla realtà." Seguendo passo passo il trattato di Freud, illustriamo quali sono le situazioni perturbanti messe in scena da Shining.

 

Oggetti animati e esseri viventi inanimati.
Il primo esempio che Freud porta è "il dubbio che un essere apparentemente animato sia vivo davvero e, viceversa, il dubbio che un oggetto privo di vita non sia per caso animato". Qui il perturbante è provocato secondo Freud da bambole, figure di cera e automi. Questi oggetti non sono presenti in Shining, tuttavia le figure spettrali che popolano l'hotel pongono lo stesso inquietante interrogativo. Non è infatti possibile capire se queste presenze siano vive o meno, né quelle che interagiscono direttamente con Jack, delle quali è veramente impossibile stabilire il grado di realtà, né quelle che spaventano Wendy e Danny, che sono classificabili più come semplici fantasmi.
Inversamente, in alcune scene Danny, bambino reale e vivo, sembra inanimato: ad esempio quando lo vediamo sotto l'effetto dello shining, mentre trema in modo ritmico e inumano, o anche quando avanza catatonico nella hall verso i suoi genitori dopo l'ingresso nella camera 237. Nella versione americana del film inoltre Danny è mandato in trance da Tony, il suo amico immaginario, per proteggerlo dall'onda di terrore che minaccia la famiglia: in queste scene il bambino non reagisce a nessun stimolo esterno, parla con la sola voce stridula di Tony e si lascia spostare da Wendy come un pupazzo.

 

Danno agli occhi.
Il secondo caso citato nel saggio è l'angoscia di perdere la vista: anche se non si hanno esempi concreti di danni o tentativi di danni alle capacità visive dei protagonisti, si può collegare la paura della cecità con la continua tortura a cui sono sottoposti gli occhi di Danny e Wendy a causa delle raccapriccianti visioni dell'hotel.

 

Il sosia e l'identificazione con altri.
Il terzo caso di perturbante è dato dal motivo del sosia, immediatamente riscontrabile in Shining nelle due gemelline figlie di Grady, soggetto privilegiato degli incontri di Danny nei corridoi. Il sosia, e in generale il doppio, è un motivo perturbante perché, secondo Otto Rank, rappresenta "un baluardo contro la scomparsa dell'Io, una energica smentita del potere della morte" e con il superamento di tale fase ottimistica, il doppio "da assicurazione di sopravvivenza diventa un perturbante presentimento di morte". E' particolarmente evidente qui il carattere di rimosso del sentimento perturbante, che ritorna alla luce con segno mutato da positivo a negativo. In Shining si trovano anche altri accenni al sosia, quali ad esempio Tony, il bambino che sta nella bocca di Danny, o Grady come doppio di Jack (stesso ruolo nell'organizzazione dell'albergo, stessa situazione familiare ostile al fascino dell'Overlook ecc.). Affine a questo esempio è anche il caso successivo di identificazione del soggetto con un'altra persona visibile, per esempio, in Jack che si identifica con Grady.

 

Telepatia.
Altro elemento elencato da Freud è la telepatia, presente in Shining perfino nel titolo del film: essa è perturbante in quanto permette che una persona sia "compartecipe della conoscenza, dei sentimenti e delle esperienze" di un'altra e quindi assimila le due persone in un unico individuo: l'effetto è lo stesso della presentazione di un doppio e il motivo del perturbante nasce per le stesse ragioni. Ricordiamo qui Danny che fa vedere telepaticamente l'orrore che si sta scatenando nell'hotel ad Halloran, invocandone l'aiuto a distanza.

 

Il ritorno dell'uguale.
Il sesto caso è il ritorno perpetuo dell'uguale, sperimentato da Danny nel suo peregrinare attraverso i corridoi dell'hotel con il suo triciclo: le pareti, i tappeti e i quadri sono sempre gli stessi o sono molto simili, così che non è possibile tenere una traccia esatta degli spostamenti all'interno della geografia dell'albergo. Significativo è anche il fatto che la prima volta che Danny passa davanti alla camera 237 esegue un percorso ciclico per arrivarci, passando una prima volta davanti alla porta rossa senza accorgersene. Altro esempio rilevante della coazione a ripetere è il labirinto, costruzione spaziale che mira intenzionalmente a far perdere l'orientamento e che nasconde ogni indizio e traccia dei percorsi già compiuti in esso: in Shining il labirinto è spaziale (il giardino esterno e i corridoi interni) e in un certo senso temporale, dato che le didascalie che il film fornisce servono più a confondere le idee che a stabilire un momento temporale preciso in cui si svolgono gli eventi (e l'illuminazione costante non aiuta, in questo senso). Per Freud, "La ripetizione involontaria rende perturbante ciò che di per sé sarebbe innocuo, insinuandoci l'idea della fatalità e dell'ineluttabilità laddove normalmente avremmo parlato soltanto di caso."

 

L'animismo.
L'esempio successivo è relativo all'animismo, ossia quella concezione del mondo che prevede un'eccessiva valutazione delle capacità psichiche umane, l'onnipotenza dei pensieri, l'attribuzione di poteri magici a persone o cose, ecc.: questo elemento è presente con i poteri di veggenza di Danny e Halloran e con la porta della dispensa dove Jack è rinchiuso che si apre da sola liberandolo. L'animismo è perturbante perché è un residuo delle credenze dei primitivi, che era stato rimosso e riaffiora forzatamente a causa di particolari eventi.

 

La Haunted House e la morte.
L'ottavo esempio è il tema della haunted house, già citato in precedenza: si può dire che il film stesso è una casa stregata ed è inutile ricercare esempi singoli; in questo caso il perturbante secondo Freud è troppo strettamente legato con l'orrido che coincide in parte con esso. La situazione successiva è data dalla relazione con la morte: viene subito alla mente Jack che, in bagno, bacia una ragazza che di lì a poco si dimostrerà essere un cadavere in putrefazione; possono rientrare in questa categoria anche le presenze del passato che popolano l'hotel. Il perturbante nasce anche qui dalle credenze dei popoli primitivi che ritenevano un contatto con la morte possibile. Questo caso di perturbante è particolarmente potente perché sul campo della morte le nostre conoscenze, siano esse scientifiche, filosofiche o religiose, non sono del tutto certe e la nostra vicinanza con le tribù primitive è maggiore che in altri casi. Un'osservazione di Freud su tale discorso sembra fare al caso nostro: "questo timore ha ancora il significato antico secondo cui il morto è diventato nemico dei sopravvissuti e mira a prenderli con sé come compagni della sua nuova esistenza"; appare evidente che è proprio questo lo scopo ultimo delle figure maligne dell'hotel e dell'hotel stesso: non lasciar sfuggire la famiglia Torrance per inglobarla nella storia malefica dell'albergo.

 

Altri esempi di perturbante freudiano.
Gli ultimi esempi citati da Freud nel suo saggio sono la follia (più che presente in Jack), le membra staccate dal corpo (le gemelline fatte a pezzi, piccolissimi pezzi...) e l'apparato genitale femminile, perturbante perché luogo della prima dimora dell'uomo inevitabilmente abbandonato (rintracciabile, forse con qualche forzatura, se si tenta di leggere Shining in chiave psicanalitica come in Lasagna, Zumbo, op. cit.).

 

Esempi di perturbante freudiano introdotti da Shining.
Accanto a questi esempi di rimozione tratti dal saggio freudiano, Shining ne presenta di propri. Un primo esempio può essere rintracciato nel riferimento al cannibalismo, citato all'inizio del film con il racconto della spedizione Donner: il cannibalismo può essere considerato perturbante perché pratica in uso in alcune tribù primitive e allontanato massimamente, anche come tabù linguistico, dalla società moderna.
Il film non sviluppa un'idea presente nel romanzo di Stephen King: nei sotterranei dell'hotel sono custoditi degli album di ritagli relativi ad eventi delittuosi accaduti negli anni '20 quando l'albergo era covo di bande mafiose e di criminali. L'aspetto interessante di questa idea era il fatto che, in tale immagine, l'hotel si trovava a poggiare fisicamente sui resti e sulla memoria delle azioni nefaste del passato, occultate nei suoi sotterranei ma sempre presenti; coerentemente, nel romanzo il momento in cui la pazzia di Jack si scatena coincide proprio con la lettura sempre più assidua di questi documenti. Kubrick non getta via questa felice intuizione dello scrittore ma la sostituisce con un'idea simile eppure decisamente più ambiziosa in termini psicologici e sociologici: nei primi dialoghi del film viene svelato che l'hotel è stato costruito sopra i resti di un cimitero indiano, tirando così in ballo il più eclatante caso di rimosso della coscienza collettiva americana, quello della consapevolezza, tenuta invano lontana, che sotto l'ottimistico "go west" e il mito della frontiera si nasconde la decimazione del popolo dei pellerossa. Da tutti questi esempi risulta chiaro il carattere specifico dell'elemento che causa il perturbante, ossia la rimozione e la successiva riemersione di qualcosa di sepolto, di antico o di primitivo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Perturbare il pubblico.

 

Il primo perturbante.
In Shining Kubrick costruisce una serie di situazioni perturbanti per i personaggi della storia: a causa delle visioni orrorifiche e delle situazioni descritte nel capitolo precedente, i personaggi buoni vivono un costante senso di spaesamento perché ciò che dovrebbe essere familiare, innocuo e conosciuto si rivela infido, malvagio e imprevedibile.
Attraverso i consueti processi di immedesimazione nei personaggi che i film operano, ad esempio mediante l'uso di inquadrature soggettive che fanno vedere gli spettatori con gli stessi occhi dei personaggi (dotano lo spettatore delle stesse capacità visive e epistemologiche di un attante), il sentimento perturbante dei personaggi si trasferisce sul pubblico. Lo spettatore che segue la storia della famiglia Torrance vive per immedesimazione la stessa ansia, lo stesso terrore e la stessa inquietudine di Danny e Wendy. Rispetto ai classici film horror, l'originalità di Shining risiede in questo caso nell'eccessiva ostentazione di tutti i motivi perturbanti illustrati nel saggio del 1919, come se Kubrick avesse seguito alla lettera la teoria freudiana, inscrivendola parola per parola nel film.

 

Il secondo perturbante.
Accanto a questo utilizzo di contenuto del saggio freudiano, Kubrick sfrutta le idee del trattato anche formalmente, per dare a Shining uno stile particolare e unico. Abbiamo visto come il ribaltamento di uno dei più classici stilemi dei film horror sia una scelta cosciente perseguita da Kubrick in Shining, un film che pur iscrivendosi di diritto nel genere horror presentando tutto l'immaginario del terrore fin quasi a diventare una summa del genere stesso, contraddice la forma di tutti i film horror, scegliendo una via atipica per rappresentare stilisticamente il male e l'antagonista. Questa inversione del piano dell'espressione permette a Kubrick di perturbare lo spettatore, oltre che mediante l'immedesimazione con i personaggi, direttamente in prima persona, attraverso la semplice azione dello stare a guardare quello che succede sullo schermo, quindi in modo più diretto e reale.

 

Il doppio perturbante.
Lo spettatore si trova a subire un doppio terrore: quello classico comune a tutti i film horror e quello inedito, specifico di Shining, derivato dalle specifiche scelte di regia di Kubrick. Il regista disattende continuamente le aspettative dello spettatore accumulate in anni di fruizione di altri film o racconti horror: lo spettatore di Shining vive una costante situazione di incertezza perché non può fare affidamento sulla sua competenza del genere horror per prevedere le scene in cui il rischio di spavento è maggiore. Ciò che è considerato tranquillizzante e sicuro, come i luoghi illuminati o la figura paterna, diventa improvvisamente minaccioso e portatore di male.
Entrambe le tipologie di perturbante che Shining provoca sono ispirate dal saggio freudiano, preso a modello da Kubrick tanto a livello di contenuto che di forma. Facendo un parallelo con il perturbante che appartiene al mondo della finzione letteraria, descritto da Freud nel saggio, potremmo dire che in questo film il regista sfrutta entrambi i meccanismi della produzione del perturbante.
In primo luogo egli tiene nascoste "le premesse che ha scelto per il mondo in cui si svolge la vicenda" evitando "fino alla fine ogni chiarimento decisivo in proposito": nell'intervista citata in precedenza Kubrick afferma che uno dei punti di forza della storia inventata da Stephen King risiedeva nella costruzione di una falsa pista psicologica che ingannava lo spettatore perché suggeriva che le presenze minacciose dell'hotel fossero frutto dell'immaginazione di Danny o della pazzia di Jack, salvo svelare solo alla fine che erano veri fantasmi del passato, quando anche Wendy, personaggio interamente razionale fino quel momento, diventa preda delle loro visioni.
Inoltre, secondo metodo per produrre inquietudine nell'arte, Kubrick "accresce e moltiplica il perturbante ben oltre il limite consentito nell'esistenza reale, facendo succedere eventi che nella realtà non sperimenteremmo o sperimenteremmo solo di rado": pensiamo alla cascata di sangue, alle continue apparizioni dei fantasmi, alla musica che verso la fine del film sembra far sobbalzare i protagonisti quasi provenisse dall'albergo stesso invece che essere la semplice colonna sonora udibile solo dagli spettatori, ecc. Anche in questo caso esiste una esplicita dichiarazione di Kubrick che è quasi una parafrasi de “Il Perturbante” e che può essere portata come prova dell'intenzionalità del regista di seguire la lezione di Freud; in un'intervista rilasciata a Vincent Molina Foix, Kubrick dichiara: "Credo che l'unica legge valida per questo genere sia che non si debba cercare di spiegare o trovare spiegazioni chiare per quello che succede, e che l'obiettivo fondamentale sia di produrre nel pubblico una sensazione di mistero. La sensazione di mistero è l'unica che si vive con maggior intensità nell'arte che nella vita."

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Conclusioni.

 

Riassumendo.
A partire dall'osservazione di una particolarità espressiva del film, abbiamo cercato di collegare il ribaltamento della relazione tra espressione e contenuto, rispetto ai canoni dell'horror, eseguito da Shining, con una delle caratteristiche del sentimento del perturbante analizzato da Freud, quella cioè di presentarsi contemporaneamente come qualcosa che è noto o, meglio, che era noto prima della rimozione e poi è riaffiorato all'evidenza, in contrasto con quello che fino a quel momento era stato avvalorato dall'esperienza del soggetto. Grazie a questo espediente puramente espressivo il film raggiunge lo scopo di terrorizzare il pubblico in due modi diversi, provocando il sentimento perturbante per due volte.
Il primo sistema è sostanzialmente in linea con tutte le opere horror prodotte nella cinematografia e nella letteratura dell'orrore: ai personaggi della trama accadono cose spaventose che li terrorizzano e, grazie ai meccanismi di proiezione e identificazione, terrorizzano anche lo spettatore. La seconda modalità che rende Shining doppiamente perturbante è ben più originale e parte proprio dalla specificità dell'unheimlich, da quella doppiezza che abbiamo illustrato: il film spiazza continuamente lo spettatore che si affida al suo bagaglio di conoscenze relative agli stereotipi del cinema horror, capovolgendo le coppie buio-male e luce-bene in modo da legare tutto il terrore del film alla luce, solitamente invece portatrice di sicurezza; in questo modo è lo spettatore che vive sulla propria pelle, in prima persona, e non in modo mediato, il perturbante. (rielab. di Filippo Ulivieri)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Shining versus Shining, ovvero King versus Kubrick.

 

L’horror è sempre stato considerato da critici e studiosi un genere minore, reietto e marginale, letteratura di serie B sia per gli argomenti trattati, sia per gli elementi che lo caratterizzano come la presenza di esseri mostruosi e disumani che non è possibile spiegare sulla base delle nostre conoscenze e che provocano nel lettore paura e disgusto. Ma l’horror ha una sua tradizione e possiede delle diversità al proprio interno che ne fanno un genere composito e complesso e meritevole di essere analizzato. Spesso, infatti, è possibile rintracciare tra le righe di alcuni romanzi, e di conseguenza nelle immagini di alcuni film, riflessioni che spostano l’attenzione dai drammi interiori dei protagonisti a problemi sociali o meditazioni meta-cinematografiche.
J.P.Telotte nel suo saggio “The Reflexive Nature of Horror” parla di «investigazione sulla natura del nostro modo convenzionale di vedere» dove per "vedere" si intende il rapporto che si instaura nell’osservatore (o nel lettore) tra la realtà e il medium letterario e filmico. Fondamentale risulta anche la considerazione di Gregory A. Waller nell’introduzione ad “American Horrors”: «Il genere è diventato sempre più riflessivo ed allusivo. L’horror chiede di essere visto nel contesto non solo della vita americana negli anni ’70 e ’80 ma anche in quei testi classici che cita, parodizza, imita (…)».
Si può, dunque, affermare che l’horror si definisca essenzialmente per la reazione che innesca nel pubblico e non certo per la storia che racconta o per la sua ambientazione (come accade per altri generi come la fantascienza o il poliziesco). In tal senso l’horror è più vicino al porno o al comico proponendosi come un mezzo per trasmettere paura e disgusto anche se è facile notare come questo estetismo abbia preso il sopravvento semplificandone e banalizzandone gran parte della produzione. La scarsa resa cinematografica di un romanzo horror è, dunque, una caratteristica costante tipica del genere e purtroppo in questa disputa è quasi sempre il cinema ad uscirne sconfitto. Ciò è dovuto essenzialmente alle differenti caratteristiche semiologiche dei due linguaggi (cinematografico e narrativo) e alla diversa interazione del fruitore con la parola scritta che avviene in base alle esperienze personali e questo fa sì che le aspettative dello spettatore rimangano deluse da alcune scelte del regista.
Ma è anche vero che in alcuni casi, non così rari, si abbiano esempi di trasposizioni cinematografiche superiori al testo ispirativo dove è possibile individuare un salto qualitativo nel passaggio da romanzo di serie B a cinema d’autore: Shining è uno di questi. Penso sia interessante nell’ambito di questa disputa, cercare di individuare le analogie e le differenze tra il romanzo di Stephen King (scritto nel 1977 pubblicato in Italia prima con il titolo “Una splendida festa di morte“ e poi, solo a seguito del grande successo derivato dal film, come Shining) e il film omonimo realizzato da Stanley Kubrick nel 1981.
A tale scopo, il saggio di Seymour Chatman intitolato “Storia e Discorso”, anche se ad una prima lettura può apparire datato, è un ottimo strumento di analisi semiologica che permette di attraversare gli spazi del romanzo e del film con maggiore dimestichezza: «Ciò che propongo è una risposta moderna e ragionevole alla domanda "Che cos’è una narrativa?", e cioè "Quali sono le componenti accessorie, e come entrano in correlazione?" (…) In particolare mi sono interessato alla forma piuttosto che al contenuto, o meglio al contenuto in quanto può esprimersi come forma. Il mio oggetto fondamentale è la forma narrativa e non la forma di superficie delle narrative». Chatman, dunque, analizza con lucida coerenza gli elementi che definiscono la struttura narrativa, facendone emergere le differenze a livello testuale, tra romanzo e film.
"Il sonno della ragione genera mostri" ha affermato Goya e mostri ammazzano, violentano, distruggono, imprecano, sterminano. E allora cosa è meglio: cedere alla follia, trovando nel suicidio la via d’uscita, oppure sprofondare nell’ambiguità di fronte ad un’immagine crudelmente reale del presente, accettando la follia? Certo, le due possibilità non sono ottimistiche, ma è possibile intravedere, soprattutto nel film, segni di una intuizione filosofica che serpeggia in ogni immagine: l’uomo di fronte all’orrore è solo un fantoccio, un burattino manovrato dalla follia; la vera e indiscussa protagonista è la morte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’intreccio è lineare: l’Overlook Hotel, un sinistro albergo che domina le alte montagne del Colorado, è stato teatro di numerosi delitti e suicidi e sembra aver assorbito forze maligne che si manifestano solo d’inverno, quando l’albergo è chiuso e resta isolato dalla neve. Jack Torrance, uno scrittore fallito, vi si reca con la moglie e il figlioletto di sei anni, per scrivere il suo romanzo approfittando dell’incarico affidatogli come guardiano. Su presenza del bambino, dotato di poteri extrasensoriali (da qui il titolo Shining, in italiano "la luccicanza"), si materializzano gli orribili fatti accaduti in passato, ma se il bambino si oppone con forza ad insidie e presenze, il padre ne rimane vittima raggiungendo uno stato di profonda pazzia omicida che lo porterà al tragico epilogo.
Fin dalle prime inquietanti immagini del film, lo spettatore viene catapultato in un mondo altro e gli è richiesto un atteggiamento complice che dia per scontata, insieme al regista, la presenza di alcuni luoghi che in realtà non esistono. Il romanzo è introdotto dalla classica frase "L’Overlook e le persone che vi hanno a che fare esistono solo nella mente dell’autore" al contrario, l’approccio del film è totalmente diverso. Kubrick ci mostra, attraverso svariate inquadrature, una enorme costruzione che lo spettatore riconosce immediatamente come un albergo di classe, luogo di villeggiatura esclusivo, riservato a un’elite di persone altolocate. Il fatto che nel Colorado esistano alcuni tra i più suggestivi luoghi di villeggiatura, induce lo spettatore a ricostruire l’oggetto estetico in conformità a quello reale, e quindi a creare mentalmente il mondo diegetico dove si svolgerà l’azione.
Ovviamente l’Overlook Hotel, nella realtà non esiste: Shining fu, infatti, girato quasi interamente negli studi di Elstree, in Inghilterra, costruendo gli interni sul modello di alcuni dei più famosi Hotel americani. Soltanto alcuni shots esterni furono fatti girare da Kubrick in Oregon. La facciata dell’Overlook è in realtà quella del Timberline Lodge alle pendici del Mount Hood, costruito negli anni Trenta.
Al fruitore è richiesto in questo caso, di attivare alcune conoscenze e competenze che Ruggero Eugeni nel suo saggio “Film, Sapere, Società” chiama saperi storici che gli permettano di leggere le immagini su un livello più profondo, connotativo e che lo portino a riflettere sul fatto che tanto nel romanzo, quanto nel film, l’albergo sia stato costruito su un antico cimitero indiano. Questo elemento accomuna nuovamente i due autori in un’allegoria: da una parte c’è l’Overlook, il simbolo del Sogno Americano dove tanti cittadini possono lavorare e arricchirsi e dove tanti altri possono spendervi il loro denaro. Dall’altra c’è il cimitero indiano, simbolo del genocidio su cui è stata costruita la civiltà americana. Dunque, nel nome della civiltà e del progresso, gli USA hanno ghettizzato, distrutto e sepolto una cultura millenaria, sostituendo a capanne e amore per la natura, alberghi e megastore. Per King e per Kubrick non c’è scampo: prima o poi il Sogno Americano cede e crolla su se stesso, uccidendo i propri figli. Perché sbagliato, contro natura, contro cultura. É contro. C’è chi sostiene che Kubrick sia più europeo che americano, lontano dalla scarsa capacità del cinema americano di auto-criticarsi. Ma la prova della sua americanità sta proprio nella sensibilità con la quale ha saputo rappresentare le contraddizioni e le debolezze dell’anima della civiltà americana.
Il nucleo centrale del film è legato alla graduale perdita di lucidità di Torrance. Shining rappresenta una profonda riflessione sulla follia della creatività e sulla capacità dell’arte di invadere in modo distruttivo l’esistenza del protagonista e della sua famiglia. Le centinaia di pagine che Jack compone con lucida follia, con il motto "Il mattino ha l’oro in bocca" (e che nella versione originale era "all work and no play make Jack a dull boy"), dichiarano fuor da ogni ragionevole dubbio che Torrance è completamente perso e irrimediabilmente dannato. Questa visione viene confermata dall’ironico finale che vede il protagonista, morto assiderato nel giardino del labirinto, fotografato in prima fila assieme a tutti gli altri spiriti dell’albergo. Torrance è ormai parte dell’Overlook, intrappolato in un sorriso sornione che lascia sgomento lo spettatore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La medesima riflessione è affrontata anche nel libro che si presenta, ad una prima lettura, come un tradizionale racconto di fantasmi, dove presenze diaboliche dominano la mente del protagonista che sceglie logicamente il suicidio finale come salvezza. Il romanzo sembrerebbe porsi, quindi, su un piano prettamente paranormale, ma l’analisi del blocco dello scrittore di fronte alla pagina bianca, tema ricorrente nei romanzi di King (autobiografici? Non si direbbe a giudicare dalla "prolificità" degli scritti!) oltre che una vera e propria patologia tipica e accertata, suggerisce che il protagonista, pur di rinnovare la propria creatività, decida di vendere la propria anima al diavolo.
Nel romanzo e nel film sono presenti poi, ma trattati con diversa attenzione, alcuni eventi secondari o satelliti: la rottura del braccio di Danny in seguito a un gesto accidentale di Jack che nel film è oggetto di una veloce battuta che Nicholson scambia con il barman. Nel romanzo, King gli dedica un intero capitolo, affidando a quell’evento la responsabilità del matrimonio ormai diretto verso il fallimento dei due genitori. «Lo schiocco secco dell’osso che si spezzava non era stato forte; e tuttavia era stato fortissimo, enorme, ma non forte (…) un suono simile a quello della mina di una matita che si spezzi o di un piccolo ramo secco spaccato sul ginocchio (…) la sua voce debole e farfugliante, impastata dall’alcool, che tentava di riacciuffare tutto ciò che gli era sfuggito, di trovare una strada per scavalcare quel suono non troppo forte dell’osso che si spezzava (…) ».
Chatman parla poi degli effetti di sorpresa e suspense dove per sorpresa si intende una sensazione di stupore di breve durata «una volta che se ne è andata, se ne è andato anche l’interesse». La suspense è, invece, «una curiosa mescolanza di dolore e piacere» che crea una sensazione di ansietà la quale si protrae a lungo. Entrambi i concetti si ritrovano nel romanzo e nel film: sia King sia Kubrick rendono con tragica ironia il maldestro tentativo di Wendy di fuggire con il gatto delle nevi preventivamente smontato in modo irreparabile dal marito. Nel secondo caso, King riesce a creare con una indubbia capacità di rapire il lettore, una tensione continua e crescente che sfocia nel finale, diegeticamente corretto e lineare, con il suicidio.
Kubrick, scontentando King, rielabora il lavoro trasformandone completamente il senso. Memorabili sono le immagini di Danny che esplora i corridoi dell’albergo. Ad ogni angolo, lo spettatore sobbalza aspettandosi un evento catastrofico, che non tarda ad arrivare. Tutto concorre a creare la tensione emotiva: i suoni che danno la sensazione di vuoto e di silenzio, le inquadrature dove la camera accentua la logica di progressione matematica con movimenti di macchina in avanti, indietro e laterali. Per non parlare poi delle raccapriccianti immagini di Jack che, brandendo un’ascia, si accanisce sulla porta del bagno dove Wendy si è rinchiusa, e ringhiando dice "Wendy, tesoro, sono a casa!".
Difficile dire, invece, se le visioni che Danny ha così di frequente siano considerabili come flashback: apparentemente sembrerebbero delle semplici sequenze, ma, ad uno sguardo più attento il flusso della storia risulta interrotto per lasciare spazio ad una sequenza anacronica che ci racconta ciò che è successo tempo prima nell’albergo. E’ chiaro che non si tratta di una retrospezione classica, ma il contenuto delle immagini porterebbe a pensare a una sorta di ritorno al passato. E’ fuor di dubbio, che alcune visioni del bambino (la porta con la scritta “redrum”, l’ascensore ecc) siano delle pure anticipazioni, confermate dagli eventi successivi. Esigono un’attenzione ulteriore alcune immagini iterative, che ricorrono spesso nel film, come il già citato ascensore che aprendosi lascia sfociare un’ondata di sangue. Strategia ejzensteiniana, utilizzata da Kubrick con maestria, per accentuare la sensazione di un epilogo catastrofico.
Nel romanzo, King si muove in modo quasi del tutto lineare, concedendosi talvolta qualche salto all’indietro per raccontare fatti accaduti tempo prima, funzionali ed essenziali al lettore per capire il perché di alcuni eventi. Da quando l’azione si sposta nell’albergo, però, sono assenti retrospezioni. Partendo dal presupposto che «la funzione principale dell’ambiente è di contribuire a rendere lo stato d’animo della narrativa» come sostiene Chatman, possiamo notare come gli spazi dell’Overlook Hotel permettano al regista di combinare, fin dalle prime immagini, le sensazioni di agorafobia e claustrofobia, prepotentemente presenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alla progressiva riduzione dello spazio e del tempo (montagne-albergo-labirinto e mesi-giorni-ore) corrisponde una dilatazione dello spazio e del tempo interiori dove la follia si manifesta attraverso i poteri paranormali di Danny, prima in Jack e poi in Wendy, passando attraverso il cuoco. Nel romanzo di King sono presenti una serie di strategie narrative quali il flusso di coscienza, il monologo interiore concettuale, il pensiero indiretto libero, che permettono al lettore di entrare meglio nel racconto e di frugare nella mente e nella psicologia dei personaggi.
«E’ me che devono volere… o no? Sono io il predestinato. Non Danny, non Wendy. Sono io quello che ama questo posto. Loro volevano andarsene. Sono io quello che ha sistemato definitivamente il gatto delle nevi… ha sfogliato i vecchi incartamenti… ha abbassato la pressione della caldaia… ha mentito… praticamente ha venduto l’anima». Più difficile stabilire se la sequenza realizzata da Kubrick, di Torrance seduto al bar che chiacchiera con il barman, sia effettivamente una sorta di monologo. Inizialmente, infatti, vediamo Jack inquadrato posteriormente che parla da solo seduto al bancone del bar e poi con una inquadratura frontale attraverso cui è possibile cogliere alcune espressioni del volto che ci confermano il progressivo accrescere della pazzia. Nell’inquadratura immediatamente successiva compare anche il barman e il monologo si trasforma in un dialogo tra due persone. Il pubblico sa che il barman è in realtà un fantasma, frutto della mente malata di Jack: come interpretare, dunque, questo dialogo? È forse un modo di Kubrick per interpellare più direttamente il pubblico? Per farlo entrare in questo meccanismo raccapricciante di cui Jack è già vittima? É sicuramente difficile attribuire un significato univoco a un’opera in cui ogni singola immagine, ogni sequenza lascia spazio a innumerevoli interpretazioni che si diramano nelle più svariate direzioni.
Tra le molteplici differenze individuabili nel raffronto tra romanzo e film mi soffermerei sul ruolo delle gemelle (uccise dal proprio padre, il guardiano precedente) che nel romanzo sono, sì, due bambine ma rispettivamente di otto e sei anni. La scelta di Kubrick lascerebbe pensare che egli voglia sottolineare ulteriormente la doppia personalità dei protagonisti e il loro rapporto con lo spettro. Il doppio è un tema ricorrente: le stanze dell’albergo, l’alter ego di Danny chiamato Tony "il bambino che vive nella mia bocca", la presenza degli specchi attraverso cui Wendy legge la parola “redrum” contrario di “murder”, la reincarnazione di Jack rintracciabile nell’ultima inquadratura, il patto con il diavolo rappresentato dal barman, il labirinto stesso (che peraltro nel romanzo non compare). Sono elementi che assicurano una giusta base di ambiguità nei rapporti tra immaginazione e reale e che accentuano il legame tra amore e morte caro al regista.
Diverso, nelle due opere anche il ruolo del narratore che nel romanzo di King è onnipresente e onnisciente, sa tutto ma non dice tutto. Egli si muove simultaneamente nella mente dei vari protagonisti, rivelandone i pensieri e le sensazioni, pur rimanendo relativamente nascosto. Esprime spesso dei giudizi e dà le sue interpretazioni ai vari fatti, ma non è possibile associarlo a nessuno dei personaggi principali. Nel film, l’assenza della voce fuori campo e la mancanza di un commento esterno alle immagini, rende difficile rintracciare da quale punto di vista sia narrata la storia. Si ha l’impressione che il tutto sia guardato con gli occhi di Jack, ma quando osserviamo Torrance di fronte al plastico del labirinto, in una sequenza molto intensa sia dal punto di vista narrativo che dal punto di vista figurativo, assistiamo al passaggio dal plastico al labirinto vero e proprio dove sua moglie e suo figlio, tentano di trovare una via d’uscita, ormai persi nei verdi meandri. Jack è, dunque, autore o spettatore?
E’ noto come King si sia riservato per questo film le critiche più astiose tra tutti i lavori tratti dai suoi romanzi mentre per molti Shining rimane il film horror per eccellenza. Trovo sia inefficace discutere su quale dei due testi sia più valido. Quello che è certo è che i due lavori hanno dato, pur essendo molto diversi tra loro, un grosso apporto alla letteratura e al cinema diventando un’icona del genere horror e ispirando gran parte delle produzioni successive. (Failù da arpnet.it)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Jack, sono a casa amore”.

 

“Was he a high school graduate?... A stupid man is more prone to cabin fever”. Con queste parole Jack Torrance, se è possible, risulta, nel romanzo di Stephen King da cui Stanley Kubrick ha tratto il suo “The Shining”, ancora più ottuso, gretto e “medio” di quanto il regista ci rappresenti nel suo film. Sono le parole che Jack, riferendosi al custode che fece a pezzi l’intera famiglia, pronuncia durante il colloquio col direttore dell’albergo Mr.Ullman. Jack, evidentemente, si sente superiore.
Mi ricollego ad alcune considerazioni di Franco La Polla per introdurre un’“ulteriore angolazione d’osservazione da aggiungere alle altre che la critica ha a suo tempo fornito, così da arricchire ciò che di interessante, giusto, acuto su Shining si è già detto”. L’Overlook Hotel, così evocante l’Haus Freudenberg (Berlino, Zehlendorf, 1907-1908) di Hermann Muthesius e fotocopia (consapevole!) delle foto di Ray Atkeson, è in sostanza “uno stesso luogo”. La montagna viene a coincidere con il “Centro del Mondo”, “axis mundi”, “dimora”. Questi concetti aprono a nuove possibili letture del testo filmico kubrickiano in cui presto vedremo come Wendy occupi un ruolo di tutt’altro che secondaria importanza.
“…l’installazione in un territorio…è tradizionalmente letta come fondazione di un mondo”. L’Overlook Hotel sorge su un cimitero indiano ed è già metafora di un’America luttuosa. Particolare apparentemente insignificante che assurge a leit motiv dell’intero film se facciamo attenzione alle parole della sceneggiatrice Diane Johnson: “voleva (Kubrick) che il film mostrasse una sorta di vendetta degli spiriti di questi Indiani sui bianchi”. Una casa (l’Hotel) giace su un’altra casa (quella dei defunti Nativi americani). Jack vuole esserne il custode, il capo, il padrone. E’ sicuro di sé durante il colloquio di lavoro, spavaldo, sfoggia le sue doti, o meglio velleità, di scrittore. Affiora lentamente l’immagine che un tale puerile atteggiamento possa assurgere a simbolo di un’intera cultura, quella statunitense, artefice del più grande genocidio della storia del mondo: quello subito dagli Indiani d’America e durato circa quattro secoli, dal 1492 al 1890. All’arrivo di Cristoforo Colombo gli Indiani si aggiravano intorno alle 850.000 unità. Oggi sono solo 50.000 circa.
Ecco allora il significato di quella toilette rossa in cui Jack e Mr.Grady conversano. Un monocromo di Yves Klein? Il colore puro è mezzo efficace per impedire una localizzazione precisa. Presenza e assenza. Corpi e spiriti. Pigmenti puri, brillanti, (“shining”), luccicanti, scintillanti, ode alla vita immateriale. Tanatografia. Caveau di corpi. Infinite antropometrie di kleiniana memoria. Resurrezione di miti e riti. Impronta mortale che è già promessa di una resurrezione. Jack è spettro, tragico emblema di colpe terrene (genocidio?). Questo fantasma attraversa costantemente la nostra esistenza (dalla costruzione dell’Hotel sul cimitero indiano), il ritorno fa affiorare inquietudini e misteri.
Wendy, durante il suo soggiorno all’Overlook, veste i panni di casa. L’abito da donna Sioux che indossa, si fonde con quanto le sta intorno: il cimitero indiano, la “casa” dei morti. E’ mimeticamente calata nella realtà del luogo. Il costume prende le forme di parte dell’arredamento. Milena Canonero, costumista, diventa in questo film concettualmente designer e gioca con la logica. Esaspera, rendendolo elegantemente naїf allo spettatore, il rapporto che esiste tra l’abito, il luogo del corpo e l’abitare. Inoltre, tale abbigliamento non trova assolutamente riscontro nel romanzo di Stephen King. E’ da ritenere quindi una precisa volontà registica, arricchita di forti significati simbolici, politici e culturali. Il romanzo ci descrive una Wendy in viaggio verso l’Overlook Hotel come: bionda con indosso un semplice abitino blu appena sopra il ginocchio. Kubrick invece, vestendola da Nativa, le conferisce profonde connotazioni di carattere non limitatamente estetico: Wendy diventa il simbolo di un’intera cultura sterminata, oltraggiata. Prossima a vendicare lo scempio subito dalla sua tribù, Wendy è più fantasma di Jack o Mr.Grady.
La cultura indiana vecchia centinaia, migliaia di anni, rivive in molti luoghi. Gli Indiani, i loro spiriti, possono farvi ritorno in qualunque momento. Wendy ci apre allo sconosciuto mondo delle coraggiose donne Sioux come Mary Crow-Dog che ricorda la cognata Delphine uccisa dalle truppe governative statunitensi e ritrovata morta nella neve, le lacrima ghiacciate sul volto, lasciata morire nella tormenta. Su un’area di un paio di chilometri quadrati c’erano quarantotto corpi congelati, tutti in posizioni spettrali. Il fatto che Kubrick faccia morire Jack, simbolo della cultura statunitense, nello stesso modo in cui furono ritrovati i Nativi assassinati, fa pensare a una voglia di rivalsa, a un non voler dimenticare. E’ Wendy (donna Sioux) che permette questo: mettendo in salvo Danny dall’ascia del padre, l’averlo educato(lei e solo lei!) al labirinto (così simile alla moquette-labirinto-playground su cui gioca il piccolo che Kubrick “ruba” a David Hicks e ai suoi wallpaper-hexagon prodotti dallo storico tappezziere inglese Cole&Son nel 1950-1960) ed essendosi personalmente occupata della sua crescita.
Ancora una volta, come ho gia’ avuto modo di dimostrare in un precedente studio su “Barry Lyndon”, il protagonista maschile Jack, risulta “limitato”: lo vediamo intento a “partorire” un romanzo e contemporaneamente incapace di portare a termine quest’unico compito. E’ totalmente privo di risorse. Non dimentichiamo le parole di Mr.Grady quando si rivolge a Jack imprigionato dalla moglie Wendy nella dispensa: ”…sua moglie, mi pare, è più forte di quanto avessimo immaginato…forse ha più risorse, sembra più forte di lei…”. Esplicito omaggio del regista alla femminilità. Wendy, solo apparentemente fragile, è in fondo colei che si occupa costantemente, e con grande equilibrio emotivo, del figlio. E’ lei che prepara la colazione, che si occupa di controllare le caldaie e tenere i rapporti radio con l’esterno nel duro inverno che li isola dal resto del mondo. Il fumo di quella sigaretta richiama a livello ancestrale ai segnali di fumo con cui comunicavano i Nativi. Jack è invece unicamente interessato al suo lavoro. Incapace di portare a termine il romanzo si sentirà un fallito. E’ dimostrata la sua totale mancanza di risorse, dote invece tipicamente femminile che Kubrick non tarda ad omaggiare.
Quell’uscita di Danny dalla stretta finestrella del bagno, aiutato, spinto da Wendy, sa tanto di parto, a vendicare tutti i Nativi mai nati a causa delle isterectomie non autorizzate, operate indiscriminatamente dai medici statunitensi sulle donne Sioux, come ci ricorda Mary Crow-Dog nel suo libro. L’aggressività manifestata (e negata!) in percosse corporali da parte di Jack verso Danny, non farebbe che rievocare le molestie che subivano i piccoli Indiani presso la missione St.Francis. Il costruire un albergo di lusso su un cimitero indiano non è che opera di profanazione di un luogo sacro. La montagna è stata mercificata. Tipico segno dell’uomo “civilizzato”. Oggigiorno il clima equatoriale ne ha disseppellito i suoi morti. Wendy è finalmente libera di riempire abiti che le appartenevano da sempre. Sotto la spessa coltre di neve che avvolge per molti mesi l’anno l’Overlook Hotel, la minuscola scintilla delle antiche credenze Sioux continua a brillare, quel “piccolo luccichio sotto la neve”.
Jack non ha ancora compreso di essere nel “regno senza tempo della Donna”, accentratrice di energie archetipiche universali, coscienza della totalità. Tanto perché lo spettatore non abbia dubbi, Kubrick fa ricordare a Jack, in auto con la famiglia verso l’Overlook, l’evento “spedizione Donner”. Jack diventa il portavoce dei fatti che si svolsero nella Sierra Nevada nell’inverno 1846-47 durante la conquista del West americano: la spedizione coi carri coperti capeggiata dalla famiglia Donner, partita da Springfield, Illinois, nell’aprile 1846 fu bloccata dalla neve. Per sopravvivere dovettero nutrirsi della carne dei compagni deceduti. Gli statunitensi vivono questo evento storico come orgoglio nazionale non ricordando, anzi, cercando di far cadere nell’oblio, che la migrazione verso Ovest ha significato l’annullamento della civiltà dei Nativi.
La pazzia che colpisce Jack nell’Overlook Hotel potrebbe allora essere la pena inflittagli collegata alla credenza che vide uomini e donne della spedizione Donner impazzire per aver mangiato carne umana. Halloran, il cuoco di colore porta lo stesso nome del secondo colono americano che perì lungo la strada, preludio agli episodi di cannibalismo. Sarcastico binomio, immagine insopportabile per crudeltà e allusività che Kubrick velatamente mostra. Mr.Grady, il custode pluriomicida-suicida, sterminò la famiglia con l’ascia(tomahawk !), simbolo indiano e si uccide con la pistola, emblema della cultura americana.
Danny veste maglioncini con idilliache icone Usa (Micky Mouse, l’Apollo...) a ricordarne la potenza mediatica, politica e scientifica. Felicità e serenità solo apparenti: lui, l’ “agnello” sacrificale, ha sangue Sioux nelle vene e “vede” lo scempio (gemelle mutilate/genocidio Nativi), comunica con il luogo, con i suoi fantasmi. La foto finale che porta la data del 4 luglio, assume in questo contesto significati allusivi, ironici: “…un epitaffio sulla falsa festa d’Indipendenza americana, di un paese considerato da Kubrick luogo di spettri e di sdoppiamenti”.
E se allora guardassimo con più attenzione ai titoli di testa: riprese aeree maestose che insieme alla colonna sonora fanno presagire eventi funesti. Versione dissacratoria, volutamente, del più noto serial televisivo conosciuto in Italia con il titolo “Alla conquista del West”, in quegli anni distribuito e conosciutissimo (vero tormentone mediatico) in tutto il mondo. Kubrick sembra davvero aver voluto emulare tale sigla, ribaltandone completamente la prospettiva: sarà Wendy a tornare a casa e a cacciare l’uomo-colono-invasore Jack…per sempre…per sempre…per sempre… . (Laura Matiz)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Credo che l'unica legge valida per questo genere sia che non si debba cercare di spiegare o trovare spiegazioni chiare per quello che succede, e che l'obiettivo fondamentale sia di produrre nel pubblico una sensazione di mistero.
La sensazione di mistero è l'unica che si vive con maggior intensità nell'arte che nella vita.

 

Stanley Kubrick