Febrar 2017. Pour finir avec l’espèce humaine.
Dedico “el mestée del mes” a uno scritto di Pierre Drachline, scritto sul quale evito ogni commento lasciando “provocatoriamente” considerazioni e riflessioni al lettore. Prologo al testo è “L’urlo” di Munch, mentre ne è epilogo un blues, per rammentare che pittura, letteratura e musica, purché di ottima fattura e intrigante sostanza sono il sale della vita.
Un’emorragia indolore. La disfatta degli anni mi ha allontanato da quello che pretendevo d’essere. Gli specchi hanno abbandonato ogni compiacimento. Invecchiare significa non sfuggire più alla propria immagine. Ostento ormai la maschera del mio cadavere.
Mi sono stancato di quasi tutto, da buffone inconsapevole. La lavagna, senza essere magica, cancellava da sé le mie smentite e rinunce. Il mio tracollo sarà stato il mio unico eccesso di velocità. Ma alleggerirsi delle proprie disillusioni non riconcilia con gli altri. Al contrario!
La misantropia non è una scelta o una postura. Ma una ovvietà. Una esigenza dell'amarezza. Questo capitale, non ho mai smesso di farlo fruttare. Vero è che i miei contemporanei sono stati esemplari. Hanno reso fertile questo deserto. Non è passato giorno senza che io non avessi di che rallegrarmi della loro mediocrità. Tutte le classi sociali mescolate. Una piramide di letame.
Il cinismo si è imposto rapidamente come una necessità per l'apprendista impostore che ero. Mi è servito a nascondere l'odio che rodeva perfino i miei sorrisi di piccolo truffatore quotidiano. Distillavo i miei veleni sotto un’acida ironia. Le vittime ne avrebbero voluti di più. Come pulcini in attesa dell'imbeccata. Alcuni, i più cretini, si stupivano che io non avessi preso in considerazione l’ipotesi di impegnarmi nella politica politicarda. «Governare scimmie! Che infamia!». Questa risposta, che non ho mai cambiato, ha strappato loro dei ghigni. Non uno vi ha visto l'espressione del mio disgusto per la specie umana.
I popoli privi di guerra sul loro suolo si consolano con le competizioni sportive. Disprezzo queste fiere del sudore e non faccio distinzioni fra competitori dilettanti e professionisti. Il peggio sono gli spettatori. Volgo così avido di spettacoli che verrebbe facilmente soddisfatto da quei giochi circensi dove tutte le scommesse sono possibili. Inoltre, chi non ha sognato in segreto di ruotare in basso il pollice come un imperatore romano per decretare una messa a morte? Il lancio di borghesi nella fossa dei leoni è il mio preferito. Povere belve costrette a mangiare bio!
Tutto può diventare possibile sotto questo tendone di Barnum: combattimenti fra disoccupati in cerca di impiego, fra solitari in mancanza di compagnia, fra poveri a secco di rivolta. Tutti gli umani sono disposti ad essere raccolti. Soli o alla rinfusa.
Non è più l’esca del guadagno a rodere il cuore degli uomini, ma il gusto della mancia. Lavorare o entrare in agonia. Quale differenza? Ogni secondo spogliato o venduto è irrecuperabile. Perso per sempre. L’oscenità chiamata «interessamento del personale per i benefici dell’impresa» non è che il dividendo della perdita di sé. Un’umiliazione in più.
Undici pallottole più una a salve. Il sopravvissuto al plotone di esecuzione saccheggerebbe le messe dei suoi defunti partner. Per gli appassionati di intimità, il ricorso alla roulette russa rappresenterebbe una soluzione confortevole. Meno un’esistenza è autonoma, più si impone l’obbligo di comprare ricordi collettivi. Gli oggetti d’antiquariato della memoria.
Non bisogna mai proibirsi di spigolare nel vocabolario del nemico, foss’anche sportivo. Così, mi considero oggi sul punto di beffare le sospensioni del gioco o il prolungamento di una competizione persa dalla nascita. Non saprei spiegare perché mi sono concesso tanti rinvii successivi all’esecuzione. Solo in scena, non ho avuto tuttavia alcun richiamo da un pubblico immaginario.
Questo fine percorso mi permette tutte le libertà. Non ho più alcuna precauzione da prendere con chicchessia. Leggero e libero come non sono mai stato prima. Finalmente l'ho fatta finita con la viltà e l'ipocrisia. Stampelle di ogni uomo che si muove nella melma sociale. Ormai il risentimento mi tiene caldo al cuore. Lo sento battere, questo vecchio muscolo inutile. La rabbia trasuda da ogni poro della mia pelle. Chiunque diventa un bersaglio consegnato al mio piacere. Prima distruggere, poi pensare. Ce ne ho messo di tempo per diventare un selvaggio!
La parola deve essere terrorista. Tra il grido e il silenzio, non c'è nulla. Solo aliti fetidi che, a forza di rutti e scoregge, instaurano la dittatura della normalità. Del numero. Come definire una tale oppressione? Le parole perdono la loro innocenza sotto gli stivali della massificazione. Sono condannate a scomparire nella polvere.
Il vocabolario si riduce come la pelle di zigrino. Non può essere altrimenti. Per gli intrallazzi commerciali o sessuali degli umani, un cinguettio onomatopeico sembra quasi di troppo. Guardateli! Non si parlano più. Comunicano tra loro per mezzo delle loro protesi informatiche. Ostentano allora una beatitudine quasi mistica. La sensazione di esistere li sommerge. Per un attimo, ne diventerebbero guerrieri. Marciano col passo dell'oca in testa. Moltitudine il cui infinito si perde oltre l'orizzonte.
Sopravvissuto mio malgrado, ritorno da lontano. Il mio bisogno di consolazione era tale che a lungo ne sono stato vittima. Innamorato di una grande sera posseduta da altri, ho conosciuto il disamore di albe biancastre.
Le fogne seguono il tracciato delle strade. I rivoluzionari o presunti tali di oggi sono le pallide copie di quelli che pretendono di combattere. Testa o croce, il medesimo lerciume ricopre gli spiccioli. Il principio d’imitazione porta i miserabili a scimmiottare in modo grottesco manie e ridicolaggini dei ricchi. Questi ultimi, che hanno rinunciato ad ogni verniciatura culturale, sono così tolleranti da accettare volentieri l’omaggio del numero. A condizione beninteso che i bisognosi sappiano rimanere a distanza. Il meticciato sociale, forse anche limitato alle apparenze, è diventato intollerabile ai possidenti. Questione di odorato, probabilmente!
Offrire la propria volgarità in condivisione non costa nulla ai fortunati. Da qui la loro generosità! I benestanti soffrono di una dipendenza alla gratuità. Sono posseduti dall’ossessione di accumulare ancora e ancora… Bulimici insaziabili, non sono mai pieni abbastanza. Nei ricconi, è il cervello a venire ricoperto di grasso. Beate le oche che sacrificano solo il loro fegato! Se fossi meno delicato, aprirei la volta cranica di un capitalista per consumarne il cervello col cucchiaino. Fino alla nausea liberatrice!
La Falciatrice, lei, non si lascia corrompere dalla modernità. La sua imparzialità ed il suo internazionalismo sono senza pecche. Né la vista, né l’olfatto, né l’udito, né il gusto, né il tatto possono influenzare il suo appetito. Falcia tutti i fiori -anche quelli appena sbocciati- alla sua portata. Orchidee o papaveri, rose o fiordalisi, non discrimina le eleganze. Qualsiasi carcassa soddisfa la sua indifferenza. Le fiamme di un crematorio o i vermi festosi in una carogna condividono la sua volontà di egualitarismo. La morte è il comunismo infine compiuto.
La mia si avvicina. Scivola sotto la mia pelle e la buca. La sento in fondo ai miei soffocamenti. Abita questa pesantezza d’esistere in cui non mi perdo più. Mi piacerebbe che assumesse i tratti della singolarità che mi ha insegnato a colorare i giorni di rabbia.
Senza sovversione del reale, nulla è possibile.
Morire? Un obbligo dopo tanti altri. Né più né meno. L’istante magico in cui i sordi non si capiscono più. Sarei dispiaciuto solo nel non vedere più quelle e quelli che definisco la mia guardia di scorta. Suicidi, incidenti e malattie hanno decimato le loro fila. Hanno bei volti, le mie ultime barricate umane. Così differenti gli uni dagli altri. Le loro insolenze e i loro sogghigni fanno eco ancora oggi alle mie capriole verbali.
Alcuni conformisti dalle idee fisse mi hanno rimproverato un uso smodato di cattiva fede. I miei fraterni compari, al contrario, lo apprezzano per ciò che è. Un rifiuto delle ovvietà. Una confutazione di ogni morale. Un calcio in faccia al politicamente corretto. Questa infezione che pretende di sottomettere gli individui alla regola comune.
Ormai, gli iloti ambiscono a morire in buona salute. Una mutanda sulla testa, l’altra sul culo. Da una materia fecale all’altra, tutte le fragranze mescolate, sono un incitamento al vegetarianismo. Non meritano nemmeno di essere finiti a colpi di tallone.
La peggiore delle punizioni è durare.
Ovviamente, orgoglio oblige, non mi sarebbe dispiaciuto finire il mio viaggio sotto forma di malattia contagiosa. Essere l’origine di una pandemia! Non conosco ambizione più bella. La legittima difesa di un assediato. Non sono già sei o sette miliardi?
Mi capita talvolta, per disperazione di causa, di desiderare che si compia una delle strambe profezie dei piscia-freddo del catastrofismo. La concorrenza è accanita, perfino implacabile, fra questi pelandroni. Sta a chi sbraiterà più forte. La paura fa audience. Non è l’anticamera delle viltà collettive? Osservo questi insetti da lontano con un tedio da entomologo.
Gli uni si agitano per il surriscaldamento climatico, gli altri guaiscono sul buco dell’ozono. Certuni svengono davanti all’evocazione di incidenti nelle centrali nucleari. Alcuni, più classici, sono adepti dei valori sicuri. Terremoti, tornado, uragani, monsoni. Mi fermo qui. Una lista esaustiva sarebbe fastidiosa. Al palmares delle pubbliche imbecillità, i posti si vincono a forza di indignazione.
Una menzione tuttavia va a una setta di deliranti poco o tanto scientisti. Finiranno per entrare nella leggenda dei popoli come Tristano e Isotta, Penelope e Ulisse. Per di più comici? Il loro amore non ha nome, né volto né passato. Gli dedicano un culto esclusivo. Lo temono tanto quanto lo desiderano.
L’oggetto della loro ebbrezza collettiva è l’asteroide sconosciuto la cui caduta sul pianeta provocherà la fine della nostra civiltà. Inutile proporre loro di chiamarlo Adolf. La loro fifa li priva di ogni humour. A corto di argomenti, chiamano in aiuto al loro delirio l’annientamento dei rimpianti dinosauri. A quando l’inaugurazione di una stele in memoria della meteora ignota che ha partecipato alla fine del regno sulla terra di questi sauriani?
Proverei una qualche colpevole indulgenza per questi strampalati se essi concedessero come minimo che l’avvento della supremazia umana sulle altre specie animali è stato un disastro a null’altro paragonabile. Tutti gli sforzi dell’uomo, tutta la sua immaginazione non sono serviti in definitiva che alla barbarie. L’industrializzazione dei massacri nel corso di due conflitti mondiali è da portare a suo credito.
La prossima tappa dovrebbe essere la psichiatrizzazione generalizzata. Corona della globalizzazione. Nessuna testa svetterà più. Le erbe cattive saranno trattate con la chimica. Lobotomia per tutti!
Al gran ballo degli scheletri, carnefici e vittime danzano il girotondo dei secoli. È tempo di stilare il bilancio della specie umana. Non c’è bisogno di un curatore fallimentare. Non ci sarà nulla da ricostruire.
La mia opinione è disinteressata. L’atto gratuito per eccellenza. Non ci sarò più al momento della felice conclusione. Le mie ceneri saranno state disperse da tempo. Possa il vento divertirsi con esse. (Pierre Drachline, 2013)
Have you ever loved a woman?
Staples Center, Los Angeles, 2001
Eric Clapton, guitars and vocals
Nathan East, bass
Andy Fairweather, guitars
Billy Preston, hammond organ and keyboards
David Sancious, keyboards
Steve Gadd, drums