Mars 2017. Sebben che siamo donne.
A Giorgia. 2011. Tecnica mista: mattoni, smalti, acrilici su legno.
Poiché sono donna, nessuno, più di me,
conosce il silenzio del tempo che muta,
le parole del conforto, il dolore dell’abbandono.
So della caducità della vita e dell’illusione dell’apparenza,
ma intuisco più di altri l’eternità
di un gesto compiuto nella bellezza.
Poiché sono donna,
porto su di me il peso dei reietti,
e di tutti coloro che in ogni epoca furono emarginati.
Sul mio viso si scorgono ancora
le sofferenze delle donne che mi hanno preceduto.
Nel mio grembo, la pienezza di tutte coloro che hanno procreato.
Poiché sono donna, so cos’è il dono.
E ho imparato, nel tempo, a vivere nella sua dimensione.
Raramente sono stata ascoltata, più spesso osservata
con brama, con sospetto, con disprezzo,
con risoluta indifferenza.
La mia voce dice di voci mai considerate.
La mia penna di menti che, per loro natura e per la propria diversità,
non sono state comprese.
Poiché sono donna sogno,
e sognando sperimento l’esistere di differenti creazioni.
Nella mia complessità nutro in silenzio
il seme del caos da cui proveniamo
e che non potrò mai, poiché sono una donna,
fingere di non aver avvertito.
Giorgia Vezzoli
“El mestée del mes” è destinato alla donna. Alla donna rappresentata dall’8 marzo, o meglio da come dovrebbe esserne rappresentata dato il significato del giorno. Sono stato indotto alla scelta dall’aver ritrovato nei meandri del web una raccolta di tre manifesti/documenti del femminismo degli anni 1966-1971, riportati con una premessa introduttiva di Sisa Arrighi.
Quando Simone de Beauvoir nel 1949 pubblicò il “Secondo Sesso” Betty Friedan ci racconta che il saggio le provocò una profonda depressione. Era alle prese col suo ruolo di moglie, madre di tre figli e l’ambizione di lavorare in campo universitario. Quel libro però, il primo del dopoguerra a riprendere il filone femminista di fine ‘800 e del primo ‘900, fece maturare in lei quella riflessione che la portò a denunciare “La mistica della femminilità” (1953), la trappola in cui erano di nuovo cadute le donne dopo quel movimento cosiddetto ‘suffragista’ che aveva segnato la prima parte del secolo soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra. Nonostante i contatti internazionali e lotte importanti in altri paesi (Svezia e Norvegia) non si trattò allora di un movimento internazionale. In Italia, quei fermenti furono messi a tacere con l’avvento del fascismo.
Il libro/denuncia della Friedan ebbe un immenso successo e diffusione e si può considerare il primo di una serie di importantissimi contributi che segnano l’inizio e accompagnano il nuovo femminismo della fine degli anni ’60 e inizio ’70. Questa volta il movimento si diffuse con grandissima rapidità (erano ovviamente cambiati anche i media informativi) si può dire che nel 1970 aveva toccato tutti i paesi del cosiddetto mondo capitalistico avanzato.
Sono passati quasi 50 anni da quella entusiasmante stagione e vogliamo riproporre per una riflessione (considerati i tempi che stiamo vivendo) alcuni dei manifesti/documenti che furono prodotti e distribuiti in Italia in quegli anni, coinvolgendo e contribuendo alla presa di coscienza di tante donne, nel caso del DEMAU precorrendo decisamente i tempi.
Quello che ci colpisce ancora oggi è l’originalità e l’audacia di quelle elaborazioni. Dietro, come sappiamo, c’era la pratica del piccolo gruppo e dell’autocoscienza.
Manifesto programmatico del Gruppo DEMAU.
Milano 1966.
Il Gruppo DEMAU (Demistificazione Autoritarismo) agisce al di fuori di qualsiasi tendenza politica e religiosa. Ritiene che, nel momento presente e in questo tipo di società la partecipazione e il contributo della donna siano indispensabili per un rinnovamento dei valori umani attualmente distribuiti e basati sull’appartenenza all’uno o all’altro sesso.
Il Gruppo si basa in sintesi sui seguenti punti programmatici:
1° Opposizione al concetto di integrazione della donna nell’attuale società.
Tale concetto, nella sua accezione corrente infatti:
a) non risolve l’inconciliabilità dei due ruoli prefissati dalla divisione dei compiti tra uomo e donna, permettendone la coesistenza forzata nelle sole donne;
b) se da una parte intende liberare la donna dai legami di tipo pratico del suo ruolo tradizionale, per darle la possibilità di partecipare attivamente al mondo della cultura e di agire nel campo del lavoro, dall’altra riconferma nell’ambito della società ed alla donna stessa, le caratteristiche e i doveri del suo ruolo « femminile» proprio nella misura in cui rivolge a lei sola trattamenti e accorgimenti di favore;
c) tende ad uniformare e integrare la donna al «regime sociale» in atto e lo riconosce così ancora e operante per entrambi i sessi.
2° Demistificazione dell’autoritarismo, nella sua veste di teoria e mistica dei valori morali, culturali e ideologici sui quali si basano l’attuale divisione dei compiti e la società tutta, quale elemento coercitivo dei valori individuali e restrittivo dei diritti, delle esigenze, delle potenzialità umane a favore di gruppi privilegiati.
Demistificazione di tali valori quindi;
a) nella sfera dei diritti;
b) nella sfera dei rapporti sessuali e dell’etica relativa;
c) nella sfera dei conflitti di ruolo nei rapporti familiari e sociali in genere;
d) nella sfera dell’educazione, dell’istruzione e delta cultura;
e) nella sfera dell’attività lavorativa, della produzione intellettuale e scientifica;
f) in sede di teorizzazione di tipo scientifico.
Ricerca quindi di nuovi valori inerenti a tutto il sistema dei rapporti.
3° Ricerca di un’autonomia da parte della donna, attraverso una cosciente valutazione dei propri valori essenziali e della propria situazione storica. Solo così la donna potrà partecipare all’elaborazione dei valori che informeranno una nuova società.
Tale ricerca presuppone una nuova e più ampia metodologia di indagine sulla posizione della donna; che non la consideri cioè solo nell’aspetto storico-evoluzionistico di «condizione femminile ».
Uno studio basato sul condizionamento in un ruolo sociale ideologicamente prefissato, che non consideri la donna anche come oggetto e soggetto autonomo di analisi, sarebbe un’impostazione insufficiente per una ricerca che si propone di trovare direttive e finalità nuove.
Infatti:
1. lo studio del «condizionamento» porterebbe alla scoperta degli antidoti, nel loro aspetto di antitesi pura e semplice, allo status quo;
2. la finalità insita nell’antitesi è il rovesciamento della condizione di fatto;
ciò potrebbe significare soltanto:
a) lotta per la supremazia sul maschio (dittatura rovesciata – nuovo matriarcato ) o
b) mascolinizzazione della donna (convalida dei modelli culturali attuali).
4° Emancipazione dell’uomo.
In quanto il maschio è a sua volta privato di vaste possibilità umane.
Come la donna non ha raggiunto la propria maturità senza conquistare a sé valori finora negatili, così l’uomo non possiederà sufficienti strumenti di giudizio e comprensione se non conquisterà quelli da lui finora disprezzati, o invidiati, come « femminili ».
Anche l’uomo, inoltre, di fronte all’emancipazione femminile, si potrà trovare in situazioni di sfruttamento e squilibrio.
Il Gruppo svolge la propria attività attraverso i seguenti mezzi:
1)Esame di tutte le teorie dalle quali si possa, con criterio scientifico, evincere una definizione della donna oggi, base essenziale su cui costruire una proposta per prospettive future:
a) biologia-fisiologia. Le più recenti scoperte e tecniche in questo campo paiono destinate a cambiare le conseguenze di « leggi» finora ritenute assolutamente operanti;
b) antropologia comparata, per verificare la relatività delle strutture caratteriali in dipendenza dell’influsso ambientale (sociale) e le sue conseguenze culturali in senso lato;
c) esame di alcune analisi dei contenuti mitologici, legati anche a interpretazioni di tipo psicanalitico;
d) psicanalisi, quale elemento interpretativo dell’uomo, rifiutando il pericoloso sviluppo reazionario della sua funzione integratrice dell’individuo in una astoricità e fissità precosciente;
e) sociologia;
f) pedagogia;
g) psicologia.
2)Azione di sensibilizzazione e vasta diffusione della problematica esposta nel presente manifesto attraverso:
a) propaganda capillare;
b) dibattiti pubblici e a mezzo di stampa delle questioni esposte nei punti programmatici;
c) contatti e proposte e collaborazione con tutte le associazioni, femminili e non, i centri culturali, le associazioni sindacali, professionali, studentesche, i partiti, le personalità che si interessino ai problemi proposti dal gruppo.
Manifesto di RIVOLTA FEMMINILE.
Documento affisso dalle donne di Rivolta Femminile nelle strade di Roma e di Milano.
Roma, Milano 1970.
Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico? (Olympe de Gouges, 1791)
La donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà.
L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna.
La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli.
Identificare la donna all’uomo significa annullare l’ultima via di liberazione.
Liberarsi, per la donna, non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell’esistenza.
La donna come soggetto non rifiuta l’uomo come soggetto, ma lo rifiuta come ruolo assoluto. Nella vita sociale lo rifiuta come ruolo autoritario.
Finora il mito della complementarità è stato usato dall’uomo per giustificare il proprio potere.
Le donne sono persuase fin dall’infanzia a non prendere decisioni e a dipendere da persona «capace» e «responsabile»: il padre, il marito, il fratello…
L’immagine femminile con cui l’uomo ha interpretato la donna è stata una sua invenzione.
Verginità, castità, fedeltà non sono virtù; ma vincoli per costruire e mantenere la famiglia. L’onore ne è la conseguente codificazione repressiva.
Nel matrimonio la donna, priva del suo nome, perde la sua identità significando il passaggio di proprietà che è avvenuto tra il padre di lei e il marito.
Chi genera non ha la facoltà di attribuire ai figli i1 proprio nome: il diritto della donna è stato ambito da altri di cui è diventato il privilegio.
Ci costringono a rivendicare l’evidenza di un fatto naturale.
Riconosciamo nel matrimonio l’istituzione che ha subordinato la donna al destino maschile. Siamo contro i1 matrimonio.
Il divorzio è un innesto di matrimonio da cui l’istituzione esce rafforzata.
La trasmissione della vita, il rispetto della vita, il senso della vita sono esperienza intensa della donna e valori che lei rivendica.
Il primo elemento di rancore della donna verso la società sta nell’essere costretta ad affrontare la maternità come un aut-aut.
Denunciamo lo snaturamento di una maternità pagata al prezzo dell’esclusione.
La negazione della libertà dell’aborto rientra nel veto globale che viene fatto all’autonomia della donna. Non vogliamo pensare alla maternità tutta la vita e continuare a essere inconsci strumenti del potere patriarcale.
La donna è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante.
In una libertà che si sente di affrontare, la donna libera anche il figlio, e il figlio è l’umanità.
In tutte le forme di convivenza, alimentare, pulire, accudire e ogni momento del vivere quotidiano devono essere gesti reciproci.
Per educazione e per mimesi l’uomo e la donna sono già nei ruoli nella primissima infanzia.
Riconosciamo il carattere mistificatorio di tutte le ideologie, perché attraverso le forme ragionate di potere (teologico, morale, filosofico, politico), hanno costretto l’umanità a una condizione in autentica, oppressa e consenziente.
Dietro ogni ideologia noi intravediamo la gerarchia nei sessi. Noi vogliamo d’ora in poi tra noi e il mondo nessuno schermo.
Il femminismo è stato il primo momento politico di critica storica alla famiglia e alla società.
Unifichiamo le situazioni e gli episodi dell’esperienza storica femminista: in essa la donna si è manifestata interrompendo per la prima volta il monologo della civiltà patriarcale.
Noi identifichiamo nel lavoro domestico non retribuito la prestazione che permette al capitalismo, privato e di stato, di sussistere.
Permetteremo ancora quello che di continuo si ripete al termine di ogni rivoluzione popolare quando la donna, che ha combattuto insieme con gli altri, si trova messa da parte con tutti i suoi problemi?
Detestiamo i meccanismi della competitività e il ricatto che viene esercitato nel mondo dalla egemonia dell’efficienza. Noi vogliamo mettere la nostra capacità lavorativa a disposizione di una società che ne sia immunizzata.
La guerra è stata sempre l’attività del maschio e il suo modello di comportamento virile.
La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un’altra cosa. Ci basta la parità salariale quando abbiamo già sulle spalle ore di lavoro domestico?
Riesaminiamo gli apporti creativi della donna alla comunità e sfatiamo il mito della sua laboriosità sussidiaria.
Dare alto valore ai momenti « improduttivi » è un’estensione di vita proposta dalla donna.
Chi ha il potere afferma: «Fa parte dell’erotismo amare un essere inferiore ». Mantenere lo status quo è dunque un suo atto di amore.
Accogliamo la libera sessualità in tutte le sue forme, perché abbiamo smesso di considerare la frigidità un’alternativa onorevole.
Continuare a regolamentare la vita fra i sessi è una necessità del potere; l’unica scelta soddisfacente è un rapporto libero. Sono un diritto dei bambini e degli adolescenti la curiosità e i giochi sessuali.
Abbiamo guardato per 4.000 anni: adesso abbiamo visto!
Alle nostre spalle sta l’apoteosi della millenaria supremazia maschile. Le religioni istituzionalizzate ne sono state il più fermo piedistallo. E il concetto di « genio» ne ha costituito l’irraggiungibile gradino.
La donna ha avuto l’esperienza di vedere ogni giorno distrutto quello che faceva.
Consideriamo incompleta una storia che si è costituita, sempre, senza considerare la donna soggetto attivo di essa.
Nulla o male è stato tramandato della presenza della donna: sta a noi riscoprirla per sapere la verità.
La civiltà ci ha definite inferiori, la Chiesa ci ha chiamate sesso, la psicanalisi ci ha tradite, il marxismo ci ha vendute alla rivoluzione ipotetica.
Chiediamo referenze di millenni di pensiero filosofico che ha teorizzare l’inferiorità della donna.
Della grande umiliazione che il mondo patriarcale ci ha imposto noi consideriamo responsabili i sistematici del pensiero: essi hanno mantenuto il principio della donna come essere aggiuntivo per la riproduzione della umanità, legame con la divinità o soglia del mondo animale sfera privata e pietas. Hanno giustificato nella metafisica ciò che era ingiusto e atroce della vita della donna.
Sputiamo su Hegel.
La dialettica servo-padrone è una regolazione di conti, tra collettivi di uomini: essa non prevede la liberazione della donna, il grande oppresso della civiltà patriarcale.
La lotta di classe come teoria rivoluzionaria sviluppata dalla dialettica servo-padrone, ugualmente esclude la donna. Noi rimettiamo in discussione il socialismo e la dittatura del proletariato.
Non riconoscendosi nella cultura maschile, la donna le toglie l’illusione dell’universalità.
L’uomo ha sempre parlato a nome del genere umano, ma metà della popolazione terrestre lo accusa ora di aver sublimare una mutilazione.
La forza dell’uomo è nel suo identificarsi con la cultura, la nostra nel rifiutarla.
Dopo questo atto di coscienza l’uomo sarà distinto dalla donna e dovrà ascoltare da lei tutto quello che la concerne.
Non salterà il mondo se l’uomo non avrà più l’equilibrio psicologico basato sulla nostra sottomissione.
Nella cocente realtà di un universo che non ha mai svelato i suoi segreti, noi togliamo molto del credito dato agli accanimenti della cultura. Vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte.
Noi cerchiamo l’autenticità del gesto di rivolta e non la sacrificheremo né all’organizzazione né al proselitismo.
Documento di CERCHIO SPEZZATO.
Documento apparso nella forma di ciclostilato e distribuito a Trento nell’Università, dove in seguito si è tenuta un’assemblea tra i gruppi femminili (Cerchio Spezzato) e i gruppi del movimento studentesco trentino.
Trento 1971.
Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna.
Noi siamo un gruppo di compagne che più o meno hanno vissuto tutte in prima persona l’esperienza politica del movimento studentesco e dei successivi gruppi politici che rappresentano un superamento del movimento stesso. Come per un gran numero di studenti in generale, è stata questa l’esperienza che ci ha posto di fronte la prospettiva concreta e la possibilità di rovesciare un sistema sociale fondato sull’oppressione e sullo sfruttamento. Ma noi, non solo come studentesse, ma in quanto donne, avevamo affidato molto di più a questa prospettiva di liberazione; nel medesimo tempo ci eravamo illuse che il gruppo politico, l’agire da militante, fosse un mezzo per porre fine ad una ulteriore e precisa discriminazione che passa all’interno della società capitalistica: l’oppressione dell’uomo sulla donna. Ci siamo illuse che automaticamente la presa di coscienza generale dell’oppressione di classe ci ponesse di fronte ai problemi allo stesso modo dei compagni. Questa illusione è stata smentita dalla pratica politica e dall’esperienza. Non c’è uguaglianza tra disuguali: una disuguaglianza fondata su basi materiali precise e che dà all’oppressore strumenti di potere non può essere superata dalla « buona volontà ».
I gruppi di lavoro politici hanno riverificato la nostra sistematica subordinazione: noi siamo « la donna del tal compagno », quelle di cui non si conoscerà mai la voce, limitate al punto di arrivare a crederci realmente inferiori. L’analisi delle assemblee ci ha portato a vedere una elite di leaders, una serie di quadri intermedi maschili e una massa amorfa composta dal resto maschile e da tutte le donne. Spesso la compagna è l’oggetto su cui il compagno riversa tutte le frustrazioni che accumula all’interno della società borghese e nello stesso movimento politico; per cui la donna, oltre ad assorbire le contraddizioni del maschio e a dare il suo contributo nell’unico modo in cui esso è accettato (volantinatrice, dattilografa, o – quando il caso è più felice – consigliera privata del compagno che parla alle riunioni) si vede costretta anche a mantenerlo sul piano economico per permettergli di fare politica, perché, tra i due, lui si ritiene l’unico soggetto in grado di farla. La conseguenza è che essa si vede accusata di auto-estraniarsi dalle vicende politiche, di viverle di riflesso o di non vivere affatto. Così si creano le condizioni materiali per la sua inferiorità e le si rinfacciano una incapacità e stupidità costituzionali.
In un ambiente come il nostro, in particolare, la parola – maggior strumento di affermazione – è diventata lo strumento della nostra esclusione. Come i proletari noi non sappiamo parlare, soprattutto quando dobbiamo misurarci su un linguaggio sempre maschile, sempre elaborato da altri, su cose portate avanti sempre da altri. Ci siamo trovate nella condizione di chi è sempre un passo più indietro e siamo state trascinate dentro l’inutile gioco della competizione ricavandone solo frustrazioni. Oppure, non abbiamo accettato questo gioco e ci siamo ritenute inferiori, quelle che in fondo ci capiscono poco, cui non resta che accettare la posizione di chi ne sa di più. Ma in tutto questo processo è cresciuta anche la coscienza e caduta l’ultima illusione. «La necessità di rinunciare all’illusione sulla propria condizione è la necessità di rinunciare a una condizione che ha bisogno di illusioni». (Marx)
A un certo punto abbiamo incominciato ad uscire dalla falsa convinzione che il problema è « mio », individuale e abbiamo visto che è l’iter della maggioranza delle compagne. Questo ci ha portato ad analizzare il nostro problema in quanto donne seppure nel ruolo specifico di studentesse che comporta certi privilegi:
– lontane dal nostro ambiente di provenienza nella maggior parte dei casi;
– libertà da ogni costrizione tradizionale (famiglia),
– minimale indipendenza economica (presalario, non avere altro obbligo che mantenere se stesse);
– possibilità, in alcuni casi, di esimersi da obblighi « femminili» (mediante la mensa ad esempio);
– libertà sessuale nella misura in cui viviamo lontane da ambienti ideologicamente costrittivi o abbiamo possibilità di informazioni riguardo a metodi anticoncezionali;
– un’attività politica che ci permette di uscire dal nostro stretto «particulare».
Per questo abbiamo deciso di riunirci autonomamente, prendere in mano fino in fondo e in prima persona la nostra condizione, uscire dal ghetto individuale dell’oppressione e porla come problema sociale, quindi politico. Tale decisione è collegata al fatto che l’uomo si è sempre considerato l’unico soggetto politico valido; fatto che ha portato ad una insicurezza da parte della donna: insicurezza che essa può superare soltanto recuperando autonomamente analisi, contenuti, metodi e obiettivi che più rispondono alla sua situazione specifica, la cui specificità è invece quasi costantemente negata dai compagni.
Ma non è stato un processo facile, perché la lunga abitudine a identificarsi con l’uomo, il nostro oppressore, agiva da potente freno. Nessuna di noi è esente dall’educazione ricevuta in famiglia e dalle continue pressioni che l’intera società maschile esercita su di noi. Molte compagne hanno avuto « paura» di venire a fare riunioni soltanto fra donne, sotto intendendo un grande disprezzamento di sé. E la decisione di escludere in una prima fase i maschi è stata una precisa presa di posizione politica. Ogni oppresso deve prima affermarsi nella libertà della sua ribellione e accettare da questa posizione di forza il confronto. Includere i maschi ci costringeva a misurarci di nuovo sul terreno e coi metodi del nostro oppressore.
In quanto donne noi viviamo forme specifiche di oppressione di cui soltanto noi abbiamo esperienza. In quanto donne abbiamo la possibilità dì far diventare la nostra oppressione punto di partenza per la nostra liberazione.
Le donne sono la metà dell’umanità. La nostra oppressione trascende le occupazioni e le classi. Ad esempio, se si prende in considerazione la reale esistenza di maggior sfruttamento della donna proletaria rispetto all’uomo proletario (tutti riconoscono il doppio sfruttamento della donna proletaria) non si riesce a capire ciò se si ritrova la ragione di questo fatto solo nella sua generica appartenenza alla classe proletaria e non si vede, oltre al suo «essere di classe», anche il suo «essere di sesso diverso ». Se quindi un certo tipo di sfruttamento è basato sulla discriminazione sessuale, esso fa di tutte le donne una casta oppressa. Ci sembra che il termine di « casta» sia particolarmente indicato per caratterizzare la situazione di tutte le donne. La nostra società, oltre ad essere divisa in classi presenta anche una situazione castale in cui sono costrette a vivere determinate persone a causa di caratteristiche fisiche ben identificabili come il sesso e il colore. Alla casta si è assegnati fin dalla nascita e non è possibile uscirne con nessun tipo di azione individuale.
Le donne e i neri. Il sesso e il colore.
Il processo di liberazione del popolo nero ci ha fatto sempre più prendere coscienza della nostra reale situazione e delle strettissime analogie che esistono tra loro e noi. Essere donna come essere nero è un fatto biologico, una condizione fondamentale. Come il razzismo la supremazia maschile permea tutti gli strati di questa società e si rafforza sempre di più. La società capitalistica, nel momento in cui afferma teoricamente gli stessi diritti per uomini e donne mette in evidenza tutta la contraddizione imita in ciò che afferma. Come per il proletario l’unica libertà è quella di diventare schiavo salariato, così per la donna l’unica libertà è quella di restare all’interno della sua casta.
Il capitalismo, dopo aver sfruttato indiscriminatamente donne uomini e bambini (nella prima fase dell’industrializzazione) utilizzando il rapporto di dipendenza della donna rispetto all’uomo, l’ha espulsa dal processo produttivo ricacciandola nella famiglia. La donna è diventata sempre più schiava domestica, produttrice di lavoro domestico educatrice di bambini. Il lavoro delle donne all’interno della famiglia (produzione dei figli, cura dei bambini, lavoro casalingo) si presenta come un tipo di lavoro che non ha valore di scambio. Esso rappresenta una massa enorme di produzione socialmente necessaria di cui la classe capitalistica fruisce in termini di profitti.
L’uomo è il soggetto concreto che permette questo gioco a favore del sistema: in cambio ne riceve la possibilità di dominare le donne. Quando la donna si presenta sul mercato della forza lavoro è forza lavoro di tipo particolare: sottopagata nel posti dequalificati « esercito di riserva» al servizio delle varie fasi capitalistiche, lavorante a domicilio. Inoltre la partecipazione della donna alla produzione non mette in discussione il suo ruolo sociale «femminile». Tutta la legislazione che tende a proteggere la donna sul posto di lavoro ha in effetti lo scopo di non mettere in discussione il suo ruolo all’interno della famiglia.
Di fatto il matrimonio è l’unica via per la sua sopravvivenza: legarsi a un uomo che la mantenga dando in cambio il proprio corpo, i figli e le cure domestiche è l’unica possibilità che le è aperta. Il sistema capitalistico copre la costrizione al matrimonio con l’ideologia del ruolo di madre, angelo del focolare, educatrice di bambini.
La nostra stessa sessualità è stata mortificata a tal punto da negare la legittima felicità a cui la donna tende. Le donne sono state definite ed educate «passive» anche se nei rapporti «liberati» le si richiede un’attività che serva di nuovo al piacere dell’uomo. Il prezzo di questo è per molte donne l’insoddisfazione sessuale. La sessualità è talmente funzionale all’uomo che molte donne vivono la loro frigidità come stato normale.
La scienza ha costruito teorie del tutto a-scientifiche sulla nostra pelle: quelli che sono i prodotti di una situazione di oppressione dell’uomo sulla donna vengono cristal1izzati come «caratteristiche naturali femminili». Nessuno considera seriamente che la donna ha una sua sessualità che non necessariamente coincide coi meccanismi di soddisfazione dell’uomo. Il nuovo concetto di «libero amore», l’ideologia che sostiene la libertà di amare sia da parte dell’uomo che della donna, è senz’altro un passo in avanti che però perde la sua positività quando, diventa pretesto per ricreare, con minor difficoltà, le stesse strutture oggettivizzanti tipiche del rapporto sessuale borghese. Come nel rapporto sessuale la donna non si pone come soggetto, ma è «l’altro», così nella vita sociale vive di riflesso: è soltanto ciò che l’uomo decide che sia. La donna si determina e si differenzia in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei; è l’inessenziale di fronte all’essenziale.
All’interno di questa condizione di subordinazione la donna che crea una via di sopravvivenza individuale ha di fronte solo due alternative:
– accettare la definizione che l’uomo dà di lei: diventare sesso-oggetto, schiava domestica, produttrice di figli che non le appartengono, salariata all’ultimo livello all’interno degli stessi salariati;
– accettare la competizione con il maschio e dirigere tutti i suoi sforzi per cercare di «essere uguale al maschio », con il risultato di diventare « il negro con la testa da bianco », discriminato tra i bianchi ed odiato tra i neri.
In entrambi i casi la donna non riesce a passare attraverso un processo di identificazione con se stessa, non si riconosce cioè come un essere umano «autonomo», ma definisce se stessa sempre in rapporto all’uomo. Sono ambedue tentativi individuali che non mettono in discussione la dipendenza dall’uomo. L’unica possibilità di liberazione passa attraverso la presa di coscienza collettiva della propria condizione specifica. Riconoscersi in quanto donna, non più come inferiore, ma come sfruttata è già uscire dal ghetto della propria situazione, porsi come forza politica che mette in discussione i rapporti sociali esistenti.
Solo un movimento organizzato e autonomo delle donne può avviare un effettivo processo di liberazione. Come i neri d’America si riconoscono sfruttati per un fatto che non dipende solo dalla loro appartenenza di classe, ma dal colore della loro pelle e, per uscire dalla loro condizione di subordinazione lottano contro una società che oltre ad essere capitalistica, è anche bianca, così le donne potranno trovare una reale via alla loro liberazione lottando contro la società che, oltre ad essere capitalistica, è maschile.
Chi non si è posto in una tale prospettiva è caduto nei due errori possibili:
a) negare l’oggettività delle contraddizioni vissute dalla donna come casta e la sua oggettiva potenzialità rivoluzionaria; di conseguenza negare la validità di un movimento di lotta autonomo b) cadere in una posizione «femminista» commettendo l’errore di scambiare questa società per l’unica possibile, ponendosi quindi come obiettivo la parità con l’uomo all’interno di questa organizzazione sociale.
Ai compagni che sostengono che solo dopo la presa del potere da parte del proletariato la condizione della donna si risolverà, noi rispondiamo: poiché la donna soffre di contraddizioni oggettive specifiche oggi, è da oggi che può e deve iniziare la lotta per la sua liberazione. A coloro che dicono che con la nostra lotta operiamo una divisione all’interno del popolo noi rispondiamo: la divisione esiste e ci è stata imposta. La nostra lotta vuol fare esplodere la contraddizione (non più razionalizzarla) e tendere ad una reale ricomposizione del proletariato. Il nostro movimento deve essere un movimento di sole donne, perché noi pensiamo che non può esserci un’unità tra uomini e donne se non c’è prima un’unità tra le donne.
Abbiamo, all’interno della casta delle donne, un problema che è particolare di questa casta e accettiamo il confronto e la collaborazione coi compagni maschi che si rendono conto che noi abbiamo una nostra testa.
Vogliamo riguadagnare la testa che ci è stata tolta.
Decideremo da noi le posizioni politiche e pratiche da prendere. Faremo la teoria e porteremo a termine la pratica. Saremo noi a decidere quali misure, quali strumenti e quali programmi usare per liberarci.