April 2017. Blood in the mobile.
“El mestée del mes” narra di due minerali conflittivi, anche se il secondo non è classificato come tale. Il significato di questo neologismo composto verrà succintamente spiegato partendo da un testo introduttivo, proseguendo con un filmato (purtroppo solo reperibile in lingua inglese), con un sunto di una indagine di Amnesty International e Afrewatch, concludendo con alcune foto di Stefano Stranges. Ad ognuno, direttamente più o meno interessato, fare considerazioni sul tema e sul proprio comportamento.
Il coltan.
Coltan e cassiterite. La maggior parte di voi non sa neanche cosa siano, sebbene li abbiate ogni giorno tra le mani. Sono due minerali, utilizzati per costruire i componenti elettronici di cellulari e computer, che si estraggono nelle miniere del Congo. Sono i cosiddette “minerali conflittivi”, perché le miniere dove si estraggono sono gestite dai membri del FDLR (Forces Démocratiques pour la Libération du Rwanda), riconosciuto come uno dei più violenti e sanguinari gruppi di combattenti africani.
In questo articolo vi presento come noi, comprando a fior di quattrini l’ultimo modello di iPhone o di qualsiasi altro smartphone o computer, finanziamo direttamente l’approvvigionamento d’armi di questi guerriglieri, che vivono stuprando ed uccidendo giovani e giovanissimi che si fanno “minatori” per non morire di fame ed inseguire il sogno impossibile di costruirsi casa e famiglia.
Nel 2010, il direttore danese Frank Piasecki Poulsen ha girato un documentario fantastico dal titolo “Blood in the Mobile”, con l’obiettivo di far conoscere all’opinione pubblica mondiale da dove vengono e come sono estratte le materia prime dei nostri cellulari. Guardando il documentario verrete a conoscenza del lato peggiore delle compagnie d’elettronica, che si pubblicizzano come “social”, responsabili e vicine ai bisogni delle persone. Nessuna di queste compagnie si salva, tutte colpevoli d’utilizzare minerali conflittivi, minerali che provengono dalle miniere di Bisiye, nel territorio di Walikale (regione di Kivu, Congo Orientale), il centro nevralgico dell’estrazione di coltan e cassiterite.
Non solo Poulsen è riuscito ad ottenere i permessi direttamente dai gruppi militari congolesi per farsi scortare fino a Bisiye (i portavoce delle Nazioni Unite si erano rifiutati di dargli il permesso di addentrarsi nella giungla, per paura d’essere complici del suo assassinio) ma è addirittura entrato in una di queste terribili miniere, che sarebbe meglio chiamare buchi, scavati fino ed oltre cento metri di profondità e dove ogni giorno muore qualcuno.
Paulsen ha portato la scottante questione direttamente ai piani alti della Nokia, che da sempre si vanta d’essere la compagnia leader mondiale nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa. È tristemente divertente vedere come i direttori del colosso finlandese dei cellulari cerchino di evitare il confronto diretto davanti alle telecamere. L’amministratore delegato della Nokia, la responsabile del controllo della catena d’approvvigionamento dei materiali utilizzati nella catena di montaggio dei cellulari ed il portavoce dell’ufficio responsabilità sociale della Nokia, intervistati da Poulsen, cercando pateticamente di minimizzare la propria responsabilità riguardo l’utilizzo di minerali conflittivi e, visibilmente imbarazzati, cercano di difendersi a suon di retorica e promesse del tipo “ci stiamo impegnando per fare luce sulla questione, il cammino è lungo e difficile e non dipende solo da noi”.
La verità è che da oltre quindici anni tutti i cellulari del mondo e tutti i componenti di computer ed accessori elettronici utilizzano coltan e cassiterite come materie prime nelle catene di montaggio. Le multinazionali dell’elettronica, acquistando questi minerali, sono i diretti responsabili del finanziamento delle mafie africane, che forniscono ai guerriglieri le armi necessarie a mantenere l’Africa in un continuo stato di schiavitù e guerra perpetua.
Qual’è il percorso che dalle miniere arriva fino a casa Nokia, Apple o Samsung, ad esempio? Brevemente (potrete approfondire il tema guardando il documentario), coltan e cassiterite vengono estratti a mano, a suon di martello e a mani nude nelle miniere sparse per tutto il Congo, soprattutto nella regione di Kivu. Nelle zone d’estrazione, i guerriglieri obbligano i “minatori” a pagare una quota per ogni chilo di minerali estratti. Non serve che dica, lo avrete immaginato, che in queste miniere muoiono ogni giorno decine di persone, a causa di frane, asfissia, lavoro forzato o giustiziati dai membri del FDLR.
Dalle miniere, dopo aver pagato il pizzo ai guerriglieri, questi giovani e giovanissimi minatori camminano per due giorni con circa venti, trenta, cinquanta chili di minerali caricati in sacchi sulle spalle, fino ad arrivare a Goma, città di confine, punto di raccolta dove coltan e cassiterite vengono smistati e registrati per la prima volta in maniera ufficiale. Ovvero, volendo risalire all’origine di un minerale conflittivo prima dell’arrivo a Goma, non esiste alcun tipo di documento ufficiale. Questo è uno dei punti chiave che fa capire come si sia creato nella catena di approvvigionamento di materie prime un falso punto di partenza, sganciando le multinazionali dell’elettronica dalla relazione diretta con le miniere dei guerriglieri del FDLR.
L’opinione pubblica deve conoscere la verità, il loro intrinseco rapporto commerciale venditore-compratore. Minerali in cambio d’armi. Da Goma, coltan e cassiterite vengono caricati in piccoli aerei e inviati in Ruanda, Uganda, Tanzania, Kenya, Burundi, dove gli emissari delle multinazionali europee, asiatiche ed americane li comprano e li portano direttamente nelle catene di montaggio dei nostri cellulari.
Morale della favola, con ogni cellulare e computer che compriamo, diamo il nostro piccolo apporto al finanziamento dei gruppi armati africani, gli paghiamo le armi e li aiutiamo a perpetrare le loro violenze, le mattanze, gli stupri e le ingiustizie, che ogni giorno distruggono il più bello e ricco continente del mondo. Prima i militari, gli uomini d’affari ed i politici africani, poi gli intermediari del “primo mondo” ed infine noi. Siamo tutti assassini, diretti od indiretti, della popolazione del Congo, siamo tutti responsabili della distruzione dell’Africa, dell’annichilimento dell’essere umano, dell’oblio della giustizia e della dignità umana.
Tutto questo per non essere mai coscienti, per non voler conoscere la verità, per infischiarsene dei valori e di sapere da dove proviene quello che utilizziamo nella nostra vita quotidiana. Dovreste per lo meno esserne coscienti adesso e parlarne con amici e figli, far capire ai più piccoli che la gioia nel ricevere per regalo un iPad o uno smartphone nuovo, corrisponde alla schiavitù di un altro bambino del Congo, che probabilmente non arriverà a compiere trent’anni e la cui madre o sorella saranno state stuprate e trucidate.
A parte Poulsen, a chi interessano i minerali conflittivi? Nonostante la burocrazia internazionale si muova più lenta di una lumaca col piede in gesso, esiste l’associazione Raise Hope for Congo, che lavora per rendere cosciente l’opinione pubblica ed incita i governi a bandire e regolare questo mercato. Ma la situazione è difficile, l’interesse in gioco è troppo grande e, diciamola tutta, ad una persona su due o su tre, sinceramente, non gliene frega niente se l’Africa muore. Questa è la più grande vergogna dell’uomo moderno, il menefreghismo e l’egoismo, sempre ben accompagnati da ignoranza, avarizia e pigrizia.
Se alle persone del cosiddetto primo mondo non gliene frega un cazzo dei bambini del Congo, non saremo mai capaci di utilizzare, tutti assieme, l’arma più grande che possediamo: la capacità di boicottare il mercato dei cellulari o qualsiasi altro mercato che non segua ed attui secondo principi etici. Tradotto, non dovremmo comprare nessun cellulare, almeno fintantoché l’uomo non imparerà a rispettare i diritti e si farà carico delle proprie responsabilità, nel nome del bene comune.
È chiaramente impossibile un discorso del genere, vero? Vedo persone adulte e d’ogni età che fanno assurde file di ore ed ore per accaparrarsi a prezzi esorbitanti l’ultimo iPhone, per poi passare metà delle proprie giornate a cliccare “mi piace” e “condividi”, perdendo il senso della propria vita e la capacità di vivere e sapersi arrangiare. Invece di renderci conto di quello che succede nel mondo ed agire, consultiamo ogni giorno centinaia di inutili apps, create per aiutarci a vivere meglio ma che però, alla fine, ci hanno fagocitato e trasformato in patetici tamagochi dal collo ricurvo e culi flosci. Siamo davvero ridotti male, da far pena.
Congo, un tempo colonia privata di Leopoldo II, oggi colonia privata delle multinazionali dell’elettronica, che grazie ai nostri acquisti possono continuare ad arricchirsi sulle spalle dei nuovi schiavi 2.0. L’unica differenza è che oggi non ci si pavoneggia in pubblico dei propri schiavi, mostrandoli in catene o fotografandoli mentre gli si amputano le mani, come faceva quel buonuomo belga. Oggi si fa tutto di nascosto e, sebbene salga sempre tutto alla luce, si smentisce, si cerca di corrompere chi tira fuori il tema o, in casi estremi, di farlo fuori.
Anche se potremmo cambiare il mondo, non lo faremo perché saremo occupati a twittare un emoticon che piange accanto ad una foto di un bambino africano massacrato dai guerriglieri, nelle vicinanze delle mine di Bisiye, nella profonda giungla congolese. Oltre che ignoranti, siamo patetici.(Matteo Vitiello, 2014)
Campo di Rubaya. Strada accanto al campo dei rifugiati.
Campo di Rubaya. Interno tenda dei rifugiati.
Campo di Kibabi, vicino alle miniere. Ragazzo davanti alla sua tenda.
Vedova di minatore nel campo di Rubaya.
Giovane minatore nella miniera coltan di Luwowo.
Portando pesanti sacchi di coltan dalla miniera di Luwowo al villaggio.
Giovane minatore trasporta un pesante sacco di coltan dalla miniera di Luwowo al villaggio.
Il cobalto.
Tratto da una indagine congiunta Amnesty International e Afrewatch.
Tutti noi oggi facciamo largo uso di cellulari, tablet, computer portatili e altri dispositivi elettronici portatili e tutti noi spesso imprechiamo a causa della scarsa durata delle batterie al litio ricaricabili che li fanno funzionare. Pochi di noi però hanno la consapevolezza del fatto che il cobalto, elemento grazie al quale si riesce a produrre quelle batterie, viene ottenuto attraverso il lavoro sottopagato e inumano di adulti e bambini nelle miniere della Repubblica democratica del Congo (RDC).
La sotto scendono bambini di 6-7 anni. Da un’indagine congiunta pubblicata martedì da Amnesty International e Afrewatch, emerge che i principali marchi di elettronica, tra cui Apple, Samsung e Sony, non attuano i dovuti controlli di base per garantire che il cobalto usato nei loro prodotti venga estratto rispettando i diritti umani e non passi attraverso lo sfruttamento e il lavoro minorile. Il rapporto, intitolato “Questo è ciò per cui moriamo: Abusi dei diritti umani in RDC alimentano il commercio globale di cobalto”, ripercorre la strada che cobalto compie dalle miniere in RDC, dove uomini e bambini sotto i 7 anni lavorano in condizioni estremamente insicure e dannose per la salute, passando attraverso la lavorazione per ottenere le batterie fino al loro utilizzo finale nei prodotti dei grandi brand di elettronica che troviamo nei nostri negozi.
Lavoro disumano. Più della metà del totale della fornitura mondiale di cobalto proviene dalla Rdc e secondo le stime del governo congolese, il 20% di questo elemento attualmente esportato viene estratto da minatori artigianali nella regione del Katanga nella parte meridionale del paese. Si tratta dunque di una parte molto significativa. Non a caso il numero di minatori artigianali in questa regione va dai 110 mila ai 150 mila. Essi lavorano al fianco di attività industriali molto più grandi gestite da aziende occidentali e cinesi.
In galleria non si respira e ci si ammala. In un paese come la RDC, tra i più poveri del mondo (136mo su di 188 nell'Indice di Sviluppo Umano dell'Unicef) e ancora instabile a causa dei conflitti etnici interni e dell’assenza di istituzioni statali forti, i minerali preziosi rappresentano l’unica fonte di sostentamento per molte persone che lo estraggono autonomamente senza permesso. Il tutto può avvenire o scavando profonde gallerie con semplici scalpelli senza ventilazione né misure di sicurezza, o setacciando senza permesso i materiali di scarto delle miniere industriali della regione. L'esposizione cronica a polveri contenenti cobalto può causare malattie, asma e riduzione della funzione polmonare.
Per i crolli centinaia di morti ogni anno. I crolli nelle gallerie artigianali sono comuni e provocano centinaia di morti all’anno. Dato allarmante è quello che riguarda il lavoro e lo sfruttamento minorile. L'Unicef ha stimato che nel 2014 nel comparto minerario della RDC lavoravano circa 40.000 fra bambini e bambine, molti di questi nel settore del cobalto. I bambini intervistati dai ricercatori di Amnesty hanno detto di aver lavorato fino a 12 ore al giorno nelle miniere guadagnando in media uno o due dollari. Questi minori non frequentano la scuola perché le loro famiglie non possono permettersi le tasse scolastiche e vengono dunque impiegati nelle stesse mansioni degli adulti, danneggiando la loro salute e mettendo a rischio le proprie vite.
Il percorso del cobalto. Il prodotto che i minatori artigianali riescono a ottenere viene poi venduto in alcuni mercati locali a commercianti intermediari, i quali poi rivendono il minerale a grandi aziende che lavorano nel paese che poi procedono a esportarlo assieme al resto della materia prima che producono nei loro stabilimenti. Dall’indagine di Amnesty è emerso che la più grande azienda al centro di questo commercio in RDC è la Congo Dongfang Mining International (Cdm), controllata al 100% dalla cinese Zhejiang Huayou Cobalt Ltd (Huayou Cobalt), uno dei più grandi produttori al mondo di cobalto. La Cdm e la Huayou cobalt successivamente lavorano il cobalto prima di venderlo a tre produttori di componenti di batterie a litio: Ningbo Shanshan e Tianjin Bamo in Cina e L&F Materials in Corea del Sud. A loro volta, queste aziende vendono le loro merci ai produttori di batterie, i quali poi le distribuiscono ai più importanti brand di elettronica o di automobili che noi tutti conosciamo.
L'opacità di un paradosso. Una volta fatta questa ricostruzione, Amnesty ha dunque contattato 16 multinazionali, che risultano clienti delle tre aziende che producono batterie per apparecchi elettronici e per automobili utilizzando il cobalto proveniente dalla Huayou Cobalt o da altri fornitori della Repubblica Democratica del Congo: Ahong, Apple, Byd, Daimler, Dell, HP, Huawei, Inventec, Lenovo, LG, Microsoft, Samsung, Sony, Vodafone, Volkswagen e Zte. Di queste una ha ammesso la relazione, quattro hanno risposto che non lo sapevano, cinque hanno negato di usare cobalto della Huayou Cobalt, due hanno respinto l’evidenza di rifornirsi di cobalto della Repubblica Democratica del Congo e sei hanno promesso indagini. Nessuna delle 16 aziende è stata in grado di fornire informazioni dettagliate, sulle quali poter svolgere indagini indipendenti per capire da dove venga il cobalto usato nei loro prodotti. Un risultato opaco in termini di trasparenza che non può che far apparire la situazione paradossale e ipocrita (dato che alcuni di queste aziende si vantano di avere una politica di tolleranza zero sul lavoro minorile). Com’è possibile che alcune delle più ricche e innovative aziende del mondo non siano a conoscenza della catena di approvvigionamento delle materie prime dei loro prodotti?
Manca impegno, ma anche regole. Ignavia e indifferenza dolose, dettate dai lucrosi profitti che si ottengono. Si compra l’indispensabile cobalto senza fare domande su dove e come venga estratto, l’importante è che si continui a produrre a bassi costi. Certo, questa è sicuramente la principale spiegazione. Ma va anche considerato che non c’è nulla che obbliga le aziende a farlo. Esiste infatti una grossa lacuna nel sistema del diritto internazionale. Come sottolinea Amnesty, ad oggi non esiste un regolamento del mercato globale del cobalto che non è neanche inserito nella lista dei “minerali dei conflitti”, la quale comprende invece oro, coltan, stagno e tungsteno.
Le richieste di Amnesty. C'è chiarezza su ciò che andrebbe fatto: Le aziende non dovrebbero boicottare la produzione mineraria della RDC, ma attuare la cosiddetta "due diligence", ossia fare un approfondimento meticoloso sui loro fornitori diretti e non, imponendo il rispetto dei diritti umani. La RDC dovrebbe regolarizzare le aree minerarie non autorizzate e far rispettare le norme sul lavoro, specialmente quello minorile. Infine, gli stati di residenza fiscale delle grandi multinazionali e il mercato globale, che dovrebbero varare norme congiunte per obbligare le aziende alla trasparenza sulle loro catene di approvvigionamento. Ciò che manca però è la volontà. (Marco Simoncelli, 2016)
Assi di legno da portare in miniera di Luwowo(coltan) per proteggersi dalle frane.
Minatori nella miniera coltan di Luwowo.
Minatori nella miniera coltan di Luwowo.
Minatori nella miniera coltan di Luwowo.
Minatori nella miniera coltan di Luwowo.
Minatori nella miniera coltan di Luwowo.
Minatori nella miniera coltan di Luwowo.
Presentazione e foto di Stefano Stranges.
Il coltan, ovvero il minerale che ognuno di noi porta in tasca, è oggetto di una lunga catena commerciale che implica pesanti conseguenze sui diritti umani e ambientali. Questo minerale, utilizzato nella produzione di svariati materiali di alta tecnologia, è soprattutto fondamentale per la realizzazione degli smartphone. Il consumo compulsivo e il rinnovo costante di questi oggetti ha fatto sì che dalla fine degli anni ’90 il commercio del coltan sia cresciuto in modo esponenziale. Da qui gli sfruttamenti da parte delle grandi multinazionali e le conseguenze catastrofiche nei confronti delle popolazioni di territori come il Congo, essendo questa terra grande riserva di coltan.
Il mio progetto fotografico parte quindi da questa zona del mondo, in quanto primo anello di un processo che comincia con l’estrazione del minerale e, passando dalla produzione dell’oggetto (sud est asiatico) e relativo utilizzo spropositato in ogni angolo del globo, e che finisce nelle immense discariche africane (Ghana in particolare. Vedi “Agbogbloshie”, in Post Scriptum, nota mia).
Le foto qui presentate sono parte del risultato(parziale, nota mia) della prima tappa. Visitando la regione del Nord Kivu, in particolare il territorio del Masisi, dove sono concentrate molte delle miniere di coltan del paese, ho affrontato le principali problematiche della popolazione dei villaggi circostanti. Questo territorio è a prima vista una landa paradisiaca, dai verdi prati ricchi di pascoli e di terreni acquistati per lo più dai ricchi politici e imprenditori del Paese. Al suo interno però il paesaggio è interrotto da migliaia di tende di plastica bianche dei campi profughi affollati di famiglie che scappano dai vicini villaggi in un contesto caratterizzato dalla presenza di gruppi ribelli mossi dalla sete di potere.
La mancanza sostanziale di alternative per sopravvivere e lo scarsissimo livello di scolarizzazione costringe la popolazione di tutto il territorio ad essere schiavi all’interno delle loro terre e a lavorare come minatori, con dei livelli di sicurezza pari a zero. I villaggi a ridosso delle miniere, come ad esempio Rubaya, sono abitati da centinaia di famiglie spezzate, dove una vedova o una madre spesso non può nemmeno piangere il corpo del proprio caro, sepolto e abbandonato dentro le voragini della montagna. I diritti e i sostegni di queste donne da parte delle compagnie minerarie sono inesistenti; gli aiuti per sopravvivere arrivano soltanto dalle ONG che operano sul campo.
Minatori in Luwowo scavano sino a 10-15 metri in profondità ove il coltan è più puro.
Minatori in Luwowo scavano sino a 10-15 metri in profondità ove il coltan è più puro.
Minatori in Luwowo scavano sino a 10-15 metri in profondità ove il coltan è più puro.
Minatori in Luwowo(coltan) consolidano le pareti con assi di legno.
Minatori nella miniera di Luwowo(coltan).
Filtraggio del coltan. Miniera di Luwowo.