Luj 2018. Plastica.

 

 

 

 

“El mestèe del mes” è dedicato alla plastica, o meglio all’inquinamento prodotto dall’uso della plastica a livello planetario. Plastica nelle terre e nei mari, frutto della cultura “usa e getta” imposta dal mercato e dalla comodità di consumo. Due testi integranti inerenti l’inquinamento marino sono completati da fotografie e un documento filmato sul tema.

 

 

 

 

 

 

 


Nel 2050 ci sarà più plastica che pesce. Questo è lo scenario che un rapporto pubblicato nel 2016 dalla fondazione Ellen MacArthur prospettava per i nostri mari. Mentre un numero crescente di studi tratteggia le dimensioni colossali del fenomeno, per l’inquinamento oceanico da plastica, le cui conseguenze erano state fino ad allora bollate come secondarie rispetto a problematiche di attualità più stringente, è esploso in tutta la sua dolorosa urgenza.
Dai vestiti alle bottiglie, passando per cosmetici e imballaggi, viviamo immersi in un mondo di plastica. Che una volta esaurito il suo compito finisce spesso negli oceani: sono oltre 8 milioni le tonnellate di plastica che ogni anno vengono riversati in mare. Una vera emergenza, tanto da essere inserita da Lisa Svensson, coordinatrice del programma degli ecosistemi marini e costieri del Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (Unep), tra le “crisi planetarie”.
L’abolizione di imballaggi e prodotti usa e getta è già in atto in alcuni Paesi. Tra questi c’è l’Italia che, dopo aver bandito nel 2011 le buste per la spesa, si appresta a fare altrettanto con i sacchetti utilizzati nella vendita al dettaglio di frutta e verdura, sostituiti da omologhi biodegradabili a partire da gennaio. Tuttavia, come il mare non conosce confini, così la sostituzione della plastica non deve averne.
La risoluzione di Nairobi.
Nel corso del vertice tenutosi a Nairobi dal 4 al 6 dicembre, l’assemblea dell’Unep ha approvato una risoluzione che mira a porre fine all'inquinamento marino causato dalla plastica. Un evento importante, che tuttavia patisce i limiti di un trattato non vincolante. Coerentemente con gli obiettivi di sviluppo sostenibile sanciti dalle Nazioni Unite, la risoluzione incoraggia gli stati ad agire per prevenire la produzione e dispersione, in particolare dalle attività a terra, di rifiuti marini e microplastiche. Essa caldeggia una riduzione significativa dei detriti, senza tuttavia indicarne la misura, già entro il 2025, incoraggiando gli stati membri ad abbracciare l’economia circolare, moltiplicando gli sforzi nel riciclo dei rifiuti e nel monitoraggio del loro destino per quantificare provenienza e quantità di ciò che finisce in mare.
Spazio inoltre alle bonifiche di spiagge e oceani condivise tra tutti i Paesi che si affacciano in un determinato tratto di mare. Meglio se condotte con il coinvolgimento di enti locali, associazioni e aziende. Qualche risultato il vertice di Nairobi l’ha già ottenuto: durante l'assemblea, Oman, Sudafrica ma soprattutto Cile e Sri Lanka si sono uniti alla campagna “Clean Seas”. Michelle Bachelet, presidente del Paese sudamericano, ha già firmato un disegno di legge che vieta i sacchetti di plastica in tutte le città e i villaggi lungo gli oltre 4mila chilometri di costa cilena. Una risoluzione simile è stata annunciata anche dallo Sri Lanka, tra i maggiori responsabili dell’inquinamento da plastica, che ha annunciato il bando dei prodotti monouso a partire dal prossimo anno.
Made in Asia.
Lo Sri Lanka è solo una delle comparse di quel dramma planetario che affonda le sue radici prevalentemente in Asia. La vibrante crescita demografica ed economica in corso in molte nazioni, unite all’inurbamento della popolazione rurale nelle metropoli costiere e l’inesistenza del riciclo si traduce ogni anno in milioni di tonnellate di rifiuti di plastica. Secondo uno studio pubblicato nel 2015 su “Science” da Jenna Jambeck, docente di ingegneria ambientale presso l’Università della Georgia, e colleghi, 5,3 degli 8,8 milioni di tonnellate di plastica che ogni anno raggiungono il mare provengono da appena cinque Paesi. Tutti dell’estremo Oriente: insieme alla Cina, a cui spetta la maglia nera con oltre 3,5 milioni di tonnellate riversate ogni anno in mare, Indonesia, Filippine, Thailandia e Vietnam sono infatti responsabili del 60% di tutta la plastica oceanica. Seguono Malesia, Nigeria, Egitto, Sri Lanka e Bangladesh.
La predominanza della componente asiatica è confermata anche da uno studio pubblicato quest’anno sulla rivista “Environmental Science and Technology” che rivela come circa il 90% della plastica che raggiunge il mare sia veicolata da appena dieci fiumi. Secondo i ricercatori del Centro Helmholtz per la ricerca ambientale di Lipsia, solamente due di questi scorrono in Africa (Nilo e Niger) mentre i rimanenti sono asiatici: oltre ai principali fiumi cinesi (fiume Azzurro, fiume Giallo, fiume delle Perle e Hai) figurano Indo, Gange, Mekong e Amur. Una volta raggiunta la costa, sospinti dalle correnti, i rifiuti si concentrano in cinque grandi vortici, il più grande dei quali localizzato non a caso nel Pacifico settentrionale, ha generato un’isola di immondizia la cui estensione è, secondo le stime più prudenti, due volte quella dell’Italia.
Microplastiche.
La plastica non è biodegradabile ma, esposta alla luce del sole, lentamente si decompone in piccoli frammenti. Sebbene l’inquinamento più vistoso sia quello dovuto a oggetti voluminosi, che soffocano o intrappolano gli organismi marini, quello più subdolo è costituito da particelle di dimensioni inferiori ai 5 millimetri. Le cosiddette microplastiche possono essere scambiate per cibo e ingerite da pesci, molluschi e crostacei, accumulandosi nei tessuti. La concentrazione degli inquinanti organici presenti in questi frammenti, come i cosiddetti ftalati o i metalli pesanti utilizzati in alcune vernici, incrementa perciò ad ogni anello della catena alimentare. Fino a raggiungere il nostro piatto, con conseguenze sconosciute: uno dei mari più colpiti da questa forma di inquinamento è proprio il Mediterraneo a causa del bacino semichiuso e dell’alta densità abitativa lungo le sue coste.
Ripulire gli oceani da questo tipo di inquinamento pulviscolare è un’impresa destinata al fallimento. L’unica possibilità è tagliarne drasticamente la produzione, sostituendo i materiali che le rilasciano: un semplice lavaggio in lavatrice genera quasi duemila microframmenti di plastica per ogni capo d’abbigliamento sintetico, circa il 180% in più delle fibre rilasciate da quelli in lana.
Un’epoca usa e getta.
I tessuti sintetici sono solo alcuni dei materiali che dovremo ripensare. I rifiuti più diffusi negli oceani sono infatti le bottigliette da mezzo litro, seguite dai frammenti prodotti dalla disgregazione di reti e imballaggi di vario tipo. La produzione di plastica è esplosa dai 2 milioni di tonnellate del 1950 agli oltre 400 milioni di tonnellate del 2015, in un'impennata che non ha eguali tra gli altri materiali, eccetto acciaio e calcestruzzo. Tuttavia, mentre l’utilizzo di questi ultimi si distribuisce in parecchi decenni, dopo appena quattro anni la maggioranza della plastica diventa un rifiuto. A preoccupare è soprattutto il tasso d'incremento osservato negli ultimi anni: in un articolo pubblicato quest’estate su “Science Advances”, Roland Geyer dell’Università della California a Santa Barbara e colleghi stimano che negli ultimi tredici anni sia stata prodotta circa la metà di tutta la plastica fabbricata dal 1950 a oggi. Se la tendenza fosse confermata, la quantità totale di plastica dispersa nell'ambiente raggiungerebbe i 12 miliardi di tonnellate nel 2050. Quando nell’oceano nuoteranno più bottiglie che pesci. (Davide Michielin, 2017)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

The Great Pacific Garbage Patch.
La cosiddetta Isola di plastica del Pacifico (Great Pacific Garbage Patch, in inglese) è la più grande zona di accumulo di rifiuti galleggianti al mondo. È situata in corrispondenza del vortice oceanico subtropicale del Pacifico del Nord, in una regione dove le correnti superficiali formate dai venti creano una zona di convergenza dove si accumulano detriti naturali e di origine umana che possono rimanere intrappolati nel vortice per vari anni.
La maggior parte dei detriti sono frammenti di plastica di dimensioni microscopiche, ed escluse concentrazioni locali di rifiuti di grandi dimensioni, i detriti non sono visibili ad occhio nudo, tantomeno dallo spazio. Nella cosiddetta "isola" non c'è un solo centimetro quadrato di superficie sul quale si possa camminare. Nonostante questo, due agenti pubblicitari statunitensi hanno dichiarato che quest'accumulo di plastica in mezzo all'oceano costituisce un luogo vero e proprio, lo hanno battezzato "Isole dei Rifiuti" e hanno proclamato il vice-presidente americano Al Gore come primo "cittadino" di questa nazione. Nel settembre 2017 hanno poi promosso una petizione alle Nazioni Unite per chiederne il riconoscimento internazionale. Questa trovata pubblicitaria ha contribuito a mantenere il mito dell'isola.
Scoperto nel 1988 dai ricercatori della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) degli Stati Uniti, l'accumulo di plastica nel vortice del Pacifico Nord è portato all'attenzione dei media e del grande pubblico nel 1997 grazie alla testimonianza del navigatore statunitense Charles Moore, che durante una traversata verso Los Angeles si ritrova con la sua barca a vela circondato in un ammasso di contenitori di plastica e di altri rifiuti di produzione umana. È l'oceanografo Curtis Ebbesmeyer, che aveva ricostruito le dinamiche delle correnti del Pacifico seguendo i movimenti di oggetti galleggianti persi dai cargo come giocattoli di plastica a forma di paperelle e scarpe da tennis Nike, che conia il termine Garbage Patch.
Nel 2013 il giovane olandese Boyat Slat crea la fondazione Ocean Cleanup con l'obiettivo di ripulire l'isola di plastica. Utilizzando una serie di dispositivi composti di braccia galleggianti che sfruttano le correnti oceaniche, promette di rimuovere il 50% della plastica intrappolata nel vortice del Pacifico del Nord in 5 anni. La maggior parte della comunità scientifica ritiene che l'operazione sia una perdita di tempo, e la critica sotto vari punti di vista: il sistema di filtraggio associato alle braccia galleggianti può arrivare a trattenere solo particelle di dimensioni superiori a 1 mm, mentre la maggior parte dei frammenti di plastica intrappolati nel vortice hanno dimensioni più piccole; il sistema di filtraggio potrebbe danneggiare gli organismi marini planctonici che vivono alla superficie dell'acqua; la maggior parte dei rifiuti plastici si trova in corrispondenza delle coste e non in mezzo agli oceani; ogni anno dai 4 ai 13 milioni di tonnellate di plastica arrivano negli oceani a causa di una cattiva gestione dei rifiuti urbani, sarebbe più utile ridurre questa emorragia piuttosto che pulire.
Quanta plastica è intrappolata nel vortice del Pacifico del Nord?
Nonostante le criticità avanzate dalla comunità scientifica, la campagna di crowdfunding di Ocean Cleanup raccoglie 26 milioni di euro e la fondazione inizia a testare prototipi del dispositivo per la rimozione delle plastiche nel Mare del Nord. Nel 2015 Ocean Cleanup lancia inoltre una grande campagna di raccolta dati nella zona centrale del vortice del Pacifico Nord: durante due mesi 18 imbarcazioni effettuano 652 campionamenti alla superficie dell'oceano, campionando sia micro che macrorifiuti (5-50 cm), e nell'anno successivo vengono svolte due campagne aeree che tramite 7.000 immagini offrono una stima della quantità di mega rifiuti (> 50 cm) su 311 km2.
I dati raccolti, pubblicati il 22 marzo scorso sulla rivista Scientific Reports, offrono la stima più robusta della massa di plastica accumulata nel vortice del Pacifico Nord, corrispondente a 79.000 tonnellate. Questo valore, calcolato con l'ausilio di modelli matematici di circolazione oceanica, è superiore di circa 16 volte rispetto ad una stima precedente (4.800 tonnellate) ottenuta da uno studio che aveva considerato solo le microplastiche, e 4 volte superiore rispetto ad uno studio (21.000 tonnellate) che aveva considerato micro e macroplastiche.
Lo studio permette inoltre di stimare in 1,6 milioni di km2 la superficie del garbage patch, ossia 5 volte l'Italia e tre volte più estesa di uno studio precedente. Ci sarebbero 1,8 triliardi di pezzi plastica intrappolati nel vortice del Pacifico del Nord, di cui il 94% sono microplastiche. Esse rappresentano l'8% della massa totale, mentre le reti da pesca contribuiscono per il 46% e il restante della massa è rappresentato da altri attrezzi per la pesca, incluse corde, lanterne per le ostriche, trappole per anguille, cassette di plastica per il trasporto dei molluschi, secchielli. Gli autori suggeriscono che l'incremento nella stima della massa di plastica presente nel vortice del Pacifico Nord sia dovuto in larga parte all'utilizzazione di metodi più robusti per quantificare la presenza di macro e megaplastiche su superfici più ampie rispetto agli studi precedenti. Tuttavia, concludono dicendo che l'inquinamento da plastica "sta aumentando in maniera esponenziale e più velocemente che nelle acque circostanti".
Stefano Aliani, ricercatore presso il CNR ISMAR ed esperto di rifiuti marini, fa notare che "è difficile dire se negli anni vi è stato un vero aumento, oppure se questa percezione viene da un maggior sforzo di campionamento rispetto al passato, da un cambiamento delle dinamiche del vortice oceanico dovuto d eventi come El Niño, oppure allo tsunami del Giappone del 2011 che ha sparso rifiuti in tutto il Pacifico". Lo studio stima infatti che tra il 10 e il 20% della massa dei rifiuti che si trovano intrappolati nel vortice provengono dallo tsunami del Giappone del 2011.
Enrico Zambianchi, professore di oceanografia fisica all'Università Parthenope di Napoli ed esperto di processi di dispersione nell'oceano, raggiunto via email osserva che il campionamento è molto completo e il modello oceanico usato per stimare la dispersione dei frammenti plastici nell'oceano Pacifico è ben costruito e su basi solide, ma fa notare che trarre conclusioni dai modelli matematici è un'operazione da fare sempre con cautela. Il ricercatore nota inoltre che l'aspetto più interessante del lavoro è la discrepanza tra le previsioni del modello di quanta plastica avrebbe dovuto essere intrappolata nel vortice e la quantità che è stata invece effettivamente trovata.
Dove sono i milioni di plastica che mancano all'appello?
Gli autori dello studio notano, infatti, che basandosi sulle stime correntemente accettate dalla comunità scientifica sugli input di plastica nell'oceano a partire da fonti di origine terrestre e di origine marina, il loro modello prevede che ogni anno entrino negli oceani del mondo tra i 5,93 e i 19,3 milioni di tonnellate di plastica. Anche nel vortice del Pacifico Nord, proseguono gli autori, avrebbero dovuto esserci milioni di tonnellate di plastica, mentre loro ne hanno trovate solo 79.000 tonnellate. La differenza di due ordini di grandezza, proseguono gli autori, suggerisce che esistano dei meccanismi che rimuovono la plastica dalla superficie dell'oceano e/o che frammentino la plastica in particelle di dimensioni inferiori a quelle prese in considerazione dello studio (< 0.05 cm).
I polimeri plastici galleggianti rappresentano circa il 60% della produzione di plastica, quindi circa la metà di tutta la plastica che arriva nell'oceano probabilmente affonda e va ad accumularsi nei sedimenti e nei canyon sottomarini. Il resto dei rifiuti plastici che invece hanno una densità che li farebbe galleggiare, ma che non sono stati ritrovati, rimane probabilmente intrappolato lungo le coste, oppure è ingerito dagli organismi marini o è rimosso esso stesso dalla superficie degli oceani a causa della perdita di galleggiabilità dovuta al biofouling e all'aggregazione.
Gli autori notano inoltre che nei loro campioni la maggior parte della massa totale dei rifiuti sono reti (46%) e altri attrezzi per la pesca, mentre i rifiuti di origine terrestre sono poco rappresentati, nonostante si ritenga che questi rappresentino dal 60 all'80% del totale dei rifiuti plastici. La sovra rappresentazione di rifiuti di origine marina, proseguono, potrebbe essere dovuta al fatto che questi prodotti sono creati per resistere specificatamente alle condizioni marine.
Non confondere il sintomo con le cause.
In contemporanea con la pubblicazione dell'articolo scientifico su Scientific Reports sull'isola di plastica, in Gran Bretagna è stato pubblicato il rapporto Foresight Future of the Sea secondo il quale l'inquinamento da plastica negli oceani potrebbe triplicare da qui al 2050 a meno che non sia messa in atto "una risposta di grandi dimensioni" per evitare che la plastica arrivi negli oceani. Secondo questo rapporto, l'inquinamento da plastica è uno dei pericoli ambientali più gravi per il mare, assieme all'aumento del livello del mare e all'aumento delle temperature delle acque.
Stefano Aliani ritiene che per risolvere il problema dell'inquinamento da plastica è necessario focalizzarsi su aspetti dell'economia circolare, creando percorsi virtuosi che mettano in atto una gestione intelligente della plastica e riducano gli sprechi. Secondo il ricercatore "Pensare di pulire il mare non è sostenibile", e mette in guardia dal non confondere il sintomo, la plastica nell'oceano, con il problema, un cattivo utilizzo della plastica e un'inadeguata gestione dei rifiuti prodotti: "Per svuotare una vasca da bagno dove il livello dell'acqua è in continuo aumento, la prima cosa da fare non è andare a cercare un secchio più grande. La prima cosa da fare è chiudere il rubinetto". (Tosca Ballerini e Laura Parker, 2018)