Desember 2019. La bomba.

 

 

 

 

 

 

 


“El mestée del mes” ricorda la strage di piazza Fontana a Milano. Sono trascorsi 50 anni da quel 12 dicembre 1969 che dimostrò che la strategia della tensione (come poi venne chiamata) iniziatasi alcuni mesi prima non aveva, ne avrebbe avuto successivamente con altre stragi, alcun limite pur di disarticolare la classe operaia e la sinistra, alfine di strutturare e consolidare il potere dominante. Strategia creata e realizzata da apparati dello stato, centri eversivi internazionali(CIA, Nato, regime dei colonnelli greci) in sintonia operativa ed esecutiva coi fascisti. Riporto due estratti dal libro recentemente scritto da Enrico Deaglio “La bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana”, e l’opera di Dario Fo “Morte accidentale di un anarchico”.

 

 

 

 

 

 

 


Se l'Italia fosse stato allora un paese “pulito” -lo era purtroppo solo nella sua parte povera, ingenua; ma non lo era certo ai vertici delle sue istituzioni-, la bomba non sarebbe mai scoppiata. Freda e la sua banda sarebbero stati arrestati prima; o, al limite -in un impeto di vergogna e colpa per quanto era stato tollerato-, sarebbero stati arrestati la sera stessa.
La polizia e i servizi segreti sapevano tutto di loro. Franco Freda, Giovanni Ventura e gli altri di quella cosa che si chiamava Ordine Nuovo del Veneto erano una cosa molto più grossa e ripugnante di quanto si sia mai creduto, ancora adesso. Erano una specie di milizia nazista, forte di un centinaio di uomini a tempo pieno, ben radicata sul territorio veneto, con disponibilità di denaro, moltissime armi, logistica e progetti quanto mai chiari: instaurare in Italia un regime militare, con riferimenti all'hitlerismo, al franchismo e al regime dei colonnelli greci. La storia di questo gruppo colpisce perché agivano sicuri dell'impunità e alla luce del sole; e “alla pari". Cioè, non erano “tollerati”, o usati per “operazioni sporche"; piuttosto sedevano allo stesso tavolo, rendevano dei favori -per esempio, si occupavano personalmente della propaganda eversiva nell'esercito; custodivano segreti militari- e spesso imponevano il loro gioco.
Se si mettono insieme tutte le carte raccolte, molto faticosamente, in cinquant'anni, il quadro si fa più chiaro. Freda & C. (e naturalmente il loro capo e ispiratore, Pino Rauti) trattavano direttamente con le questure e con il Viminale, che erano tempestivamente informati degli sviluppi dei loro progetti, attraverso agenti che fungevano da ufficiali di collegamento. Il “rapporto alla pari" comportava che le questure, per esempio, liquidassero poliziotti scomodi, non dessero seguito a denunce contro di loro, chiudessero gli occhi davanti a decine di piccoli e grandi attentati che il gruppo compiva, alle intimidazioni contro i giudici che avrebbero potuto dar loro fastidio.
È ormai provato che il gruppo venne “accompagnato” a Milano per depositare le bombe del 25 aprile; che la polizia e il Sid sapevano delle bombe messe da loro all'Università di Padova e alla scuola di Gorizia. E che conoscevano il loro progetto di passare ad azioni più devastanti.
Ultima prova ne sia la confessione, raccolta dal giudice Guido Salvini, in articulo mortis, di Paolo Emilio Taviani, che fu più volte ministro dell'Interno. Taviani raccontò che proprio il 12 dicembre 1969 un alto funzionario dei servizi, tale avvocato Matteo Fusco Di Ravello, di “fede rautiana", prima avvertì la figlia di non farsi trovare a Milano quel giorno, poi addirittura cercò di raggiungere la città in aereo da Roma per sventare l'attentato. Ma, all'aeroporto di Ciampino, venne raggiunto dalla notizia di una “caldaia scoppiata in una banca a Milano".
Il quadro non era certo quello di un paese a piena democrazia; piuttosto, a capo della nostra polizia c'erano persone che sicuramente simpatizzavano con un gruppo come quello appena descritto. E non erano i soli. Ancora oggi si rimane colpiti dal "consenso" che il gruppo Freda aveva, non nonostante, ma proprio per quello che diceva e faceva. La libreria di Padova che esponeva i testi razzisti e antisemiti era un posto frequentato dai giovani universitari, per cui Freda era carismatico; lo stesso, che peraltro svolgeva la funzione di procuratore legale, usava il suo ufficio per confezionare bombe, convocare elettricisti e artificieri, scrivere lettere minacciose alle alte cariche dell'esercito, ai giudici, alla comunità ebraica di Padova.
E ancora adesso si rimane stupiti dalla tranquillità con cui Giovanni Ventura raccontava le sue imprese, vantava le sue amicizie. Questo clima e questo contesto aiutano a capire come sia stato possibile che la denuncia circostanziatissima di Guido Lorenzon sia stata, per anni, trattata come la pazzia di un uomo “disturbato”. In fondo, era vero: quella di Freda e Ventura era la normalità. Davvero un mondo a parte, se neanche la vasta e diffusa opera di “controinformazione" di quegli anni riuscì a entrarci.
Questo, più o meno, quello che successe appena prima e appena dopo Piazza Fontana. Ma addirittura peggio è quello che successe dopo. Un rapporto di complicità tra terroristi e la parte, vincente, di uno Stato molto “arcano” -la definizione fu di Norberto Bobbio -, durato più o meno cinquant'anni.
Si poteva interrompere un rapporto del genere? È molto difficile, come vedremo. Cominciarlo espone comunque a brutte conseguenze, come abbiamo visto. Gli attentatori di Piazza Fontana non furono minimamente sfiorati dalle indagini.. E naturalmente furono ben contenti dell'arresto di Valpreda e della morte di Pinelli. Ma non si ritirarono certo a vita privata; non furono nemmeno redarguiti dai loro sponsor. Il progetto non si era realizzato per intero, ma in realtà era stato un "test". Il gruppo era rimasto compatto, le protezioni politiche assicurate, dalla magistratura non arrivavano segni di attacco contro di loro. Freda, Ventura e Rauti vengono arrestati per la prima volta solo nel 1972, a tre anni di distanza, dall'unico giudice, Giancarlo Stiz di Treviso, che era riuscito a sfuggire alle manovre del depistaggio.
Ma il gruppo non si ferma: quella specie di “kombinat” fatto di terroristi, spie e servizi segreti è responsabile dell'attentato alla Questura di Milano, della messinscena a Peteano, della strage di Brescia. Uomini e meccanismi dello stesso ambiente si troveranno ancora nella strage della stazione di Bologna e persino negli omicidi eccellenti in Sicilia: come se fosse un effetto seriale che prende piede, una macchina collaudata che gira quasi in automatico. Le investigazioni di polizia in tutto questo periodo non sortiscono praticamente alcun effetto. Per esempio, nei decenni di processi non risulta che la polizia giudiziaria, i servizi segreti o la professionalità di svariati pubblici ministeri abbiano mai scoperto alcunché di importante. Piuttosto sono stati continui gli aiuti dati alla banda. Controlli non eseguiti, perizie non effettuate, intercettazioni non funzionanti, testimoni non ascoltati si sono susseguiti per circa vent'anni.
L'unica attività che ha visto impegnato lo Stato è stata quella di sposare e alimentare con ogni genere di falsità la pista anarchica. L'unico intervento che smosse un po' le acque sul fronte processuale avvenne nel 1974, quando il ministro della Difesa Giulio Andreotti rivelò a un giornale che Guido Giannettini era effettivamente un agente del Sid. (L'agente era stato intanto “esfiltrato” dal Sid e sarà regolarmente stipendiato dai servizi stessi, fino alla morte, per diabete, avvenuta nel 2003.) Stesso percorso per Marco Pozzan, stretto sodale di Freda e ai vertici del suo gruppo: considerato soggetto debole, venne fatto espatriare in Spagna, sempre dal Sid.
Provo a venire all'altro aspetto della questione; quello che va sotto il nome di “depistaggio". La parola all'epoca era poco usata e vaga; solo dal 2016 il “depistaggio" è reato grave. Dunque -prima ancora che il reato esistesse– la “pista anarchica” venne preparata minuziosamente e venne sperimentata con i primi attentati del 25 aprile. A preparare una lista di possibili sospetti fu l'Ufficio Affari Riservati, con il valido contributo della Questura di Milano.
Venne “creata” (come se fossero tanti avatar) una rete di giovanissimi anarchici che ruotavano nell’”entourage sovversivo" dell'editore Feltrinelli, che sarebbe stato il vero "pesce grosso" da presentare al pubblico dopo la strage: vennero ricostruite le loro vite, le loro personalità, i loro spostamenti, i buchi nei loro alibi, come era pratica corrente dei manuali della polizia fascista; e probabilmente i funzionari preposti erano gli stessi. Vennero arrestati (e anche torturati) per le bombe del 25 aprile 1969, che la polizia e i servizi sapevano per certo essere state opera del gruppo di Freda.
Venne prescelto e costruito il "personaggio Pietro Valpreda" per farlo diventare l'autore materiale dell'attentato. A tale scopo fu particolarmente importante assicurarsi che l'anarchico, da tempo residente a Roma, fosse presente a Milano il 12 dicembre. Fin dall'agosto precedente (su proposta di Roma ed esecuzione di Milano) era stato “attenzionato” il ferroviere Giuseppe Pinelli, indicato come la mente organizzativa degli attentati ai treni dell'8-9 agosto. Il piano ebbe imprevisti: il mancato scoppio alla Banca Commerciale e la morte di Pinelli. Al primo gli Affari Riservati risposero con prontezza ordinando che fosse fatta brillare la bomba per cancellare così le prove. Per il secondo lasciarono la gestione agli inquirenti milanesi, che presentarono la tesi del suicidio come prova di colpevolezza.
Visto con occhi molto freddi e molto distanti, il doppio piano -protezione degli attentatori e immediata fabbricazione di un altro colpevole- era un classico dello spionaggio militare. Grossolano, ma abbastanza adatto ai tempi; e a un paese dalla democrazia molto fragile. Tutto poté funzionare solo perché venne attuato con grande velocità. Ciò fu possibile però solo ampliando la sfera delle complicità. Cerano decisioni veloci da prendere. E, sotto questo aspetto, il piano funzionò.
Esame di cosa successe in settantadue ore a Milano. Già venerdì sera viene imposto al procuratore De Peppo di far brillare la bomba inesplosa, distruggendo così le prove che avrebbero portato in poche ore ai colpevoli. Sabato mattina, in segreto, gli uomini operativi dell'Ufficio Affari Riservati, comandati da Silvano Russomanno, prendono il potere a Milano. La Procura ne è travolta, la Questura è complice (nessuno protesta). Viene imposto l'allontanamento del magistrato di turno, Ugo Paolillo, perché troppo “autonomo”. Si stabilisce che la Procura di Roma, e non quella di Milano, è competente. Incredibile, ma vero, il procuratore De Peppo accetta, probabilmente senza bisogno di una pistola alla tempia.
Sia Pietro Valpreda sia il supertestimone Rolandi vengono "rapiti", portati a Roma senza motivo; qui vengono messi a confronto il 16 dicembre. Il magistrato Vittorio Occorsio, facendo torto al diritto e alla sua personale onestà, certifica che il riconoscimento è stato regolare. Sulla base di questo “riscontro”, la sera stessa, il tg delle 20 annuncia che il caso è risolto e Valpreda è il colpevole. A Paolillo (formalmente ancora in carica) viene impedito di svolgere quello che rimane della sua funzione. De Peppo gli toglie anche l'inchiesta sulla morte di Pinelli, fermato illegalmente, avvenuta nella notte tra il 15 e il 16; la polizia fabbrica un documento falso, per far sapere che il fermo era stato autorizzato. Il questore Marcello Guida dopo due ore annuncia il verdetto: “Si è suicidato perché colpevole". Formalmente, l'inchiesta dovrebbe andare a Paolillo, ancora in carica, ma viene affidata al sostituto procuratore Caizzi, che confermerà, senza svolgere accertamenti: “suicidio accidentale”.
Tutta la tragedia di Piazza Fontana si compì in quelle settantadue ore. Fu un golpe poliziesco-giudiziario, attuato senza incontrare particolare resistenza. Nessun giudice, in cinquant’anni, ha mai indagato su quelle settantadue ore di golpe. Piuttosto, tra i diversi protagonisti di quelle ore (Affari Riservati, Sid, ministero dell'Interno, Procura di Roma e di Milano, Ufficio politico della Questura di Milano) si stabilì un legame molto profondo e duraturo, anche se non fondato sulle migliori intenzioni. Nonostante, alla fine, tutto avesse funzionato, restavano due piccoli-grandi problemi. A Milano: una forte resistenza dell'opinione pubblica a questa versione dei fatti; a Treviso:un piccolo testimone in grado di dare molti fastidi.
Nel 1972 si apre il “processo Valpreda" a Roma. La Corte, ovviamente, dichiara la propria incompetenza e il 6 marzo rimanda le carte a Milano, dove il caso viene assegnato al sostituto procuratore Emilio Alessandrini; questi immediatamente prende contatti con il suo collega Giancarlo Stiz di Treviso, che ha ormai raccolto parecchio sulla colpevolezza del gruppo di Freda. Il procuratore generale di Milano Luigi Bianchi d'Espinosa (appena insediato dopo aver coperto lo stesso incarico a Venezia e aver conosciuto tra i primi la testimonianza di Lorenzon) dà inoltre impulso all'inchiesta sulla morte di Pinelli e l'affida al giovane sostituto procuratore Gerardo D'Ambrosio, che incrimina per omicidio volontario (derubricabile a colposo) il capo dell'Ufficio politico Allegra e il commissario Calabresi. Il 17 maggio 1972 viene ucciso a Milano il commissario Calabresi. Il 26 giugno muore per malattia il procuratore generale Bianchi d'Espinosa.
Nel frattempo gli avvocati di Valpreda hanno depositato richiesta di scarcerazione per il loro assistito per “assoluta mancanza di indizi”. Contano che Milano, alla ripresa delle attività, la conceda. Il 30 agosto (a città deserta) il procuratore di Milano -è sempre Enrico De Peppo- sollecita il procuratore generale provvisorio Mauro Gresti a dare parere favorevole alla “remissione” del processo da Milano. In tre paginette, De Peppo spiega che Milano non può ospitare il processo perché la sinistra -che descrive come violenta e potentissima- inscenerebbe manifestazioni che turberebbero il giudizio di giudici e giurati popolari. E sottolinea tre volte: il delitto Calabresi è il segno di quello che può succedere. La Cassazione è altrettanto celere. Il 13 ottobre 1972 il processo per la strage di Piazza Fontana viene spostato a Catanzaro, a 1158 km di distanza.
È il secondo golpe, questa volta solo giudiziario, ma ai massimi livelli. Ci sono pochissimi precedenti per lo spostamento di un processo così importante, in tempi di pace e in un paese democratico. Ma così era l'Italia. Catanzaro si occuperà di tutto -Valpreda, Freda, Ventura, servizi segreti, spie, infiltrati, in un solo calderone- per i successivi quindici anni.
Più rapido il verdetto per Pinelli, nel 1975: la Questura di Milano è innocente, l'anarchico è morto per un “malore attivo". Così conclude D'Ambrosio, dopo una inchiesta praticamente senza atti istruttori.
Di nuovo: tutto questo poteva essere evitato?
(…)
Poi venne il processo di Catanzaro, ma quello strazio di quindici anni passò in secondo piano. Quando, nel 1986, la Cassazione scagionò per sempre Freda e Ventura per la bomba di Milano, sì, ci fu un po' di indignazione; ma nemmeno troppa. Quel 12 dicembre e quella Piazza Fontana erano ormai molto lontani. La memoria non ci arrivava più, confusa da Moro, Bologna, Ustica, Brigate Rosse, Pecorelli, Dalla Chiesa a Palermo, la P2. Troppa roba, per chiunque.
La bomba aveva vinto.
Non solo, ma quel grumo di terrorismo al potere si era dimostrato più forte di quello che tutti pensavano. I suoi legami interni non si erano sfilacciati, nessuno dei colpevoli o dei complici si era pentito e ormai i protagonisti cominciavano a morire di morte naturale. Franco Freda prese a comportarsi come il vero vincitore. E non ha smesso ancora oggi. (Enrico Deaglio, 2019)

 

 

 

 

 

 

 

 

Il ballerino anarchico.

 


Del “mostro”, adesso, dopo cinquantanni, il primo ricordo che mi viene è che “aveva il morbo di Bürger”. Venne comunicato subito che Valpreda soffriva di questa malattia misteriosa e assolutamente non comune, e la rivelazione serviva a spiegare molte cose, praticamente tutte: dalla sua allucinata e programmata ferocia, allo stranissimo e brevissimo viaggio in taxi per portare la bomba dentro la Banca nazionale dell'agricoltura. A quel tempo ero uno studente del quarto anno di Medicina a Torino e nell'ambiente non si parlava d'altro; e dato che non c'era Google, furono gli specialisti in vasculopatie, così come in neuropatie, così come in malattie orientali, più che i politici o i criminologi a spiegare la psicologia del mostro.
Questa storia del morbo di Bürger venne fuori subito, il giorno dopo il famoso annuncio in televisione. Erano le 20 di martedì 16 dicembre 1969 ed era in corso il telegiornale, unico strumento di informazione degli italiani. Dal Viminale, dove il tg ha una postazione fissa, un giovane cronista di nome Bruno Vespa chiede la linea. È in piedi vicino a un gruppo di uomini in borghese. Dà l'annuncio, leggendo il nome da un foglietto che tiene in mano: “Si chiama Pietro Valpreda, è un colpevole, uno dei responsabili...", poi passa la parola al questore Parlato che gli è a fianco. Tranquillo, professionale, il questore loda il coordinamento delle forze della polizia, e dei carabinieri di Milano e Roma che hanno permesso di individuare il colpevole, sul quale -dice- si addensavano i sospetti "già qualche ora dopo" gli attentati. La telecamera ora fa una carrellata su un gruppo di funzionari sorridenti posizionati dietro il questore: sono evidentemente gli uomini che hanno fatto l'impresa di assicurare alla giustizia, dopo appena settantadue ore, l'autore del più grave misfatto avvenuto nella Repubblica italiana, da quando questa esiste. Facce distese, onesto funzionariato, camicie e cravatte di routine. Non un dubbio, non una perplessità.
Nella serata i giornali saranno in grado di sapere moltissime cose su Pietro Valpreda, il "ballerino anarchico”, che è stato riconosciuto da un “supertestimone", il tassista milanese Cornelio Rolandi, che lo ha preso a bordo della sua Fiat 600 multipla e, dopo un brevissimo tragitto, lo ha depositato di fronte alla banca. E... aveva in mano una grossa borsa. Nei giorni successivi vita, fotografie, opere, amicizie, personalità di Pietro Valpreda -tutte notizie che lo mettevano in pessima luce- saranno sciorinate da quotidiani, radio, rotocalchi, manifesti sui muri, in un coro di condanna preventiva da cui nessun essere umano avrebbe potuto salvarsi. Noi oggi parliamo tutti i giorni di fake news, del potere manipolatorio dei social media, di “macchine del fango": il “trattamento Valpreda" di mezzo secolo fa resta un modello inarrivabile.
Per dare un'idea dei toni, ecco qui un famoso “ritratto del mostro", pubblicato dal “Corriere d'Informazione", edizione pomeridiana dell'organo ufficiale della borghesia italiana, il “Corriere della Sera", all'epoca diretto dal leader del Partito repubblicano professore Giovanni Spadolini.


Titolo: La furia della bestia umana.
Svolgimento:
La bestia umana che ha fatto i 14 morti di piazza Fontana e, forse, anche il morto, il suicida, di via Fatebenefratelli, è stata presa, è inchiodata, [...] non la dimenticheremo mai, la bestia che ci ha fatto piangere [...] ora si comincia a respirare. [...] Il massacratore si chiama Pietro Valpreda, ha 37 anni, mai combinato niente in vita sua, rottura con la famiglia; soltanto una vecchia zia, che stira camicie e spazzola cappotti, gli dà una mano; viene dal giro forsennato del be-pop, del rock; un giro dove gli uomini sono quello che sono e le ragazze pure. S'è dimenato sulle piste delle balere fuori porta e sotto le strade del centro, faceva il boy, uno di quei tipi con le sopracciglia limate e ritoccate a matita grassa che fanno ala, in pantaloni attillatissimi, alla soubrette [...] un mestiere corto, infelice, di pochi soldi... Di più questo refoulé si ammala. Il sangue non gli circola più normale nelle arterie delle gambe [...] un passo dietro l'altro, Pietro Valpreda si avvia a diventare la bestia [...] Chissà come si incolla, come coagula questa sciagurata umanità: parlano, parlano, fanno finta di leggere o d'aver letto, si ritrovano oziosi nei caffè, giocano a scopa, si ubriacano, ogni due o tre settimane presentano ai compagni una “moglie” nuova, scendono in piazza obbedendo a un misterioso ordine di rendez-vous, qualche volta, anzi spesso, hanno guai con la polizia [...] Così nasce un Pietro Valpreda. Da questo entroterra arriva il massacro.
Ed eccolo qui - insieme a fotografie di pugni chiusi, bandiere anarchiche, giubbotti di pelle aperti sul torace, disquisizioni sulla “lue comunista" di cui è affetto -il sangue “che non gli circola più normale nelle arterie delle gambe" che sarebbe stato la spiegazione di tutto. Il “morbo di Bürger” era descritto nei libri di testo come una malattia rara -tecnicamente una “tromboangioite obliterante” (ovvero la facilità di produrre infiammazioni e trombosi in piccoli vasi)- che colpiva in particolare maschi fumatori adulti ed era più diffusa in Oriente che non in Europa. Poteva presentarsi in forme più o meno gravi e i sintomi comprendevano sensazione di caldo e freddo ai piedi e alle mani, dolori nella deambulazione, crampi improvvisi. Nei casi più gravi, si poteva arrivare a rendere necessaria l'amputazione dell'arto. Terapia: poco e nulla, ma soprattutto bisognava smettere di fumare. L'unica cosa certa del Bürger era che era associato alla nicotina.
Dunque, a Valpreda -fortissimo fumatore (“fuma cento sigarette al giorno, di cui molte oppiate”, mi ricordo che a quell'epoca si diceva che le Lucky Strike erano oppiate)- era stato diagnosticato il morbo di Bürger. Da cui, unite all'infezione anarchica, discendevano le terribili conseguenze.
1) Valpreda non avrebbe più potuto ballare e quindi gli era preclusa anche quella piccola triste vita di palcoscenici di provincia cui era abituato.
2) Valpreda aveva per questo maturato un odio verso il mondo.
3) Valpreda aveva deciso che doveva vendicarsi della società, in questo aiutato dalle sue letture sull'anarchia e la dinamite.
4) Valpreda era venuto appositamente da Roma, dove viveva, a Milano per compiere l'attentato.
5) Valpreda, per essere sicuro di non avere un crampo che l'avrebbe immobilizzato nel momento clou della sua azione, avrebbe preso il taxi di Cornelio Rolandi e percorso la distanza di 112 metri, portando con sé una grande borsa. Avrebbe poi chiesto al tassista di fermarsi, sarebbe sceso vicino alla banca e gli avrebbe chiesto di aspettarlo un momento. Sarebbe quindi tornato - senza la borsa - e avrebbe percorso altri cento metri prima di chiedere al tassista di fermarsi, pagare frettolosamente, e allontanarsi in via Albricci.
Il tutto, a ben vedere, era addirittura plausibile, anzi “verosimile”. Non c'era nessuna ragione di dubitare del tassista, che era un brav'uomo. E così la stragrande maggioranza degli italiani stigmatizzò la “belva umana" e apprezzò la sagacia della nostra polizia. Non c'era molto altro: commilitoni rivelarono ai giornali che, in caserma, il soldato Valpreda era molto incuriosito dagli esplosivi; attricette dell'Ambra Jovinelli dichiararono cose contraddittorie sui suoi spostamenti da Roma. Una compagnia teatrale disse che aveva rifiutato un ingaggio perché “aveva cose da fare a Milano”, compagni anarchici del suo stesso circolo, il Circolo 22 marzo di Roma, riferirono vagamente di esplosivi, cave, proclami bellicosi, attitudine alla violenza. La polizia andò a perquisire la stanza in una borgata romana in cui il mostro abitava e pubblicò fotografie di un tragico squallore.
Interrogatorio.
E il destino -o una pessima sceneggiatura- giocò la sua parte. Il nostro ballerino anarchico, all'inizio di dicembre, è appena uscito da una settimana di galera per una rissa in Trastevere con un gruppo di fascisti, deve andare a Milano a testimoniare al processo contro gli anarchici e deve anche presentarsi dal giudice istruttore di Milano, Antonio Amati, che lo vuole interrogare perché è accusato di vilipendio a capo di Stato estero, ovvero un volantino di insulti contro il papa. Gli ha fissato la data: venerdì 12 dicembre, Palazzo di giustizia.
E dunque parte, da solo, con la sua sgangherata Fiat 500 nel pomeriggio dell'11, viaggia tutta la notte nel freddo e arriva febbricitante alle 7 a casa della nonna Olimpia e della zia Rachele. Imbottito di aspirine e chinino, va dal suo avvocato, Luigi Mariani, che ha preso appuntamento per il giorno dopo. Valpreda torna a casa e si rimette a letto. Coperte, medicine e buio assoluto. La zia Rachele, che è uscita per andare a prendere il “paltò” buono per il nipote, viene a sapere sul bus dell'esplosione alla banca. Compra “La Notte" e lo porta al nipote.
Sabato mattina Valpreda va al Palazzo di giustizia, ma gli dicono di ripresentarsi il lunedì. Il pomeriggio e tutta la domenica Valpreda li passa tra letto e lettuccio, vede la nonna, sua sorella e un'amica di famiglia. La mattina del lunedì, col paltò buono e accompagnato dalla nonna Olimpia, ha appuntamento dall'avvocato e poi insieme tornano al Palazzo di giustizia.
E qui c'è, secondo me, il difetto di sceneggiatura. Così, per la prima volta, hanno raccontato Marco Fini e Andrea Barberi nel loro libro su Valpreda (Feltrinelli, 1972): Pietro Valpreda entra nello studio del giudice, la nonna Olimpia resta fuori e sente la sua voce concítata che dice no, no, e quella imperiosa di Amati che detta a verbale e, dopo un rumore di pugni sul tavolo, più alta insiste: "Voi anarchici, volete sangue, sempre". Me lo ammazzano, pensa nonna Olimpia che pure è una donna coraggiosa, moglie di un vecchio militante socialista, madre di un ragazzo morto a vent'anni in Grecia. Quando finalmente Pietro esce dall'ufficio del consigliere, ha la faccia sconvolta, non fa a tempo a dire neppure una parola che due agenti in borghese gli si avvicinano, lo stringono fra loro e, senza una spiegazione, lo trascinano via, fuori dall'anticamera e poi su per le scale che portano ai piani superiori del tribunale. Olimpia Torri li segue a precipizio, fa anche lei qualche gradino, inciampa, cade. Nessuno sa dove Valpreda sia finito. Olimpia Torri, Luigi Mariani e l'avvocato Luca Boneschi lo cercano ovunque, ma non lo trovano in tutto il palazzo. Alla fine tornano nell'ufficio di Amati, ci trovano il cronista giudiziario Giorgio Zicari, fedele portavoce delle tesi di Amati sul "Corriere della Sera". L'irritazione aumenta. Chiedono spiegazioni ad Amati. Il consigliere è teso, dice soltanto: “Da qui Valpreda è uscito con le sue gambe". Nel pomeriggio i due avvocati telefonano all'Ufficio politico della Questura: non ne sanno niente. Leggeranno dell'arresto dell'anarchico sui giornali del giorno dopo, quando hanno già firmato un esposto alla Procura della Repubblica per protestare contro quel fermo che assomiglia molto a un sequestro di persona.
“Questo non sciupatemelo, mi occorre," raccomanda con un mezzo sorriso il commissario Luigi Calabresi a quelli dell'Ufficio politico che stanno interrogando l'anarchico appena arrivato in questura. Alle quattro del pomeriggio, finito l'interrogatorio (di cui non c'è traccia negli atti del processo) Valpreda parte per Roma, in automobile. Il brigadiere Pagnozzi che lo scorta riferirà che durante il viaggio si preoccupa di sapere che cosa lo aspetta e lui secco risponde: “L'ergastolo". Arrivano a Roma la sera, gli danno un caffè, lo portano dal sostituto procuratore della Repubblica, Vittorio Occorsio, che lo interroga a lungo. [...] Dopo ogni protesta, puntuale Occorsio gli dice: “Le contestíamo la morte di 14 persone e il ferimento di altre ottanta".
Poi, alle tre di notte, il sopralluogo sulla via Tiburtina, alla ricerca di un fantomatico deposito di esplosivo. La mattina dopo, 16 dicembre, altro interrogatorio di ore, per due pagine di verbale. È il pomeriggio avanzato quando Valpreda arriva al Palazzo di giustizia: sono ormai trentasei ore che quasi non mangia, ogni tanto riposa su tre sedie messe in fila, solo la tensione lo tiene sveglio. Siamo nella vecchia Procura romana: corridoi alti, porte incorniciate, stanze poco illuminate da lampadine a basso voltaggio. Gli dicono di nominarsi un avvocato. Lui sceglie Guido Calvi, che l'ha assistito quando, un mese prima, è stato arrestato per una rissa a Trastevere. L'avvocato Calvi, ventinove anni, docente di Filosofia del diritto all'Università di Camerino, riceve la telefonata della Questura nel primo pomeriggio. Già sbuffa per la siesta interrotta, quando dall'altro capo del telefono gli dicono che si tratta del riconoscimento del maggiore indiziato per la strage di Milano: "Si chiama Valpreda, lo conosce già”. Proprio mentre sta per avviarsi alla Procura, Calvi viene a sapere che a Milano, il giorno prima, un tassista di nome Rolandi ha dichiarato di avere trasportato l'attentatore e l'ha riconosciuto in una fotografia di Valpreda; gliela hanno mostrata nell'ufficio del questore Guida.
Arriva al Palazzo di giustizia con il Codice di procedura penale in mano, il segno sull'articolo relativo alla "ricognizione di persona". Il sostituto procuratore Occorsio è nervosissimo, si ostina a mettere ordine fra le sue carte sul tavolo. Il commissario di Ps Umberto Improta fa entrare nella stanza quattro poliziotti vestiti da libera uscita, scarpe lucide, capelli tesi di brillantina, poi Valpreda. L'anarchico è disfatto, chiede con aria stralunata a Calvi: "Guido, ma che succede? Cosa vogliono?". “Stai calmo," gli risponde l'avvocato, "stanno facendo delle indagini. Sei solo uno dei tanti compagni arrestati per le bombe." [...]
Un plotone sta per entrare nella stanza ma Calvi, codice alla mano, chiede a Occorsio se al tassista sono state rivolte le domande di rito che devono precedere qualsiasi ricognizione. Il magistrato, sorpreso, dice di no: “Le faccia lei, avvocato". Rolandi viene fermato nel corridoio, faccia alla parete perché non veda prima del tempo Valpreda. “È già stato sottoposto a confronti, le sono state già mostrate delle fotografie, ha già visto immagini dell'uomo che è chiamato a riconoscere?” Per tre volte Rolandi risponde no, e Calvi per tre volte gli ripete la domanda. Al terzo no, l'avvocato leva di tasca un foglietto con l'appunto sulla notizia del riconoscimento fotografico di Milano. Un ufficiale dei carabinieri batte sulla spalla di Rolandi: "Su, Rolandi, fai uno sforzo di memoria, rispondi all'avvocato”. “Ah sì, a Milano mi è stata mostrata una fotografia e mi è stato detto che era quello che dovevo riconoscere." Il tassista, adesso, può voltarsi e entrare nella stanza.
Di fronte ai cinque uomini schierati non ha esitazioni: “L'è lu," dice in milanese indicando l'anarchico, con la faccia scura di barba, i capelli arruffati sopra la stempiatura, il cappotto un po' grande stretto in vita dalla cintura. "Io? ma guarda bene. Io non ho mai preso il tuo taxi in vita mia. Ma guarda bene!!!" fa Valpreda toccandosi le guance magre: anche lui parla in milanese. "Beh, se l 'ghe no lu, chi 'l ghe no" (Se non è lui, qui non c'è), sbotta Rolandi, fradicio di sudore, un tic nervoso che gli scuote il braccio destro. L'avvocato Calvi chiede di mettere a verbale: “Il teste ha ritrattato", ma Occorsio si oppone. Quest’ultima frase non passa a verbale: Occorsio non l'ha sentita.
Rolandi esce, in mezzo a poliziotti e carabinieri. Per il pm Occorsio e il giudice istruttore Cudillo non ci sono dubbi: Valpreda il giorno 13 parte per Roma, dove rimane fino alla sera del giorno successivo, quando torna a Milano. Secondo i giudici, Valpreda viaggia nella notte fra l'11 e il 12 per andare a Milano; la mattina del 12 è dall'avvocato e il pomeriggio è in piazza Fontana a mettere la bomba. Dorme, come può dormire un feroce dinamitardo con diciassette morti sulla coscienza, nella notte fra il 12 e il 13. La mattina del 13 si alza, va in tribunale, spedisce una raccomandata al giudice che lo deve interrogare, parte per Roma, rimane alzato fino alle due di notte, non va a dormire perché non ha un letto e forse gira per Roma (con la macchina targata Milano e che tutti gli agenti conoscono); il 14, domenica, è ancora a Roma; la notte fra il 14 e il 15 è in viaggio per Milano; il 15 mattina viene fermato al Palazzo di giustizia, dove, puntualmente, come aveva promesso, è andato per farsi interrogare dal giudice; lo portano in Questura e nel primo pomeriggio lo accompagnano a Roma; la notte fra il 15 e il 16 viene interrogato e va a cercare il deposito-fantasma di esplosivi; viene riaccompagnato in Questura; la sera del 16 è davanti a Cornelio Rolandi e ha ancora la forza di difendersi; finalmente, alle 22 del 16, entra a Regina Coeli; ne ha ancora per un paio d'ore che dedica all'Ufficio matricola e poi trova un letto. Se così fosse, sarebbe bastato farglielo vedere un letto: avrebbe "confessato" pur di potercisi buttare sopra.

Tutta questa ricostruzione è naturalmente fasulla, ma serve ai giudici per sostenere che i parenti di Valpreda hanno mentito quando hanno detto di averlo avuto a casa malato il 13 e il 14, e in particolare che ha mentito la zia Rachele Torri, quando ha detto che era a letto malato il pomeriggio del 12, cioè nei momenti delle bombe. Così ragionava l'accusa contro Valpreda che al processo del 1972 presentò il ballerino anarchico a capo di una cospirazione ordita, non tanto dall'anarchia internazionale, quanto da lui medesimo, dalla zia, dalla prozia e da un'amica di famiglia.


La questione della lingua.
C'era una questione, tra le tante, che continuava a incuriosirmi. In tutta la vicenda Valpreda-Rolandi, il dialogo era stato in milanese, con naturalezza. Nonostante la circostanza ufficiale, nonostante si fosse a Roma, nonostante si dovesse verbalizzare, al tassista Rolandi -che peraltro era visibilmente sudato e tremava- era venuto spontaneo parlare in dialetto.
E poi c'era la voce di Valpreda. Pensavamo di sapere tutto di lui, dopo il più grande massacro mediatico mai avvenuto, ma non l'avevamo mai sentito parlare. E fu una sorpresa, quando lo sentimmo per la prima volta, una volta liberato: Valpreda parlava con un fortissimo accento milanese, con una particolare “erre” moscia e una tonalità di falsetto, questa tipica dei teatranti specializzati in personaggi popolari, o figure della mala. “La erre in questione,” mi spiega Lele Banfi, professore di Glottologia, “non è una 'erre francese' (cioè una 'erre' con articolazione di 'consonante polivibrante uvulare'); è bensì la variante di una normale 'consonante polivibrante apicodentale', leggermente velarizzata, molto diffusa in molti punti de]l'area dei dialetti lombardo-piemontesi-emiliani (nelle province di Parma, Piacenza, Pavia, Alessandria; credo anche Asti).
Non so se sia mai stata una 'caratteristica' del gergo della mala milanese. In ogni modo potrebbe essere facilmente 'appresa' e 'riprodotta': tutti i bravi teatranti che abbiano alle spalle un minimo di formazione nel campo della 'fonologia' la saprebbero realizzare senza particolari difficoltà. È un modo di 'parlare' che è, quindi, 'naturale' per chi viene da certe aree, ma che può essere appreso senza difficoltà.
Non so se e come Valpreda parlasse il dialetto milanese. È molto probabile che lo parlasse bene, direi di sì: nella Milano di fine anni sessanta il dialetto, diverso da quartiere a quartiere, era ancora molto diffuso, anche tra le giovani generazioni, soprattutto negli strati popolari."
Già. E però Rolandi, quando aveva testimoniato alla polizia della sua avventura con lo strano cliente, aveva insistito che il passeggero, che peraltro gli era sembrato “scuro di pelle", più alto di dieci centimetri, diverse basette, parlava un italiano molto chiaro e senza alcuna inflessione dialettale. E invece non solo Valpreda parlava un milanese appena appena trasformato in italiano, ma anche Rolandi, chiamato alla dichiarazione più importante della sua vita -in soggezione perché è in un ambiente diverso dal suo, in un contesto di polizia, di istituzioni- parla in dialetto. Spontaneamente. E quando Valpreda gli contesta, anche lui in dialetto, che facendo così lo rovina, Rolandi glielo concede immediatamente: “Se l'è no lu, chi 'l ghe no". Quasi che sia scattata una vera e propria complicità tra poveracci. E poi c'è la secchezza di quel: chi 'l ghe no. È una delle cose più belle del dialetto milanese: mi su no, chi 'l ghe no, quel mettere il no alla fine della sentenza, definitivo.
L'altra cosa bella del milanese è che loro dicono “i don” per dire “le donne". Una cosa simile la racconta, divertita, Natalia Ginzburg a proposito del lessico e del sense of humour del ramo milanese della sua famiglia. Il bambino Gino è malato, il padre professor Levi si infuria con la nonna Pina, milanese, che ha suggerito che sia una febbre da dentizione. “La dentizione non dà febbre!" Nonna Pina se ne va via spaventata e sulle scale incontra lo zio Silvio, anche lui in visita e gli sussurra: “Dis no che son i dent". Complicità assoluta, come due vecchi carbonari che non hanno un secondo da perdere.
Senza troppi giri di parole, come il “Tiremm innanz” di Amatore Sciesa. E poi, c'è quel “mi son de quei che parlen no” della famosa canzone, “Ma mi” - che poi vuol dire “ma io”. Curiosa storia, quella di “Ma mi”, la famosissima canzone in dialetto milanese scritta da Giorgio Strehler e musicata da Fiorenzo Carpi, cavallo di battaglia di Milva, Ornella Vanoni, Jannacci, Svampa, Milly. Era di pochi anni prima, aveva segnato la rinascita della canzone popolare. Raccontava di quattro amici poveracci arruolati e sbandati dopo l'8 settembre, che diventano partigiani, fino a quando uno di loro viene ferito in un'imboscata e portato a San Vittore dove lo torturano: “Ma mi, ma mi, ma mi, quaranta dì, quaranta nott, A San Vittur a ciapaa i bott, dormi de can, pien de malannl... Ma mi, ma mi, ma mi, quaranta dì, quaranta nott, sbattuu de su, sbattuu de giò: mi sont de quei che parlen no!”
E poi arriva il potere costituito:
“El Commissari 'na mattina el me manda a ciamà lì per lì: “Noi siamo qui, non sente alcun - el me diseva 'sto brutt terron! El me diseva - i tuoi compari nui li pigliasse senza di te... ma se parlasse ti firmo accà il tuo condono: la libertà! Fesso sì tu se resti contento d'essere solo chiuso qua ddentro..."
Strehler razzista? Leghista ante litteram? Lui non ebbe difficoltà a spiegarsi: "No, è che effettivamente i funzionari di Salò, i direttori di carcere, i capi militari provenivano davvero da Roma, dalla burocrazia dei ministeri, e per questo il nostro milanese li identificava con i terroni".
E il nostro eroe è in bilico:
“Sont saraa su in 'sta ratera piena de nebbia, de fregg e de scur, sotta a 'sti mur passen i tramm, frecass e vita del me Milan... El coeur se streng, venn giò la sira, me senti mal, e stoo minga in pee, cucciaa in sul lett in d'on canton me par de vess propri nissun! L'è pegg che in guera staa su la tera: la libertà la var 'na spiada!
Ma poi conclude:
Mi sont de quei che parlen no. Mi parli no!
Niente da aggiungere: mai canzone fu più profetica. Era la storia di Valpreda e Pinelli. Il taxi di Cornelio Rolandi. Del tassista Rolandi si dissero tante cose: che era psichicamente instabile, che era alcolizzato, che non solo aveva una tessera del Pci, ma anche una del Msi, che qualcuno gli aveva ventilato la possibilità di intascare i cinquanta milioni di taglia (una taglia vera e propria non venne mai ufficializzata, ma la voce circolava e veniva fatta circolare). ` Appena si poté vedere la sua deposizione, si scoprì che aveva descritto un uomo completamente diverso da Valpreda: più alto di dieci centimetri, con basette e attaccatura dei capelli diverse, con la pelle scura, che aveva confidato a un altro passeggero di averlo visto uscire dalla Galleria del Duomo, “dove c'è un covo...”; che per la brevissima corsa lo aveva pagato 600 lire, che erano francamente troppe - e che peraltro non risultavano nel suo registro - che aveva dato diverse versioni dei fatti, e soprattutto che il questore in persona gli aveva indicato la fototessera di Pietro Valpreda (scattata per la patente dieci anni prima, e peraltro molto diversa da com'era il Valpreda febbricitante).
Rolandi diventò scomodo anche per l'accusa e per i media. Si ammalò, perse il lavoro. Pier Paolo Pasolini che lo andò a intervistare per il film 12 dicembre lo trovò avvilito: “Non si fa più vivo nessuno, nessuno mi fa una proposta, ho un figlio giovane da mantenere". Il giudice istruttore Cudillo fece registrare una sua testimonianza a futura memoria il 2 luglio del 1970; Rolandi morì in ospedale per coma in seguito a grave insufficienza epatica il 16 luglio 1971.
Al primo processo contro Valpreda, lo stesso pm definì il suo racconto “al limite del credibile”. La questione del “morbo di Bürger", nonostante il vicequestore Provenza avesse spiegato il brevissimo viaggio in taxi con il fatto che Valpreda aveva avuto addirittura un alluce amputato, non venne più sollevata.


Mille giorni.
Pietro Valpreda venne liberato il 29 dicembre 1972, dopo mille giorni di carcere. E non perché fosse stata riconosciuta la sua innocenza, ma perché beneficiava di una legge, varata apposta per lui, che limitava i tempi della carcerazione preventiva. A Milano, in casa della zia Rachele in cui era andato ad abitare, raccontò le sue prigioni -isolamento, maltrattamenti, minacce, solitudine- ai giornalisti delle poche testate che non erano state carogne con lui (“il manifesto", “Lotta Continua”, “il Giorno", “Avanti!", “l'Unità”, “Paese Sera”, la “Rivista Anarchica") e fu in quell'occasione che si vennero a sapere, per la prima volta, i dettagli del famoso riconoscimento di Rolandi, il famoso “l'è lu", la sua drammatica risposta, cui era seguito "Se l 'è no lu, chi l'ghe no”.
Valpreda disse anche che sul cruscotto della sua 500 aveva un gadget calamitato con un piccolo bloc notes, su cui aveva scritto “cazzo” e “figa”. Disse che i poliziotti che lo interrogarono sostennero che quello era il linguaggio in codice dei terroristi altoaltesini. Cazzo per tritolo e figa per dinamite. Disse anche che gli urlavano in continuazione che Licia Pinelli era una puttana, che Pinelli era cornuto e che lui era l'amante di Licia Pinelli.
Dopo tre anni da “mostro” in prigione, Pietro Valpreda tornò a Milano. Non riuscì, o non volle più lavorare, come ballerino; trovò impiego come venditore a domicilio (non assunto, a provvigione) della casa editrice Einaudi, che a quell'epoca proponeva l'acquisto rateale della monumentale Storia d'Italia. Sposò Laura, da cui ebbe un figlio, Tupac Libero Emiliano. E così, Valpreda poteva suonarti alla porta e venderti la Storia di cui era entrato a far parte. Nessuna delle accuse riguardanti la strage che gli erano state fatte si rivelò vera, ma fu assolto, per insufficienza di prove, solo nel 1985 dalla Corte d'Appello di Bari.
Insieme al giornalista Piero Colaprico scrisse tre libri gialli, basati sulla figura del maresciallo in pensione Binda (che parla un po' in dialetto, un po' in italiano) alle prese con la nuova criminalità di Milano. Portò un cuscino di fiori ai funerali di Camilla Cederna, ma non volle entrare in chiesa perché gli anarchici non entrano nelle chiese. Morì a sessantanove anni, per un tumore, il 6 luglio 2002. I suoi funerali, al circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, richiamarono tremila persone.
Non c'entrava niente con la strage di Piazza Fontana.
Era completamente innocente. (Enrico Deaglio, 2019)