Mag 2020. Virus.
Considerazione 1. In pieno lockdown.
Dopo un paio di mesi che a livello planetario un minuscolo esserino di qualche milionesimo di millimetro ha ridotto a brandelli la nostra arroganza antropocentrica, ha dimostrato l'inadeguatezza della nostra superbia tecnocratica, l'impotenza della scienza, e ha evidenziato la friabilità delle libertà democratiche, dovremo fare un profondo esame di coscienza e renderci conto della transitorietà, precarietà e fragilità della nostra specie animale e dei suoi incensati sistemi sociali, politici ed economici.
Ma è soprattutto l'uomo del "primo mondo" che sta subendo il pressante attacco. Dalla sua torre d'avorio di ricchezza, agibilità, potere, costruita sullo sfruttamento secolare del "terzo mondo", non avrebbe mai pensato di dover vivere tale situazione. E ha barcollato.
Lui, nato e cresciuto nel benessere, si è trovato ad affrontare sconosciute paura, angoscia, insicurezza con le quali qualche miliardo di uomini convivono da sempre. Lui spera di "poter tornare come prima"... gli altri suoi simili dimenticati non possono sperare perché non c'è nessun tornare come prima quando la vita è sopravvivere giorno per giorno, senza futuro.
Lui si è difeso col "io resto a casa". Una indicazione semplice e naturale. Ma per i suoi simili dimenticati non c'è nulla di più esiziale se non irrealizzabile: la casa, quando c'è, è un locale o una capanna in cui vivono anche una decina di persone, e quando non c'è? Tutti fuori casa, ovviamente senza mascherine, disinfettanti, guanti.
Quest'uomo dovrebbe essere meno ipocrita, egoista e guardare l'altro uomo: forse capirebbe che il minuscolo esserino vagante non è oggettivamente quello che sembra ed affrontare la vita senza un assurdo panico.
Considerazione 2. A pochi giorni dalla fine del lockdown.
Al tempo del covid19 ci siamo trovati tre categorie di virologi, infettivologi ed epidemiologi.
Alla prima appartengono i fondamentalisti, i talebani della prosecuzione del lockdown per non morire di covid19 per poi morire di fame.
Alla seconda i "vecchi democristiani", che si adagiano nel mezzo, riapriamo ma con coscienza, per zone, sfruculiando con mascherine e guanti, barcamenandosi alla bell'è meglio.
Alla terza i libertari, che da buoni libertari sono ghettizzati (in quel della Svezia), che hanno asserito la rispettosa convivenza tra umani e covid19 lasciandosi libertà reciproca.
Le due prime categorie, la terza come detto vive nell'emarginazione, hanno invaso e invadono tuttora media ad ogni livello, sono divenute ospiti di pregio di talk-show, sollecitate spasmodicamente al rilascio di interviste e pareri vari.
Da questa infodemia parossistica e insopportabile è emersa -sempre da parte della triplice- la non conoscenza del covid19, per cui affermazioni contrastanti, dichiarazioni complottistiche su terapie, litigi, fregnacce della prima ora.
Nel frattempo l'esserino vagante ha operato, soprattutto in Italia affetta da ben più gravi e secolari infezioni(criminalità organizzata, corruzione, sperpero del denaro pubblico, evasione fiscale), con la connivenza di manifeste carenze socio-sanitarie strutturali, una massiccia selezione naturale, la "strage dei nonni".
Con simili premesse, d'ora in avanti, il singolo individuo che dovrà fare in attesa che la scienza riesca a controllare l'esserino vagante? Io intanto, se riaprono i ristoranti, lunedì vado a farmi una impepata di cozze, due spaghi con vongole e bottarga.
In questa situazione come non dedicare "el mestée del mes" ai virus?
A seguire quindi stralci da "Spillover", libro di David Quammen, datato 2012, fondamentale per conoscere gli esserini vaganti. Ovviamente il testo non comprende l'eventuale evoluzione della ricerca dal 2012 ad oggi e la pandemia in corso. Nell'uso corrente in ecologia ed epidemiologia, lo "spillover" (che potremmo tradurre con "tracimazione") indica il momento in cui un patogeno passa da una specie ospite a un'altra.
"Il libro è unico nel suo genere: un po' saggio, un po' reportage, è stato scritto in 6 anni di lavoro durante i quali Quammen ha seguito gli scienziati al lavoro nelle foreste congolesi, nelle fattorie australiane e nei mercati delle affollate città cinesi. L'autore ha intervistato testimoni, medici e sopravvissuti, ha investigato e raccontato con stile quasi poliziesco la corsa alla comprensione dei meccanismi delle malattie"(Le Scienze)
Tre elementi.
Si potrebbe pensare che questa lista sia una sequenza di eventi tragici ma non correlati, una serie di sfortunate coincidenze che ci hanno colpito per motivi imperscrutabili. Messa così, Machupo, HIV e SARS sono, in senso sia figurato sia letterale, "calamità naturali", dolorosi accidenti alla pari di terremoti, eruzioni vulcaniche e meteoriti, di cui si possono forse minimizzare le conseguenze ma che rimangono inevitabili. E una posizione passiva e quasi stoica, ed è sbagliata.
Che sia chiaro da subito: c'è una correlazione tra queste malattie che saltano fuori una dopo l'altra, e non si tratta di meri accidenti ma di conseguenze non volute di nostre azioni. Sono lo specchio di due crisi planetarie convergenti: una ecologica e una sanitaria. Sommandosi, le loro conseguenze si mostrano sotto forma di una sequenza di malattie nuove, strane e terribili, che emergono da ospiti inaspettati e che creano serissime preoccupazioni e timori per il futuro negli scienziati che le studiano. Come fanno questi patogeni a compiere il salto dagli animali agli uomini e perché sembra che ciò avvenga con maggiore frequenza negli ultimi tempi? Per metterla nel modo più piano possibile: perché da un lato la devastazione ambientale causata dalla pressione della nostra specie sta creando nuove occasioni di contatto con i patogeni, e dall'altro la nostra tecnologia e i nostri modelli sociali contribuiscono a diffonderli in modo ancor più rapido e generalizzato. Ci sono tre elementi da considerare.
Uno.
Le attività umane sono causa della disintegrazione (e non ho scelto questa parola a caso) di vari ecosistemi a un tasso che ha le caratteristiche del cataclisma. Tutti sappiamo come ciò avvenga a grandi linee: la deforestazione, la costruzione di strade e infrastrutture, l'aumento del terreno agricolo e dei pascoli, la caccia alla fauna selvatica (strano, quando lo fanno gli africani è "bracconaggio", quando lo fanno gli occidentali è uno "sport") , l'attività mineraria, l'aumento degli insediamenti urbani e il consumo di suolo, l'inquinamento, lo sversamento di sostanze organiche nei mari, lo sfruttamento insostenibile delle risorse ittiche, il cambiamento climatico, il commercio internazionale di beni la cui produzione comporta uno o più problemi sopradescritti e tutte le altre attività dell'uomo "civilizzato" che hanno conseguenze sul territorio. Stiamo, in poche parole, sbriciolando tutti gli ecosistemi. Non è una novità recentissima. Gli esseri umani hanno praticato gran parte di queste attività per molto tempo, anche se a lungo con l'ausilio di semplici strumenti. Oggi però siamo sette miliardi e abbiamo per le mani moderne tecnologie, il che rende il nostro impatto ambientale globale insostenibile. Le foreste tropicali non sono l'unico ambiente in pericolo, ma sono di sicuro il più ricco di vita e il più complesso. In questi ecosistemi vivono milioni di specie, in gran parte sconosciute alla scienza moderna, non classificate o a malapena etichettate e poco comprese.
Due.
Tra questi milioni di specie ignote ci sono virus, batteri, funghi, protisti e altri organismi, molti dei quali parassiti. Gli specialisti oggi usano il termine "virosfera" per identificare un universo di viventi che probabilmente fa impallidire per dimensione ogni altro gruppo. Molti virus, per esempio, abitano le foreste dell'Africa centrale, parassitando specifici batteri, animali, funghi o protisti, e questa specificità limita il loro raggio d'azione e la loro abbondanza. Ebola, Marburg, Lassa, il vaiolo delle scimmie e il precursore dell'Hiv sono un campione minuscolo di quel che offre il menù, della miriade di altri virus non ancora scoperti che in alcuni casi stanno quieti dentro ospiti a loro volta ignoti. I virus riescono a moltiplicarsi solo all'interno delle cellule vive di qualche altro organismo, in genere un animale o una pianta con cui hanno instaurato una relazione intima, antica e spesso (ma non sempre) di mutuo soccorso. Nella maggioranza dei casi, dunque, sono parassiti benevoli, che non riescono a vivere fuori del loro ospite e non fanno troppi danni. Ogni tanto uccidono una scimmia o un uccello qua e là, ma le loro carcasse vengono rapidamente metabolizzate dalla giungla. Gli uomini non se ne accorgono quasi mai.
Tre.
Oggi però la distruzione degli ecosistemi sembra avere tra le sue conseguenze la sempre più frequente comparsa di patogeni in ambiti più vasti di quelli originari. Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie. Un parassita disturbato nella sua vita quotidiana e sfrattato dal suo ospite abituale ha due possibilità: trovare una nuova casa, un nuovo tipo di casa, o estinguersi. Dunque non ce l'hanno con noi, siamo noi a esser diventati molesti, visibili e assai abbondanti. "Se osserviamo il pianeta dal punto di vista di un virus affamato" scrive lo storico William H. McNeill "o di un batterio, vediamo un meraviglioso banchetto con miliardi di corpi umani disponibili, che fino a poco tempo fa erano circa la metà di adesso, perché in venticinque-ventisette anni siamo raddoppiati di numero. Siamo un eccellente bersaglio per tutti quegli organismi in grado di adattarsi quel che basta per invaderci". I virus, soprattutto quelli di un certo tipo, il cui genoma consiste di RNA e non DNA e dunque è più soggetto a mutazioni, si adattano bene e velocemente a nuove condizioni.
Virus
La difficoltà di coltivarli in vitro rese i virus la bestia nera di ricercatori e laboratori, ma fornì anche un importante indizio sulla loro natura. Un virus non cresce in un mezzo di coltura perché può replicarsi solo all'interno di una cellula vivente, cioè in gergo tecnico perché è un "parassita obbligato intracellulare". Il suo genoma, piccolo come le sue dimensioni, è semplificato al massimo e serve solo a soddisfare le esigenze di una vita totalmente parassitaria, dipendente da quella altrui. Non contiene infatti il meccanismo della replicazione autonoma, dunque il virus deve mendicare e rubare.
Quanto è piccolo? In media un decimo di un batterio. In termini quantitativi, il diametro di un virus di forma tondeggiante è all'incirca da 15 a 300 nanometri (un nanometro è un milionesimo di millimetro). Non tutti i virus hanno questa forma, però. Ce ne sono di cilindrici e di fatti a bastoncino e alcuni somigliano a terribili costruzioni futuristiche o al modulo per l'allunaggio usato dall'Apollo. Qualunque sia la forma, racchiude un volume minuscolo e di conseguenza contiene un genoma limitato, da 2000 a 1,2 milioni di nucleotidi. Osserviamo per confronto che il genoma di un topo ne ha circa 3 miliardi. Servono tre nucleotidi per codificare un aminoacido e in media duecentocinquanta aminoacidi per fare una proteina (anche se ne esistono di molto più grosse). Fabbricare proteine è il compito dei geni e tutto il resto della cellula o del virus è il risultato di reazioni secondarie. Un genoma fatto di duemila tessere (ma le cose non cambiano se sono tredicimila come per il virus dell'influenza o trentamila come per la SARS) contiene un ben misero insieme di istruzioni, sufficiente per codificare appena otto o dieci proteine. Ma è sufficiente per rendere un virus scaltro ed efficiente.
I virus devono affrontare quattro tipi fondamentali di problemi: come passare da un ospite all'altro, come entrare nelle cellule dell'ospite, come prendere il controllo delle cellule per fare in modo di replicarsi e come uscire dalla cellula e dall'ospite. La struttura e la capacità genetica di questi organismi sono modellate per ottenere tali scopi con il minimo dispendio di energia.
L'eminente biologo britannico Peter Medawar, che ottenne il Nobel lo stesso anno di Burnet, definì i virus "cattive notizie avvolte in una proteina". Le "cattive notizie" sono rappresentate dal materiale genetico, che spesso (ma non in tutti i casi) è in grado di danneggiare l'ospite nel momento in cui sfrutta le sue cellule come luogo di rifugio e riproduzione. La proteina che le avvolge è il cosiddetto capside, che serve a due scopi: proteggere l'interno del virus quando è il caso e aiutarlo a farsi strada nelle cellule. La singola unità virale, intatta e libera, è detta virione. Il capside determina anche la forma esterna del virione. Quelli di Ebola e Marburg, per esempio, sono lunghi filamenti e fanno parte per questo di un gruppo detto filovirus. Altri sono sferici, ovoidali, fatti a elica o a icosaedro (un solido aventi facce, simile a un pallone progettato da Buckminster Fuller). Quello dell'HIV- 1 è globulare, quello della rabbia sembra una pallottola. Un piatto di virioni di Ebola e di Hendra potrebbe ricordare degli spaghettini in salsa di capperi.
Molti virus si proteggono con un ulteriore strato, detto pericapsideo envelope (involucro), formato non solo da proteine ma da lipidi prelevati dalla cellula ospite, in alcuni casi strappati dalla membrana cellulare nel momento in cui il virione esce. Sulla faccia esterna del pericapside si trova a volte una batteria di protuberanze simili ad aculei, che fanno sembrare il tutto una mina navale vecchio stampo. Sono strutture molecolari diverse per ogni tipo di virus e hanno una funzione importante. Agiscono infatti come chiavi che aprono specifici lucchetti sulla membrana della cellula bersaglio e permettono al virione di attaccarsi come un'astronave a una stazione spaziale. La loro forma differenziata non solo limita il tipo di ospite infettabile, ma anche il tipo di cellule all'interno dell'ospite stesso (nervose, dell'apparato digerente, di quello respiratorio ecc.), e quindi il tipo di malattia che possono causare. Pur essendo assai utili, tali aculei sono anche il punto debole dei virus perché costituiscono l'obiettivo primario della risposta immunitaria da parte dell'ospite attaccato. Gli anticorpi, prodotti dai globuli bianchi, sono molecole che si appiccicano alle punte e impediscono ai virioni di penetrare nella cellula.
Il capside non va confuso con la parete cellulare, di cui non è che una struttura analoga. Fin dai primordi del loro studio, i virus sono stati definiti soprattutto al negativo (non filtrabili, non coltivabili, non del tutto viventi), in particolare tramite questo assioma fondamentale: il virione non è una cellula. Non funziona allo stesso modo e non ha le stesse capacità e vulnerabilità. Ciò si riflette nel fatto che i virus sono indifferenti agli antibiotici, sostanze preziose per la loro capacità di uccidere i batteri (che sono vere cellule) o almeno di rallentarne la crescita. Un antibiotico naturale come la penicillina impedisce ai batteri di costruire la membrana cellulare, e lo stesso fa una sua versione sintetica come l'amoxiciclina. La tetraciclina invece interferisce coni processi metabolici grazie ai quali i batteri costruiscono le nuove proteine necessarie per crescere e replicarsi. I virus non hanno né membrana né metabolismo interno e sono dunque immuni a queste sostanze killer.
All'interno del capside di solito si trova solo materiale genetico, l'insieme di istruzioni necessarie per creare nuovi virioni fatti allo stesso modo. Le istruzioni, però, si possono mettere in pratica solo se inserite nei meccanismi di una cellula funzionante. Il materiale è DNA o RNA, a seconda del tipo di virus, visto che queste due molecole sono entrambe capaci di registrare ed esprimere informazioni. Ogni variante presenta vantaggi e svantaggi. Virus a DNA sono gli herpesvirus, i poxvirus (come quello del vaiolo) e i papillomavirus, oltre a una mezza dozzina di famiglie il cui nome probabilmente non vi dirà nulla, come gli iridovirus, i baculovirus e gli hepadnavirus (uno dei quali causa l'epatite B). Tra quelli a RNA si annoverano filovirus, retrovirus (il più noto HIV-1), coronavirus (tra cui SARS-cov) e le famiglie che comprendono il morbillo, la parotite, Hendra, Nipah, la febbre gialla, la dengue, la febbre del Nilo occidentale, la rabbia, Machupo, Junin, Lassa, chikungunya, tutti gli hantavirus e tutti i virus del raffreddore e dell'influenza.
Le differenti proprietà di RNA e DNA sono alla base di una delle principali differenze tra i virus: quella tra i tassi di mutazione. Il DNA è una molecola a doppio filamento, la ben nota doppia elica; e poiché i due filamenti si legano tramite relazioni ben precise tra coppie di basi nucleotidi che (l'adenina si unisce solo con la timina e la citosina solo con la guanina) , in genere la molecola è in grado di rimediare agli errori nel posizionamento delle basi nel corso della replicazione. I restauri sono affidati alla DNA polimerasi, un enzima che catalizza la costruzione di nuovo DNA a partire dai singoli filamenti. Se un'adenina si trova in un posto sbagliato che la obbligherebbe ad esempio ad accoppiarsi con la guanina, la polimerasi se ne accorge, riporta indietro il meccanismo, corregge l'errore e poi fa ripartire il tutto. Data la presenza di questa "correzione di bozze", il tasso di mutazione nei virus a DNA è in genere relativamente basso. Invece i virus a RNA, molecola a un solo filamento, priva di un tale meccanismo di correzione basato sull'accoppiamento specifico dei nucleotidi, mutano con frequenza anche mille volte maggiore. (In verità, esiste un piccolo gruppo di virus a DNA che codificano l'informazione genetica su un solo filamento e sono soggetti ad alti tassi di mutazione. Come esistono virus a RNA con due filamenti. Sono eccezioni che confermano la regola e che ignoreremo, perché la materia è già complicata così come ve la sto raccontando). Il concetto di fondo è talmente importante che voglio ripeterlo: i virus a RNA mutano senza ritegno.
La mutazione è una fonte primaria di variazione genetica, cioè della materia prima su cui opera la selezione naturale. Gran parte delle mutazioni sono dannose, causano un malfunzionamento fatale e portano l'individuo mutante in un vicolo cieco evolutivo. Ma di tanto in tanto appare una mutazione utile e adattativa. Maggiore è il numero di mutazioni, maggiore è la probabilità che qualcuna si riveli benefica (e al tempo stesso maggiore è la possibilità che si presentino quelle letali, il che pone un limite massimo al tasso di mutazioni sostenibile). I virus a RNA, quindi, evolvono con rapidità, forse più velocemente di ogni altro tipo di organismo terrestre. E questa proprietà che li rende così sfuggenti, imprevedibili e fastidiosi.
La battuta di Peter Medawar non è sempre vera e non tutti i virus portano "cattive notizie", perlomeno non per tutti gli ospiti. A volte il loro messaggio è di tipo neutro. Altre volte può essere persino una buona notizia: certi virus offrono utili servigi ai loro ospiti. Un'infezione non sempre comporta danni significativi e a volte essere infetti implica semplicemente ospitare una certa popolazione di microbi. Un virus non deve automaticamente fare ammalare il suo ospite, perché è nel suo interesse soltanto replicarsi e diffondersi. Certo, deve entrare nelle cellule dell'ospite, sovvertire i loro meccanismi fisiologici per creare sue copie, e spesso così facendo le distrugge; ma non sempre tutto ciò è causa di danni seri. Un virus può starsene buono dentro un organismo, senza fargli male, replicandosi senza esagerare e trovando un modo per spostarsi da un ospite all'altro, il tutto senza causare sintomi. La relazione tra un patogeno e il suo ospite serbatoio, per esempio, tende a evolversi fino a raggiungere una tregua permanente, a volte dopo lungo contatto e molte generazioni di accomodamenti evolutivi, nel corso dei quali il parassita si fa meno virulento e il parassitato più tollerante. Tra le caratteristiche che rendono un organismo serbatoio, per definizione, c'è proprio l'assenza di sintomi. Non tutte le relazioni tra virus e ospite evolvono in direzioni così piacevoli, che rappresentano una forma speciale di equilibrio ecologico.
E come tutti gli equilibri biologici, sono situazioni temporanee, provvisorie, contingenti. Quando avviene uno "spillover" il virus entra in un nuovo ospite e la tregua si rompe: la reciproca tolleranza non è trasferibile, l'equilibrio si spezza, si instaurano nuove relazioni. Una volta entrato in un organismo a lui non familiare, il virus può trasformarsi in un innocuo passeggero, una moderata seccatura o una piaga biblica. Dipende.
Esplosione & bruchi liquefatti
Vorrei concludere raccontandovi una storiella che ha come protagonisti i bruchi. Potrebbe sembrarvi un argomento assai distante dalle origini e dai pericoli delle malattie zoonotiche, ma fidatevi: ci sono parecchi punti di contatto.
Tutto iniziò nel 1993. Quell'anno, nella cittadina piena di verde dove abito, sembrava che l'autunno fosse arrivato troppo presto, anche per una valle del Montana occidentale dove i primi venti freddi si fanno sentire a metà agosto, i pioppi iniziano a cambiare colore poco dopo il primo weekend di settembre e la prima nevicata seria spesso crea problemi a Halloween. Questa volta però era diverso: era appena giugno, ma sembrava autunno perché gli alberi erano spogli. Le foglie, come ogni anno, erano spuntate dai germogli fresche e verdi a maggio, ma dopo un mese erano sparite. Non avevano ceduto al ritmo naturale delle stagioni, diventando prima gialle e poi cadendo a formare quelle pile che danno all'autunno il suo profumo caratteristico. No, qualcosa le aveva mangiate.
Un'invasione da piaga biblica di piccole larve pelose aveva lasciato gli alberi nudi. Il nome latino di questi voraci mangiafoglie è Malacosoma disstria, ma tutti, la stampa locale, i frequentatori dei parchi cittadini, gli impiegati dell'ufficio agrotecnico della contea (subissati quotidianamente di telefonate da parte di persone preoccupate), la radio, li chiamavano "tent caterpíllars", "bruchi tenda". In breve quel nome diventò abituale nelle battute che ci scambiavamo per strada. Non era del tutto sbagliato, ma neanche esatto. Colpevoli del misfatto erano i "forest tent caterpillars", che però -a differenza dei "western tent caterpillars" (Malacosoma californicum), loro stretti parenti- non costruiscono nidi a forma di tenda. Quei bruchi si limitavano a radunarsi in gran numero e a spostarsi tutti insieme, come gnu durante una migrazione nel Serengeti. Ma nessuno di noi era interessato a tali sottigliezze entomologiche. Volevamo solo trovare un modo per sterminare quei maledetti mostriciattoli, prima che riducessero a mozziconi i nostri magnifici alberi.
Era uno spettacolo grandioso nella sua bruttezza. Non tutti gli alberi erano nudi, ma la maggior parte sì, specialmente quelli più grandi e antichi come gli olmi e i frassini che abbellivano le strade e le ombreggiavano con le loro folte chiome. Tutto avvenne con grande rapidità. I bruchi si alimentavano soprattutto di giorno o all'imbrunire; ma in certe notti fresche di giugno, sotto i grandi alberi, si poteva ancora sentire un leggero crepitio, come di un incendio boschivo lontano, quando i loro escrementi cadevano al suolo passando attraverso il fogliame. La mattina, i marciapiedi erano ricoperti da una fitta spolverata di cacchette nere, simili a semi di papavero. Di tanto in tanto un bruco solitario scendeva dai rami appeso a un filamento di seta e ballonzolava ad altezza uomo con aria beffarda. I bruchi non gradiscono il freddo e l'umidità; nei giorni di pioggia li vedevamo raggruppati a centinaia in alto sul tronco o alla biforcazione dei rami, mucchi di corpi grigi e pelosi, come buoi muschiati stretti l'uno all'altro per proteggersi dai venti artici. Salivamo allora con le scale e spruzzavamo dell'acqua saponata sui mucchi. Li trattavamo con dosi da cavallo di batteri (sotto forma di spray) o con sostanze chimiche dal nome lungo e minaccioso, come consigliato dai commessi di un negozio locale di prodotti per il giardinaggio, che ne sapevano poco più di noi. Chiamammo un ditta specializzata in disinfestazioni, che inviò una squadra di uomini in tuta, per un raid in stile marines. Tutte queste misure difensive avevano nel migliore dei casi effetti limitati, nel peggiore erano inutili e riempivano l'ambiente di veleni. I bruchi continuavano a ingozzarsi. Per paura che si spostassero da un albero devastato a uno sano per cercarvi altro cibo, provammo a fermarne l'avanzata applicando sul tronco degli alberi non ancora infestati una striscia di un materiale vischioso, che avrebbe dovuto costituire una barriera invalicabile. Era del tutto inutile (come ho scoperto poi, i bruchi tenda di regola trascorrono tutto lo stadio larvale nell'albero dove sono nati), ma era un segno della nostra frustrazione. Osservai la mia vicina Susan mettere in atto speranzosa questa strategia difensiva per due grandi olmi davanti a casa sua, che furono spalmati ad altezza uomo con una specie di stucco. Sembrava un'idea sensata, ma neppure un bruco finì intrappolato.
I maledetti continuavano ad arrivare e facevano il bello e il cattivo tempo. Erano semplicemente troppi, e l'infestazione era inarrestabile. Li calpestavamo camminando sul marciapiede, li spazzavamo in massa dalle strade. Loro continuavano a mangiare, crescere, cambiare pelle e crescere ancora. Marciavano su e giù per i rami facendo piazza pulita del verde cittadino, quasi fosse un'appetitosa insalata.
A un certo punto si fermarono. Come bruchi avevano raggiunto la loro dimensione finale ed erano pronti per l'ingresso nella pubertà. Si infilarono in bozzoli intessuti sulle foglie per un breve riposo metamorfico e ne riemersero dopo qualche settimana sotto forma di piccole falene brune. Il rumore crepitante cessò e sulle chiome degli alberi, per quel poco che ne rimaneva, tornò il silenzio. I bruchi in quanto bruchi non c'erano più, ma quella gigantesca popolazione di insetti pestiferi era ancora lassù sulle nostre teste, quasi invisibile, come una trista minaccia per il futuro.
In ecologia un evento del genere ha un nome preciso: è un "outbreak", ovvero un'esplosione.
In questo contesto l'uso è un po' più generico rispetto all'"esplosione" di un'epidemia. Il concetto si applica a ogni forte e improvviso aumento della popolazione di una data specie. Le esplosioni capitano in certi animali e non in altri: per esempio tra i lemming, ma non tra le lontre di fiume. Sono interessate certe specie di cavallette e non altre, idem per le stelle marine e per i topi. Una esplosione di picchi è improbabile, come lo è una di ghiottoni. I lepidotteri, ordine di insetti cui appartengono farfalle e falene, presentano notevoli esempi di esplosioni: non solo i bruchi tenda del genere Malacosoma, ma anche altri temibili defogliatori come il bombice dispari (Lymantria dispar), il bombice antico (Orgyia antiqua) , la tortrice grigia del larice (Zeiraphera diniana) e altri ancora. Sono comunque eccezioni alla regola, anche tra i lepidotteri. Tra tutte le specie di farfalle e falene che vivono nei boschi, il 98 per cento circa ha una popolazione stabile nel tempo e di bassa densità, mentre il restante 2 per cento è soggetto a esplosioni. Cosa rende un organismo, si tratti di un insetto, un mammifero o un microbo, sensibile a questo fenomeno? E una domanda difficile a cui gli specialisti stanno ancora cercando di dare una risposta.
L'entomologo Alan A. Berryman ha affrontato il problema qualche anno fa in un saggio intitolato The Theory and Classification of Outbreaks, dove parte proprio dalle basi: "Dal punto di vista ecologico, un'esplosione si può definire come un estremo aumento della numerosità di una determinata specie che avviene in un intervallo temporale relativamente breve". Prosegue poi con lo stesso tono distaccato: "Da questo punto di vista, la più seria esplosione verificatasi sul pianeta Terra è quella della specie Homo sapiens". Qui allude ovviamente, consapevole della provocazione, al tasso di crescita e alla dimensione della popolazione umana, specialmente negli ultimi due secoli.
E i numeri gli danno ragione. Nel 1987, anno di pubblicazione del saggio, al mondo c'erano cinque miliardi di persone: ci siamo moltiplicati di un fattore 333 dall'invenzione dell'agricoltura, di un fattore 14 dalla fine della pandemia di peste nel Trecento, di un fattore 5 dalla nascita di Darwin, e durante la vita di Alan Berryman ci siamo praticamente raddoppiati. Nel grafico che compare nel saggio, la curva di crescita ha un picco ripido quanto una parete dolomitica. Si può spiegare il concetto anche in un altro modo: dall'epoca della nostra origine come specie, circa duecentomila anni fa, all'anno 1804 la popolazione mondiale è cresciuta fino a raggiungere un miliardo di abitanti. Tra il 1804 e il 1927 è aumentata di un altro miliardo; nel 1960 ha raggiunto i tre miliardi; e da allora è cresciuta di un miliardo ogni tredici anni circa. Nell'ottobre del 2011 eravamo sette milardi, ma anche questo traguardo è volato via, come la scritta "Welcome to Kansas" intravista sull'autostrada. E un fenomeno che risponde sicuramente al requisito di Berryman: una crescita "estrema" in un arco di tempo "relativamente breve". E vero che negli ultimi decenni il tasso di crescita è diminuito, ma è sempre più dell'1 per cento annuo, il che vuol dire circa settanta milioni di persone in più ogni anno.
Quindi siamo davvero un fenomeno unico nella storia dei mammiferi e dei vertebrati in genere. A giudicare dalle testimonianze fossili, nessun altro animale di grandi dimensioni (più grande per esempio di una formica o dei crostacei di un krill antartico) ha mai raggiunto neppur lontanamente la consistenza numerica della popolazione umana odierna. La nostra massa complessiva è pari a 340 miliardi di chilogrammi, meno delle formiche e del krill, vero, ma più di quasi tutti gli altri organismi. E siamo solo una specie di mammiferi, non un gruppo. Siamo grandi, per dimensioni, numerosità e peso complessivo. L'insigne biologo (e grande esperto di formiche) Edward O.Wilson si è sentito in dovere di fare due calcoli: "Quando Homo sapiens ha superato il traguardo dei sette miliardi, la nostra biomassa era già forse cento volte maggiore di quella di qualsiasi altro animale terrestre di grandi dimensioni mai esistito". Si riferiva solo agli animali selvatici e non considerava il bestiame, come i bovini da allevamento (Bos taurus), di cui oggi esistono nel mondo circa 1,3 miliardi di capi. Siamo solo cinque volte più numerosi delle nostre mucche (e probabilmente la nostra massa totale è minore, visto che loro sono ben più pesanti di un essere umano). Ma ovviamente questi animali non potrebbero essere così numerosi senza la nostra presenza. Mezzo miliardo di tonnellate di bovini allevati in modo intensivo, che si alimentano su terreni dove un tempo vivevano erbivori selvatici, sono solo un'altra forma di impatto umano sull'ambiente, una manifestazione del nostro appetito. E siamo consumatori affamati, a livelli senza precedenti. Nessun altro primate ha pesato così tanto sul pianeta, neanche lontanamente. In termini ecologici siamo quasi paradossali: animali di grande corporatura e molto longevi, ma assurdamente numerosi. Siamo un'esplosione, come una pandemia.
I nucleopoliedrovirus.
E le esplosioni, tanto di malattie quanto di popolazioni, hanno una cosa in comune: prima o poi finiscono. In alcuni casi dopo molti anni, in altri quasi subito. A volte gradualmente, a volte di colpo. In certi casi terminano, ricominciano e finiscono di nuovo, come se seguissero un programma regolare. Le popolazioni di bruchi tenda e di altri lepidotteri dei boschi sembrano avere un forte incremento e un rapido declino ogni cinque-undici anni. Una popolazione di bruchi tenda nella Columbia Britannica, per esempio, è soggetta a un ciclo di questo tipo almeno dal 1936. Il crollo dopo un aumento esplosivo è un evento particolarmente drammatico e per molto tempo è apparso inspiegabile. Cosa può provocare questi subitanei e ricorrenti collassi? Un possibile fattore è dato dalle malattie infettive. Si è scoperto che specialmente i virus hanno un effetto di questo tipo dopo una crescita esplosiva di popolazioni di insetti boschivi.
Nel 1993, quando i bruchi invasero la mia cittadina, presi a interessarmi all’argomento e feci qualche ricerca. Mi sembrava strano che un essere così primitivo, con un repertorio comportamentale così limitato e un insieme fisso di risposte adattative, si moltiplicasse in maniera spropositata per due anni, per poi ridursi al lumicino nell’estate successiva. Non si erano verificati drastici cambiamenti ambientali, eppure il successo della specie era radicalmente diverso. Perché? Le variazioni climatiche non c'entravano, né la diminuita disponibilità di cibo. Chiamai il locale servizio di informazione agricola e tempestai di domande un addetto. “Credo che nessuno sappia esattamente il perché di questi su e giù”, mi disse. “Succede e basta”.
Insoddisfatto e per nulla convinto da questa risposta mi misi a leggere la letteratura specializzata. Uno degli esperti nel campo era Judith M. Myers, docente all'Università della Columbia Britannica, che aveva pubblicato parecchi articoli sui bruchi tenda e un saggio di rassegna sulle esplosioni nelle popolazioni di insetti. Pur ammettendo che i livelli della popolazione dipendevano da molti fattori, Myers scriveva: “L'andamento ciclico sembra indicare la presenza di una forza dominante che dovrebbe essere semplice da identificare e quantificare. In realtà, questa forza si è finora rivelata sorprendentemente sfuggente”. C'erano però dei sospetti. Myers puntava il dito sui nucleopoliedrovirus (NPV in sigla), che potevano essere “la tanto cercata forza regolatrice dei cicli di popolazione nei lepidotteri dei boschi”. In effetti, gli studi sul campo hanno dimostrato che i virus si propagano più rapidamente proprio in concomitanza con la crescita esplosiva delle popolazioni di lepidotteri, che sterminano come una nerissima peste nera.
Per anni non pensai più alla questione. L'invasione dei bruchi tenda nella mia cittadina era finita in modo rapido e indolore nel 1993, e l'estate successiva le larve pelose non si fecero vedere. Ma mi ricordai di quell'evento anni dopo, durante il lavoro preparatorio per questo libro, mentre assistevo a un convegno sull'ecologia e l`evoluzione delle malattie infettive ad Athens, in Georgia. Mi aveva attirato il fatto che il programma fosse costellato di interventi sulle zoonosi da parte di ricercatori di primo piano e acuti teorici. Era prevista una conferenza su Hendra e sulle volpi volanti; un’altra sulle dinamiche di “spillover” del vaiolo delle scimmie; almeno quattro sull'influenza. La seconda giornata iniziò tuttavia con qualcosa di diverso. Mi sedetti tra il pubblico senza grandi aspettative e presto mi trovai ipnotizzato da un geniale folletto di nome Greg Dwyer, specialista di ecologia matematica dell'Università di Chicago, che camminava su e giù per l’aula parlando in fretta e senza aiutarsi con appunti. L'argomento erano le esplosioni di popolazioni e le malattie degli insetti.
“Probabilmente non avete mai sentito parlare dei nucleopoliedrovirus”, disse rivolto all'uditorio. Il termine tecnico per questi patogeni era leggermente cambiato dal 1993, ma grazie al bruco tenda e a Judith Myers io lo sapevo già. Dwyer raccontò gli effetti terribili degli NPV sulle popolazioni di lepidotteri in fase esplosiva. Si concentrò in particolare sul bombice dispari (Lymantria dispar), altra piccola creatura bruna di cui aveva studiato i cicli per vent'anni. Queste falene, disse, si “sciolgono” quando vengono attaccate dal virus. Non stavo prendendo appunti, ma questo particolare lo trascrissi sul taccuino. Riportai anche questa sua affermazione: “Le epizoozie si manifestano in genere in popolazioni molto dense”. Dopo qualche altra osservazione generale, Dwyer iniziò a parlare di modelli matematici. Nella prima pausa caffè lo bloccai in un angolo e gli chiesi di fare una chiacchierata sul destino delle falene e sul futuro delle pandemie umane. Certamente, disse.
I bruchi fanno “splash”.
Passarono due anni prima che i rispettivi impegni ci permettessero di incontrarci. Andai a trovare Dwyer nel suo studio all'Università di Chicago, al pianterreno di un edificio della facoltà di Biologia che dava sulla 57ma strada. Era una stanza allegra, abbellita con i soliti poster e ritagli di vignette e con una lunga lavagna sulla parete di sinistra. All'epoca Greg aveva cinquant'anni ma sembrava più giovane, quasi fosse un simpatico dottorando con la barba prematuramente grigia. Indossava un paio di occhiali tondi di tartaruga e una maglietta nera con su stampata un'equazione differenziale terribilmente complicata e la scritta: “QUALE PARTE DI [orgia di simboli matematici] NON HAI CAPITO?”. Era una meta-burla, mi spiegò ammiccando. I simboli si riferivano a una formulazione astrusa delle equazioni di Maxwell; la persona media -oggetto della burla- ovviamente non ci capiva un tubo. Destinatari della meta-burla erano quelli che credevano di averla capita.
Ci sedemmo ai due lati della sua scrivania, ma nel bel mezzo della conversazione Dwyer saltò in piedi e iniziò a disegnare cose sulla lavagna. Mi alzai anch'io, sperando di capire qualcosa di più avvicinandomi a quegli scarabocchi. Tracciò due assi cartesiani, uno per il numero di uova di bombice presenti in un certo bosco e uno per il tempo, e mi spiegò come si caratterizza un’esplosione in termini quantitativi. Tra un picco e l'altro, la falena in questione è così rara da essere praticamente invisibile. Per contrasto, nei periodi di esplosione si trovano in ogni ettaro di bosco migliaia di “ovature”, masse contenenti circa duecentocinquanta uova ciascuna: un sacco di potenziali falene. Dwyer disegnò un grafico che rappresentava ascese e cadute dei bombici in anni successivi. Sembrava la groppa di un drago cinese, piena di ondulazioni. Poi fece uno schizzo di una particella di NPV e mi mostrò il modo in cui i virioni si impacchettano per proteggersi dalla luce solare e da altri fattori di stress ambientale. Ogni pacchetto è una massa solida di proteine a forma di poliedro contenente decine di virioni disseminati all'interno come uvette in un panettone. Mentre disegnava altre curve, Dwyer continuava a spiegarmi il funzionamento di questo subdolo virus.
I pacchetti di virus giacciono su una foglia, sudicia eredità di un bruco morto. Un bruco sano arriva lì mangiando tutto ciò che trova lungo il cammino e ingoia i pacchetti assieme al tessuto vegetale. Una volta entrato nell’organismo, il pacchetto si apre, sinistro e metodico, come una testata nucleare che rilascia le sue letali componenti sul bersaglio. I virioni si disperdono e attaccano le cellule dell’apparato digerente: entrano nel nucleo (anche questa caratteristica è registrata nel loro nome), si replicano in gran numero, escono a frotte dalla cellula e continuano l'attacco. In poco tempo il bruco si trasforma in un sacco di virus ambulante, che però continua a strisciare e mangiare come se niente fosse, perché non sembra presentare sintomi. “Se ha ingerito una dose sufficiente”, disse Dwyer, “in un primo tempo continua ad andare di foglia in foglia per alimentarsi, ma poi, dopo una decina di giorni, o in alcuni casi due o tre settimane, si scioglie come una pappa”. Ecco di nuovo quel termine così vivido, che aveva già usato a Athens: si scioglie.
Gli altri bruchi del gruppo, nel frattempo, vanno incontro allo stesso fato: “Il virus li consuma quasi del tutto dall'interno prima che cessino le funzioni vitali”. Verso la fine, man mano che la folla dei virioni dentro l'organismo diventa troppo fitta e il cibo scarseggia, il virus si riorganizza e riforma i pacchetti protettivi. E tempo di uscire all'aperto e trovare un nuovo ospite. Il bruco a questo punto è consumato e sta insieme solo grazie alla pelle, che essendo fatta di proteine e carboidrati è resistente e flessibile. Allora il virus rilascia certi enzimi in grado di scioglierla e quel che resta dell’animale esce dalla pelle come acqua da un palloncino bucato. “Chi si prende il virus finisce per fare splash su una foglia”, disse Dwyer. I bruchi si disintegrano e lasciano dietro di sé una traccia piena di particelle virali, che nelle condizioni di affollamento tipiche di una fase esplosiva, sono ben presto ingurgitate da un altro affamato animaletto. E il processo si ripete: “Arriva un altro insetto, mangia quella foglia e una o due settimane dopo... splash!”.
Nel corso di un'estate possono susseguirsi cinque o sei generazioni di tonfi, cinque o sei ondate di trasmissione durante le quali il virus diventa sempre più diffuso nella popolazione. Se inizialmente forse solo il 5 per cento dei bruchi è infetto, nell'autunno del primo anno questa percentuale può arrivare al 40. Le larve sopravvissute, nel frattempo, hanno compiuto la metamorfosi, sono diventate falene e si sono accoppiate, il tutto in un habitat sempre pieno di NPV: i pacchetti virali si trovano ora non solo sulle foglie, ma anche sulle ovature deposte dalle femmine adulte. Di conseguenza, la primavera successiva già alla schiusa delle uova una bella fetta di nuovi bruchi viene contagiata. In tal modo la diffusione dell’infezione aumenta rapidamente. E questo aumento rispetto ai livelli dell’anno precedente “si traduce in una percentuale ancora più alta di bruchi infetti nell'anno successivo”, disse Dwyer. ”Nel giro di due o tre anni, questa escalation in pratica spazza via l'intera popolazione”.
I bruchi spariscono e al loro posto resta solo il virus. A volte ce n’è talmente tanto “che si vede una specie di fluido grigio che cola goccia a goccia lungo il tronco”. Arrivano le piogge e dagli alberi scende un pianto di bruchi liquefatti e virus. Ero ovviamente a bocca aperta.
Sembra Ebola, dissi.
“Già, proprio così”. Evidentemente aveva letto in parte le stesse cose che avevo letto io e ascoltato le stesse conferenze.
Non il vero Ebola, aggiunsi, ma la versione horror data dai giornali, in cui le vittime “colano sangue da ogni orifizio”.
Era d'accordo con me. Ma anche per l’NPV disse, succedeva qualcosa di simile: “La gente mi dice: Ah, lei studia quel virus che fa esplodere gli insetti!”. Ma no, non esplodono, semplicemente si sciolgono”.
Dopo aver sentito le sue storie, esaminato i suoi grafici, apprezzato i suoi modi schietti e ammirato le equazioni di Maxwell sulla maglietta, arrivai all'argomento che mi stava più a cuore, il motivo vero della mia visita.
Secondo i dati di una settimana fa, dissi, siamo sette miliardi di persone sul pianeta. A quanto pare la nostra è una crescita esplosiva. E viviamo ammassati in spazi ristretti: pensiamo a Hong Kong o a Mumbai. Siamo strettamente interconnessi. Voliamo per il mondo. I sette milioni di abitanti di Hong Kong sono a tre ore di viaggio dai dodici di Pechino. Nessun altro animale di grandi dimensioni è mai stato così numeroso. E abbiamo anche noi la nostra bella fetta di virus potenzialmente devastanti, alcuni forse spiacevoli come NPV. Allora, che cosa ci aspetta? Fino a che punto possiamo lasciarci guidare dall'analogia con le epidemie degli insetti? Dobbiamo aspettarci di collassare come una popolazione di bruchi?
Dwyer non aveva fretta di rispondere affermativamente. Nel suo sano empirismo, diffidava delle estrapolazioni avventate. Ci devo pensare, disse.