Luj 2020. Enzo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Era tempo che volevo dedicare un "mestèe del mes" a un trittico di intellettuali, artisti in quella di Milano, che ho sempre considerato, con diverse connotazioni e specificità, emblematiche di genialità e impegno sociale e politico nell'arco temporale di tutta la loro vita.
Il primo è Enzo Jannacci medico, poetico e talvolta surreale narratore in parole e musica della periferia milanese, della marginalità, dei diversi, e come lo definì Moni Ovadia "cantore dei poveri cristi. Quello che ha cantato la bellezza malinconica degli ultimi, dei disperati e ne ha capito la bellezza e la verità profonda rispetto a tutto lo schifo dell'arroganza di quelli che si credono qualcosa". Tra alcune sue canzoni si intrufolano un ricordo di Gino & Michele, un articolo di Carlo Brambilla, un album fotografico, un testo di canzone e un concerto alla RSI del 1986.

 

 

 

 


 

 

 

Enzo, gli zingari, noi, il pacco...

 

Nel 1968 in Italia esistevano due soli canali televisivi, entrambi naturalmente Rai e in bianco e nero. La trasmissione di punta di un certo periodo dell'anno fu Canzonissima, una gara tra cantanti che dovevano, via via che passavano il turno, proporre una canzone diversa del loro repertorio. Jannacci aveva appena conosciuto lo strepitoso successo di "Vengo anch'io? No tu no!", una specie di inno dei rifiutati, forse degli sfigati, canzonetta che raccontava di uno che non lo volevano allo zoo comunale, ma non lo volevano così tanto tra i piedi che addirittura non gli permettevano di partecipare al "suo funerale".
Jannacci si presenta con quel pezzo e passa brillantemente il primo turno, come previsto. E' già un miracolo: lo stralunato, impacciato giovane medico, re delle notti milanesi tra solido jazz con pianoforte e immaginifico canzonettistico con chitarra, riesce a conquistare quello che oggi verrebbe definito come il pubblico nazionalpopolare della televisione del sabato sera. L'entusiasmo è tale, per il passaggio del turno nella trasmissione più vista dell'anno, che l'amico Fo pensa che sia arrivato il momento di forzare e spinge Enzo a proporre per la fase finale la sua ballata Ho visto un re, retaggio del teatro popolare. La canzone precorre le affabulazioni di "Mistero buffo" e si scatena in un contagioso e allegro attacco al potere e ai potenti. Naturalmente la commissione Rai -non dimentichiamo mai gli anni bui della Rai ogniqualvolta parliamo di censure- non ammette al concorso la ballata, considerandola "troppo politica e polemica".
Jannacci, deluso, accetta solo apparentemente la "bocciatura". Ma in realtà contrattacca proponendo "Gli zingari". Ecco, la nostra conoscenza vera, choccante, intima di Enzo Jannacci incomincia da lì, da quella canzone vista un sabato sera in tv da giovanissimi spettatori. "Gli zingari" -testo, musica, arrangiamento suoi- è un capolavoro di poesia, se si vuole ancora più rivoluzionario di "Ho visto un re": nelle parole, nelle immagini, nella "lentezza" della musica, negli intenti, nel suo struggente sostegno alle diversità. Il testo è in realtà breve. Ci racconta di un gruppo di zingari che si ritrova improvvisamente davanti all'immensità del mare. E' un'immagine -questa dell'uomo di fronte a una Grandezza che fatica a capire e che per questo lo possiede- abbastanza diffusa nella storia della poesia sia scritta che cantata.
Ci vengono in mente "I pastori d'Abruzzo" di Gabriele D'annunzio, dove l'impatto è tra i pastori della transumanza e il mare Adriatico; o più semplicemente, di lì a qualche anno, la bella intuizione di Guccini in "La bambina portoghese" che contrappone la fragilità di una bambina che gioca sulla spiaggia, d'innanzi all'immensità dell'oceano Atlantico. Ma la grande forza de "Gli zingari" sta innanzi tutto non solo nell'impatto di "quella gente ridotta, sfinita, svilita" con il mare, ma nel fatto che il mare interagisca con loro, "proprio loro, gli zingari", quasi fosse l'unico a capire. E allora "parlò, ma non disse di stragi, di morti, di incendi, di guerra, d'amore, di bene e di male... non disse... lui li ringraziò solo tutti di quel loro muto guardare" (...) "e diede al suo corpo un colore anormale di un rosso tremendo, qualcuno a star male, qualcuno a star male... questo fu quando gli zingari arrivarono al mare".
In epoca di grandi utilizzi del web è molto facile andare a riascoltarsi questa canzone e a capire come quarantacinque anni fa si potesse essere dentro alla realtà con coraggio e poesia. La canzone, manco a dirlo, non vinse. Forse in finale arrivò ultima, ma quel "qualcuno a star male", lì, sospeso, ci è rimasto dentro per sempre.
Poi l'abbiamo conosciuto davvero, Jannacci, quasi per caso. Tra la fine dei settanta e gli inizi degli ottanta abbiamo trascorso con lui anni quasi in simbiosi; gli aneddoti si sprecano ma non sono condivisibili fuori dal gruppo: la follia si consuma solo tra folli. Abitavamo vicini e forse Enzo, il dottor Jannacci tornato dagli Stati Uniti dopo qualche tempo di apprendistato in varie équipe mediche, apprezzò in noi la capacità di trattarlo da persona "normale", sforzandoci di dimenticare l'entusiasmo di poterlo frequentare vivolive, un vero privilegio. Lo convincemmo a tornare a giocare a pallone e divenne un solido terzino fluidificante della gloriosa squadra di Radio Popolare con la quale partecipavamo al "Torneo dell'informazione", una specie di campionato aziendale di lusso tra tutte le testate giornalistiche.
Lui ci convinse, in cambio, a diventare karateca. Jannacci era il nostro istruttore, essendo un apprezzato II dan. Avevamo formato un gruppo di iniziati quasi fanatici, in realtà fanatici al 50% del karate di Enzo e al 50% delle uscite che ne seguivano dopo la lezione, con Giorgio Gaber e compagnia cantante. Insomma, come si può immaginare fu un periodo per noi irripetibile. In quegli anni, così come prima di conoscerlo e poi negli anni a seguire, abbiamo amato alla follia questo artista capace di scrivere centinaia di canzoni raccontando gli ultimi, i vinti, gli emarginati con un dosaggio unico tra ironia, sarcasmo, comicità, impegno, dramma, profondità. Arrivava, in certi momenti, a essere struggente.
Coltivava, come ogni vero comico, il senso del tragico. Sapeva parlare per iperboli. Usava allegorie, esaltazioni, esasperazioni. Immagini colorate e quasi mai didascaliche, pennellate alla Picasso, schizzi alla Pollock; ma anche la Milano in moto di Boccioni e i fermi immagine sulle periferie di Sironi. Praticava con gusto dello spettacolo il "non-vero verosimile" sostituendolo al reale. Ci ha insegnato a diffidare di coloro che parlano solo per luoghi comuni o per certezze acquisite. Ci ha resi partecipi dei suoi spiazzamenti. Certo come lui nessuno, e tanto meno noi, ha saputo più farlo così bene. Ha avuto il dono di sapersi spostare sempre un po' più in là, per non essere messo a fuoco. Come solo i grandi sanno inventarselo, ogni volta che il suo pubblico (che poteva essere il suo interlocutore in una chiacchierata, o un'intera platea) credeva di averlo capito e pensava di poterlo anticipare, lui era già a da un'altra parte. E stupiva con una piroletta, spesso un salto mortale da fermo. La sua schizofrenia artistica arrivò a contagiare anche certi momenti della sua quotidianità, e questo lo rese unico anche nella vita.
E' incredibile la quantità di ritratti strepitosi che ci ha regalato questo poeta, irrinunciabile interprete di Milano, città-metropoli, città "terra di mezzo", come ha giustamente ricordato nel saluto in Sant'Ambrogio don Roberto Davanzo della "Caritas ambrosiana". La Milano che è cresciuta insieme a Jannacci, e di rimbalzo a noi tutti, è una metropoli che deve saper accettare e addirittura incentivare con entusiasmo morale e culturale, la sua singolare collocazione geografica che la rende appunto terra di passaggio tra Mediterraneo e mittel-nord Europa. L'accettazione come una fortuna di questa sua peculiarità ha salvato fin qui Milano, quando è stata capace di farlo. Ma è un percorso faticoso, a volte faticosissimo. Fatto di diversità anche profonde. Le canzoni di Jannacci -all'origine il divario Nord/Sud era un contrasto soprattutto nazionale- ci hanno aiutati a capirlo.
"Giovanni, il telegrafista" disperato d'amore e di abbandono; "Bobo Merenda", operaio che s'invaghisce di una lente a contatto "che da sé si applicò", ma che soprattutto lavora in una fabbrica d'armi e si chiede come mai su quei meravigliosi giocattoli che costruisce c'è scritto di maneggiare con estrema cautela; il "Ragazzo padre", sbattuto fuori casa con il figlio, che abbracciandolo al parco per il freddo viene scambiato per pedofilo; il "Dritto", cioè quello che alle feste "della casa popolare al 3" mette sui dischi; o "Gigi Lamera" che abitava dietro a Baggio e che, altro innamorato senza ritorno, "ostentava la cravatta dell'Upim" regalando alla sua bella fiori intagliati nelle lamiere.
Potremmo andare avanti all'infinito, ogni volta stupendo e stupendoci proprio come faceva lui. Inutile dire di quella che è da considerarsi una delle più grandi intuizioni della musica italiana: "il barbùn in scarpe da tennis" che sale sulla macchina del ricco e guardatocca dappertutto, ma con "rispetto..."; o il protagonista di "Andava a Rogoredo", altro innamorato abbandonato da una che aveva un "vestidìn color de trasù", che però rimanda il suicidio per riscuotere un credito; o il perdente di "Per un basìn" che appunto "per un basìn sarìa andato a Como in moto poeu saria tornaa a cà a pée", e che il bacio lo elargisce, ma naturalmente è un basìn non gradito e viene cacciato dalla balera... Infine, lo lasciamo in fondo, il muratore di "Costruzione", emozionante invenzione del suo amico Chico Buarque, vittima di un "omicidio bianco" o forse suicida (ma c'è poi tanta differenza?) che muore "contromano imbarazzando il traffico", o "il sabato", o "il pubblico". E' una delle interpretazioni di Jannacci più intense.
Ci sono poi canzoni memorabili che non parlano di personaggi singoli, ma sono pure elencazioni e qui siamo a poesie sublimi: andate a leggere i testi o ascoltare su youtube "Il Duomo di Milano", La disperazione della pietà o le varie rielaborazioni di "Quelli che..." (quest'ultima genialata è stata ispirata da una poesia di Jacques Prévert scoperta e riscritta in varie edizioni da un altrettanto indimenticato cuore della cultura milanese di quegli anni: lo scrittore e giornalista Beppe Viola, suo eterno amico). Da adolescenti eravamo particolarmente affezionati, anche per problemi oggettivi, a "Il foruncolo", altra canzone a tutela degli sfigati e scritta con Dario Fo, in cui ci veniva trasmessa, complice, l'angoscia di veder crescere un foruncolo -"o forse un orzaiolo o un patereccio"- con la consapevolezza, senza via di scampo, che "la mia ragazza non ama i foruncoli, né gli orzaioli e forse, neppure i paterecci"...
La grande capacità di Jannacci dottor Vincenzo detto Enzo, è stata quella di vivere il suo essere intellettuale nella maniera più "pop" possibile. Da pianista free-jazz "sofisticato", si convertiva in cantante sguaiato da trani; disquisiva di ragazze e di milanismi ("'sto Rivera che ormai non mi segna più") e subito dopo si metteva a parlare con lo stesso trasporto (il gusto dell'assurdo, lo spiazzamento!) di politica, di medicina, karate o musica dodecafonica. Aveva inventato un linguaggio visivo e parlato e cantato e suonato "a strappi", che gli permetteva di comunicare, quando era sereno, con straordinari impatti e immediatezze. In epoche in cui noi ci si logorava in politica per le difficoltà di viversi "intellettuali organici" (ci viene in mente un film di quei tempi: Lettera aperta a un giornale della sera di Nanni Loy), Jannacci lo era spesso e volentieri nei fatti. Sapeva cioè essere avanguardia senza perdere quelle che allora si chiamavano "le masse". Ecco come...
Siamo nel 1980. E' il periodo in cui lavoriamo "come hobby" a Radio Popolare. E' lì che abbiamo cominciato in tanti e da lì che per noi è cominciato tutto. Stavamo per decidere di abbandonare definitivamente i nostri vecchi lavori da impiegati per diventare liberi professionisti della scrittura, soprattutto comica. In quegli anni Maurizio Costanzo aveva fondato per il gruppo Rizzoli un giornale, popolare alla maniera inglese, che aveva chiamato "L'occhio". Nel nostro spazio di satira a Radio Popolare avevamo deciso di fare il verso a quell'iniziativa inventandoci "L'orecchio", cioè l'antitesi de "L'Occhio", anche perché era da ascoltare e non da leggere. Ci mancava una sigla, naturalmente la chiedemmo a Enzo, sensibile a noi, a Radio Popolare, a tutto ciò che andava contro l'informazione ufficiale.
Jannacci stava finendo un ellepì (allora erano ancora vinili) che doveva intitolarsi "Musical", dal titolo del pezzo, bellissimo, più importante dell'album ("... tu che non parli nemmeno se putacaso domani ci chiudono tutta la fabbrica, mi guardi come si guarda un parente e mi dici 'questo è il momento del musical'... "). Sapevamo che era una richiesta disperata perché non aveva tempo, era sempre in sala d'incisione. Ma Enzo se non lo prendevi per la testa lo prendevi per il cuore e se non lo prendevi per il cuore lo prendevi per le budella... Portammo, sapendolo, il testo scritto a mano alla sua portineria.
La sigla, nei nostri intenti, si doveva chiamare "Ci vuole orecchio" e in tre strofe più quattro ritornelli cercavamo con una specie di parallelismo tra la società e il mondo della musica, di spiegare quanto fosse difficile sia culturalmente, che umanamente, che politicamente svolgere il ruolo di intellettuali facendosi capire dalla gente. La nostra convinzione era (e per fortuna lo è ancora) che il massimo della vita, per un artista o di un intellettuale, è saper fare le cose in modo intelligente e il più possibile "alto", senza perdere i contatti però con il reale, cioè per intenderci con i tuoi vicini di casa che incontri dal panettiere...
Il testo consegnato a Enzo: sette blocchetti in rima fatti di sassofoni che suonano da soli mentre la base va dall'altra parte e di "chi perde il ritmo si deve ritirare, non c'è più posto per chi vuol far da solo", eccetera. Naturalmente, in seguito, proprio perché farsi capire è la cosa più difficile in assoluto, di tutta questa spatafiata -base e avanguardie- è arrivato ben poco alla gente che ha decretato il successo di questa canzonetta, diventata di lì a qualche settimana una hit. La canzone era orecchiabile e divertente. Già, perché poi la sigla Jannacci la musicò, e gli piacque così tanto che non potemmo usarla per la nostra trasmissione: la volle nel sul disco. Addirittura divenne il titolo del 33 giri che uscì di lì a poco.
Sette blocchetti in rima per un concetto riassumibile in otto parole: bisogna avere il pacco immerso dentro al secchio. Ecco: Jannacci aveva aggiunto questa semplice frase al nostro ritornello, interpretando in una riga/immagine un nostro arzigogolo infinito... Il Genio. Quello che ha distinto l'irraggiungibile Maradona dal bravo portaborracce Salvatore Bagni è esattamente questa cosa. Il secondo, cioè noi, è stato un bravo e onesto calciatore, l'altro il più grande numero 10 della storia. Perché?... "perché ci vuole orecchio, ma soprattutto bisogna avere il pacco immerso, intinto dentro al secchio. Bisogna averlo tutto, tanto, anzi parecchio". (Gino & Michele)

 

 

 

 


 
 

 

Il dottor Jannacci.


"Il dottor Jannacci riceve per appuntamento, sia i pazienti della mutua, cioè della Usl, sia i pazienti privati. Comunque lasciate un messaggio con il vostro numero telefonico. Grazie e tanti saluti". La voce strascicata di Enzo Jannacci, all' altro capo del telefono, sembra uno sketch del Laureato con Chiambretti. L'ennesimo viaggio ai confini di una facoltà. Non si riesce proprio a prenderla sul serio questa segreteria telefonica. E invece è tutto vero. Il serissimo cardiochirurgo Jannacci continua a fare il medico nel suo ambulatorio nella casa natale di via Sismondi, alla periferia di Milano, quasi all' Ortica, dove ha passato l'infanzia e l'adolescenza squattrinata ("Ero io a portare i scarp de tennis. Mio papà era maresciallo in aviazione, la mamma casalinga"). E dove conserva ancora tanti vecchi amici del quartiere. Ma è più facile incontrarlo in un altro ambulatorio, al Naga, dal nome del mitologico serpente indiano a sette teste, l'associazione volontaria che si occupa di assistenza agli extracomunitari e ai nomadi.
Qui Jannacci, al secondo piano di una casa popolare di viale Bligny, a due passi dall' Università Bocconi, viene appena può, tra una tournée e l'altra, tra una registrazione e l'altra del "Laureato bis", tra uno spettacolo e l'altro del "Bolgia umana", il suo fortunato locale sotterraneo dietro al Duomo, animato da tanti giovani cabarettisti e da musicisti esordienti, che ha appena compiuto due anni di vita. Quando arriviamo al Naga il dottor Jannacci è in fondo a un piccolo ambulatorio di due metri per quattro. Un lettino contro al muro, un ecografo nell' angolo. Dietro alla scrivania, grande come un banco di scuola, il camice bianco appeso all' attaccapanni, i capelli grigi scarruffati, parla in inglese con una povera filippina che si lamenta per un forte dolore al petto che si irradia lungo il braccio sinistro. Un paio di domande e poi la diagnosi: "Angina pectoris". La donna non ha una lira per le medicine e naturalmente non è iscritta a nessuna Usl. Ma non c' è problema. Jannacci scende di persona in farmacia, mette mano al portafogli e le compra le medicine coi suoi soldi.
Come è nato questo suo impegno nel volontariato? "Un anno fa ho saputo del Naga e sono venuto. Io sono fatto così. Sono nato povero e non dimentico le mie origini. La domenica al Bolgia facciamo la minestra per i barboni della stazione". Qualche invidioso, maligno, dice che lei lo fa per farsi bello, per farsi pubblicità, per comprarsi il paradiso. Cosa risponde? "Guardi io non faccio commenti, prendo a pugni. Sono cintura nera di karate, terzo dan. E faccio male. Mi piacciono i rapporti umani chiari e limpidi". Che tipo di malati cura al Naga? "Vedo molte malattie respiratorie e molte malattie legate alla cattiva alimentazione. Cerco di curare e di tenere alto il morale dei pazienti. Qualche mese fa è venuto da me un mussulmano di 35 anni, pieno zeppo di foruncoli. Gli ho detto che secondo ma la terapia giusta era fare all'amore più spesso. Ma lui non poteva seguire la prescrizione perché non era sposato. Adesso l'ho rivisto. Si è sposato e non ha più un foruncolo".
L'orario delle visite è finito. Jannacci scende al bar di sotto, l'ex-circolo socialdemocratico Valentini, con ancora le foto sbiadite di Turati e Saragat. Viene accolto come un eroe dagli anziani clienti, che bevono un bicchiere sotto al simbolo scrostato del sole che sorge dipinto alla parete e non perdono l'occasione per chiedere qualche consiglio medico al volo. Al tavolo il dottore racconta della sua splendida e quasi sconosciuta carriera medica: "Mi sono laureato nel '66, a Milano, con molta fatica. Volevo fare il patologo. Lavoravo al' Istituto di anatomia patologica". Praticamente all'obitorio? "Più o meno". Mi interessava la ricerca, il lavoro al microscopio. Invece finii a Niguarda a fare il chirurgo toracico". Quando comincia la lunga esperienza all' estero? "Dal '69 al '72 sono a New York, all'ospedale della Columbia University. Dove imparo a fare il chirurgo del Pronto Soccorso. Dormivo in una camera del Village con un fisioterapista che ho scoperto essere omosessuale solo il giorno che mi invitò a partecipare alla prima manifestazione per i diritti dei gay. Dal '72 al '74 sono all' ospedale di Houston. Lì mi hanno spiegato che le mie doti umanistiche non andavano molto d'accordo col mestiere di medico. "Non ci si deve innamorare degli ammalati che stanno in corsia", mi disse un giorno un professore.
Dal '75 al '76 sono in Sudafrica, a Città del Capo, nel reparto Unità intensiva dell'equipe di Barnard. Un'esperienza indimenticabile. Poi all'ospedale di Zurigo, dove mi ricordo c'erano un sacco di macchine che fischiavano e facevano strani versi. Io per farle smettere le prendevo a sberle. Ma un giorno che un paziente si era messo a urlare e fare strani versi l'infermiere si mise a prendere a sberle lui". Poi il ritorno in Italia. Jannacci lavora al pronto soccorso di Cantù, in chirurgia pediatrica all'Alfieri di Milano e in chirurgia generale all'ospedale Sacco. Collabora con Azzolina, a Firenze. Fino alla svolta dell''80, quando la musica e lo spettacolo gli fanno mettere un po' da parte la carriera medica. Come mai? "Una brutta storia. Il direttore tecnico del Sacco si chiamava Mario Chiesa. Io raccoglievo soldi per mettere in piedi il reparto di chirurgia intensiva e i soldi si volatilizzavano. Mi accusarono ingiustamente di essere assenteista. A me girarono le balle e mi misi a cantare "Ci vuole orecchio". (Carlo Brambilla, 1996)

 

 

 

 

 

 

 


Quelli che... (1975)

Quelli che cantano dentro nei dischi perché ci hanno i figli da mantenere.
Quelli che da tre anni fanno un lavoro d'equipe convinti d'essere stati assunti da un'altra ditta.
Quelli che fanno un mestiere come un altro.
Quelli che accendono un cero alla Madonna perché hanno il nipote che sta morendo.
Quelli che di mestiere ti spengono il cero.
Quelli che Mussolini è dentro di noi.
Quelli che votano a destra perché Almirante sparla bene.
Quelli che votano a destra perché hanno paura dei ladri.
Quelli che votano scheda bianca per non sporcare.
Quelli che non si sono mai occupati di politica.
Quelli che vomitano.
Quelli che tengono al re.
Quelli che tengono al Milan.
Quelli che non tengono il vino.
Quelli che non ci risultano.
Quelli che credono che Gesù Bambino sia Babbo Natale da giovane.
Quelli che la notte di Natale scappano con l'amante dopo aver rubato il panettone ai bambini... Intesi come figli.
Quelli che fanno l'amore in piedi convinti di essere in un pied-à-terre.
Quelli... quelli che... quelli che son dentro nella merda fin qui.
Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro.
Quelli che... quelli che non possono crederci ancora adesso che la terra è rotonda.
Quelli che non vogliono tornare dalla Russia e continuano a fingersi dispersi.
Quelli che non hanno mai avuto un incidente mortale.
Quelli che vogliono arruolarsi nelle SS.
Quelli che ti spiegano le tue idee senza fartele capire.
Quelli che dicono "la mia serva".
Quelli che organizzano la marcia per la guerra.
Quelli che organizzano tutto.
Quelli che perdono la guerra... per un pelo.
Quelli che ti vogliono portare a mangiare le rane.
Quelli che sono soltanto le due di notte.
Quelli che hanno un sistema per perdere alla roulette.
Quelli che non hanno mai avuto un incidente mortale.
Quelli... che non ci sentivamo.
Quelli diversi dagli altri.
Quelli che puttana miseria.
Quelli che quando perde l'Inter o il Milan dicono che in fondo è una partita di calcio e poi vanno a casa e picchiano i figli.
Quelli che dicono che i soldi non sono tutto nella vita.
Quelli che qui è tutto un casino.
Quelli che per principio non per i soldi.
Quelli che l'ha detto il telegiornale.
Quelli che lo status quo, che nella misura in cui, che nell'ottica.
Quelli che hanno una missione da compiere.
Quelli che sono onesti fino a un certo punto.
Quelli che fanno un mestiere come un altro.
Quelli che aspettando il tram né ridendo né schersando.
Quelli che aspettano la fidanzata per darsi un contegno.
Quelli che la mafia "non ci risulta".
Quelli che ci hanno paura delle cambiali.
Quelli che lavoriamo tutti per Agnelli.
Quelli che tirano la prima pietra, ma che anche la seconda e la terza e la quarta e dopo? E dopo se sa no...
Quelli che alla mattina alle sei, freschi come una rosa no, si svegliano per vedere l'alba che è già passata...
Quelli che assomigliano a mio figlio.
Quelli che non si divertono mai, neanche quando ridono.
Quelli che a teatro vanno nelle ultime file per non disturbare.
Quelli... quelli di Roma.
Quelli... che non c'erano.
Quelli che hanno cominciato a lavorare da piccoli, non hanno ancora finito... e non sanno... che cavolo fanno.
Quelli lì...