Setember 2020. Da qui all’Eternit.

 

 

 

 

"El mestée del mes" riporta un articolo di Giorgio Bona(2020) sulla produzione di amianto, specificatamente a Casale Monferrato con appunti riferiti ad altre località, e sulle conseguenze di morte procurata e inquinamento ambientale iniziatisi nel 1907. Le foto sono della fabbrica Eternit di Casale Monferrato.

 

 

 

 

 

 

 

 

Al primo colpo di tosse, al primo mal di gola, scatta la paura. La causa sta in quella fabbrica che nel 1907 aprì a Casale Monferrato il più grande stabilimento Eternit d’Europa. Lì cominciava la produzione di fibrocemento, una mistura di cemento e amianto usata nell’edilizia. Casale. Capitale storica del Monferrato, adagiata tra la pianura e la collina e attraversata dal maestoso e regale passaggio del Po conobbe i fasti regali con i Paleologi prima e i Gonzaga poi, seguita da famiglie di nobili e da una ricca borghesia industriale. Poi arrivarono i pionieri dell’amianto e la città cominciò a vivere la violenza e l’arroganza di questa nuova dinastia padronale, che diede vita all’insediamento produttivo Eternit su un’area di 94.000 mq, di cui circa 50.000 erano coperti con lastre di fibrocemento.
L’attività produttiva ebbe inizio nel 1907 e durò quasi ottant’anni, cessando completamente nel 1986. Durante questo interminabile periodo le assunzioni furono circa 5.000 con presenza simultanea che arrivava a 3.500 addetti. Soltanto a partire dagli anni sessanta si cominciò a rilevare un forte inquinamento con la fase di trasporto dell’amianto grezzo in arrivo allo stabilimento e dei prodotti finiti in partenza dai magazzini generali. Queste operazioni venivano fatte con mezzi scoperti che attraversavano da un lato all’altro la città, lungo un percorso sempre uguale. Per non parlare di rilevamenti fatti sul Lungo Po, inquinato dagli scarti liquidi e dalla pulitura delle macchine che attraverso un canale raggiungevano il fiume. Per oltre mezzo secolo le acque intrise di amianto avevano lasciato una spiaggia contaminata da scorie. Inoltre, vecchissimi filmati dell’Istituto Luce raccontavano di un trenino a scartamento ridotto che collegava Via Oggero, sede dell’Eternit, con la stazione ferroviaria distante circa un paio di chilometri, dove arrivavano sui binari dedicati i convogli carichi di materiale. All’inizio erano sacchi di iuta, poi di carta e, infine, di strutture plastificate.
Un opuscolo elaborato dall’azienda riportava: “Ecco a voi la pietra artificiale”. Questa immagine si era imposta agli occhi dei casalesi. A quei tempi tutto quello che era eternit, sapeva di miracolo. I bambini lo utilizzavano per costruirsi le capanne nei giochi, gli adulti per delimitare orti e giardini e piantumare cortili. Inoltre molti ne avevano approfittato per costruire casette senza concessione edilizia in riva al Po che rappresentavano l’evasione dalla città.
Fu il sindaco di allora, Riccardo Coppo, che con una ordinanza nel 1987 chiuse lo stabilimento, vietando l’uso di amianto su tutto il territorio comunale, e con una successiva ordinanza avrebbe fatto rimuovere come costruzioni abusive. L’ordinanza numero 83 del 1 dicembre 1987, infatti, segnò la fine di quella che venne chiamata la fabbrica della morte perché il Registro tumori del Piemonte e della Valle d’Aosta e il Servizio di Epidemiologia dei Tumori dell’USL, convenzionato con l’università di Torino, fecero rilevare una alta ricorrenza di decessi per causa di cancro alla pleura nel comune di Casale Monferrato e che la fibra era sicuramente la causa principale di questa catastrofe. Il fenomeno incriminato, oltre alle coperture di amianto, era quello dei famosi battuti e polverini. Tutte le strade dei comuni nei dintorni di Casale erano pavimentate con questo materiale, coperto da uno strato di asfalto o cemento. Le insidie erano ovunque. Bernardino Zanella, un prete operaio, aveva scritto nel lontano 1976 alla proprietà, chiedendo a chiare lettere “se un morto al giorno poteva essere sufficiente”. Non ebbe risposta. La lettera di Zanella era un segnale premonitore di quello che stava accadendo.
Verso la fine degli anni 70 cominciò a prendere credito la convinzione che l’attività lavorativa della ditta Eternit fosse accompagnata da una drammatica sequenza di patologie professionali che vennero successivamente confermate. La ditta rispose con un comunicato che si poteva leggere all’interno del posto di lavoro; si è appurato che l’amianto possa avere effetti cancerogeni, come il fumo delle sigarette. Pertanto invitiamo i nostri dipendenti a non fumare. Quindi l’Eternit continuò, nonostante fossero accertate le gravi conseguenze ambientali e peggio ancora la compromissione della salute dei lavoratori, a produrre amianto con drammatiche conseguenze fino alla chiusura.
Le malattie provocate dalla fibra, la più grave, mesotelioma pleurico, hanno un periodo di incubazione dai 25 ai 30 anni e colpirono e tuttora colpiscono non soltanto chi in fabbrica ci ha lavorato, a contatto con l’amianto, ma anche gli abitanti che ne sono venuti a contatto senza aver mai messo piede all’Eternit, perché l’amianto è stato usato in tutta la città e nei paesi intorno.
Circa 1800 decessi non sono pochi e non è ancora finita. Gli esperti dicono che l’onda lunga delle morti di tumore ai polmoni ha iniziato ad abbattersi alla fine del 2015 e andrà avanti per oltre un decennio. 50 nuove diagnosi di mesotelioma pleurico ogni anno, una alla settimana. Casale, nonostante la chiusura della fabbrica che allora aveva in forza ancora 350 lavoratori, è seduta su una bomba a orologeria pronta ad esplodere. Dal 2014, anno in cui il processo per disastro ambientale è stato prescritto in Cassazione, ci sono stati altri processi che dovevano accertare la responsabilità dell’azienda, ma nessuno è arrivato a sentenza definitiva. In questi giorni lo scenario giuridico apre il processo Eternit bis dal momento che il picco dei morti e incredibilmente aumentato.
“Al manca al fià” (in dialetto piemontese sono senza fiato). Non era un atleta dopo la maratona a dirmi queste parole, ma un lavoratore dell’Eternit, la fabbrica di amianto che aveva la sua sede a Casale Monferrato. Queste parole espresse con ilarità, con lo sfoggio di una semplice battuta, non evitano di suscitare indignazione sapendo le cause da cui provengono, perché sono pietre dure, precise e ti lasciano il segno. Perché? Cominciamo così, facendo, come si dice di solito, a fare un po’ di spazio tra le cose, muovendosi nella memoria.

 

 

 


Dal 1973 al 1977 frequentai un noto istituto superiore di Casale Monferrato. In quegli anni di pendolarismo scolastico mi fermavo con alcuni compagni a pranzo presso una trattoria con prezzi molto popolari, dove gravitavano a fine turno anche i lavoratori della Grande Fabbrica. Il titolare, allora, per ragioni di spazio, disponeva tutti in un’unica tavolata, studenti e operai insieme, per quel convivio veloce prima di riprendere le rispettive attività. Richiamavano la nostra attenzione quelle tutte blu ricoperte di polvere che noi allevati, come dicevano i nostri vecchi, nel latte di gallina, osservavamo con una certa curiosità ma anche con profondo rispetto. È in quel contesto abbiamo cominciato a conoscere in teoria il mondo della fabbrica, di quella fabbrica in particolare, la Eternit come era chiamata dai casalesi, il più grande stabilimento d’amianto in Europa.
Oggi, ricordando quegli anni, della città mi rimane impressa la Eternit che è stata il primo impatto insieme alla caserma militare. A Casale erano decine le reclute che provenivano da ogni parte d’Italia a fare il CAR. Prendo spunto per raccontare un aneddoto abbastanza ironico per dire che le reclute che si trovavano in città avevano trasformato il nome della città da Casale Monferrato in Casale “m’han fregato” proprio per il periodo di tre mesi di naja da scontare in attesa di una nuova destinazione.
Ma torniamo all’Eternit. In quegli anni la scuola coordinò una visita all’interno dello stabilimento. Era una di quelle visite che gli istituti organizzavano in collaborazione con le aziende per dare una conoscenza agli studenti del mondo del lavoro. Quello che mi aveva colpito e che aveva suscitato le domande di tutti era riferito all’ambiente e alle condizioni in cui si trovavano i lavoratori, domande che aspettano una risposta ancora adesso. Casale era una città che contava 34.000 abitanti e circa 1.800 sono morti di mesotelioma pleurico, il tumore dei polmoni provocato dall’amianto.
E allora proviamo a capirci qualcosa. Si dice che per decenni nessuno avesse sospettato che il materiale lavorato fosse così pericoloso, ma tra i lavoratori qualche presentimento già trapelava e il sospetto che qualcosa di drammatico potesse venire fuori. Annotiamo che da quando l’ordinanza del sindaco di allora Riccardo Coppo stabilì la chiusura della fabbrica, proibendo la produzione d’amianto sul territorio casalese erano state attivate circa duecento denunce e quattrocento richieste di verifiche di rischio che l’azienda non aveva preso in considerazione.
La testimonianza di un sindacalista FIOM-CGIL racconta del suo primo giorno di lavoro in Eternit, nel gennaio del 1974, quando si trovò davanti Pietro Marengo, l’operaio più vecchio. Stava seduto su un sacco di amianto, era uno degli ultimi facchini ad aver lavorato la fibra con le mani, spostandola con il forcone per disfarla. Il giovane assunto fu colpito dalle parole dell’anziano collega che erano macigni con un seguito pesante: “Cosa sei venuto a fare qui che sei così giovane? Sei venuto a morire anche tu?” Sempre il sindacalista ricorda: nel mio reparto c’era Evasio, il suo “stradinom” era Il Palombaro, veniva a lavorare ricoperto di sacchetti di plastica. “Ho una moglie e un figlio piccolo. Non voglio morire.” Si ricordano le vittime, ognuno con una storia diversa, dal momento che c’era una morte la settimana, quasi come un bollettino di guerra.
Il reparto dove l’amianto veniva lavorato era quello delle materie prime situato in un sotterraneo, dove giungevano sacchi di iuta mal sigillati di circa sessanta chili che i lavoratori, senza mezzi di precauzione, aprivano con un coltello. Appena aperto veniva messo a macinare sotto quattro molazze per disintegrare la fibra. I lavoratori avevano il compito di spurgare questi macchinari ogni volta che si bloccavano e lo facevano smuovendo e grattando l’amianto senza un minimo di protezione. Successivamente il prodotto veniva stoccato.
Negli ultimi venti anni di vita della fabbrica questo reparto venne chiuso senza alcun tipo di smaltimento, lasciandolo tale e quale come era stato dismesso e l’amianto veniva inviato direttamente nel reparto degli impasti, un reparto dove avveniva la realizzazione delle miscele per la produzione di tubi e lastre. Questo reparto era forse ancor più nocivo di quello chiuso precedentemente, perché quando si introduceva l’amianto a secco nel miscelatore si alzava una quantità di polvere impressionante, dove i lavoratori a fine turno si spolveravano addirittura con l’aria compressa.
Se la nebbia offuscava l’intera fabbrica, alla fine del turno c’era una montagnola di polvere che superava addirittura il metro. Soltanto negli ultimi anni di produttività, gli ultimi anni prima che la fabbrica cessasse, hanno cominciato ad attuare quelle che venivano definite “lavorazioni sicure” dell’amianto con delle minime precauzioni che comprendevano l’installazione di ventoline che aspiravano le polveri di tornitura, successivamente filtrate e rimesse in circolo di lavorazione. Queste ventoline dovevano lasciare nell’ambiente aria pulita (in teoria).

 

 

 


A questo bisogna fare una precisazione tecnica, ma facilmente comprensibile anche da chi non è addetto al mestiere, ovvero che per il loro funzionamento che avrebbe parzialmente migliorato l’ambiente perché questo non risolveva completamente il problema, era quello di una manutenzione quotidiana, ma in questo senso l’azienda decise per una pulizia settimanale. C’è anche da aggiungere che non era previsto un vero e proprio smaltimento delle polveri che venivano espulse all’esterno della fabbrica, per cui si disperdevano all’esterno in quanto il portone del reparto a pressione veniva lasciato sempre aperto. Sì, queste erano le condizioni di lavoro, questa era la vita dei lavoratori dentro una scatola nera rivestita di polvere bianca.
“L’uomo va, sempre e comunque, difeso e l’onere delle prove sta tutto e sempre sulle cose, soprattutto su chi le produce e le immette nell’uso umano, nell’ambiente di vita ed in particolare di lavoro. La vita dell’uomo va difesa non soltanto dai danni, ma anche dai rischi, va riparata dai colpi ma anche dalle ombre se queste proiettano una minaccia di malattia e di morte.” Questo scriveva Giulio Alfredo Maccaccaro, medico, biologo e biometrista, che si occupò di metodi della statistica applicata alla medicina e alla ricerca delle cause soprattutto ambientali e lavorative delle malattie. Maccaccaro fu uno dei fondatori di “Medicina Democratica” e, ancora studente di medicina all’Università di Pavia, partecipò attivamente alla resistenza con i partigiani dell’Oltrepò Pavese nelle file della Brigata Barni.
Questa epigrafe fu il viatico, come raccontò Riccardo Coppo, sindaco di Casale ai tempi della chiusura della Eternit, per mettere in vigore quell’ordinanza 83 che vietava la produzione e l’uso dell’amianto sul territorio Casalese. E tutto ciò fatto per riparare la città e chi la abita “dalle ombre se queste proiettano una minaccia di malattia e di morte”. Anche se la produzione di amianto era diminuita a partire dalla metà degli anni 70 proprio perché si erano rilevate malattie professionali dovute alle polveri come l’asbestosi e la silicosi, ecco che, proprio in quegli anni, cominciano ad arrivare le prime denunce e si inizia a prendere timidamente in considerazione il problema.
La struttura dell’amianto ha una composizione formata da fibre simili a quelle di un tessuto. Queste, quando vengono maneggiate, producono una polvere che si libera nell’aria e può essere respirata. La pericolosità consiste, infatti, nella capacità che i materiali d’amianto hanno di rilasciare fibre facilmente inalabili.
La produzione di cemento amianto alla Eternit di Casale Monferrato ha provocato nel tempo una sorta di pandemia, dovuta al rilascio in fabbrica e nell’ambiente circostante di fibre invisibili a occhio nudo, del diametro non superiore al mezzo millimetro e lunghe dai due ai cinque millesimi di millimetro di diametro, letali per i polmoni.
Uno studio condotto negli Stati Uniti rilevava che la polluzione della polvere di questo materiale ha incidenza fino a ventisette chilometri dal punto di lavorazione. Ecco allora che la fibra killer poteva avere effetto non soltanto su chi con l’amianto era a contatto per la lavorazione, ma su tutta la popolazione della città e la popolazione delle zone limitrofe. Possiamo aggiungere che l’attenzione a questo problema non ha interessato soltanto la scienza, anche perché c’è stata una letteratura che ne documentava la gravità. Lo scrittore Franz Kafka, padrone di una piccola fabbrica a Praga in cui si lavorava l’amianto, raccontò e descrisse le serie condizioni delle sue operaie a contatto con la fibra.
È interessante sapere cosa succedeva in quegli anni all’interno della Eternit che non era sicuramente il modello di fabbrica ideale, quella per intenderci del sogno olivettiano di azienda famiglia. La Eternit era al passo con i tempi di tutte le grandi fabbriche dove di ambiente, prevenzione e rischio non si voleva sentir parlare. Per dirla in breve, nonostante le ricerche scientifiche, avessero comunicato la pericolosità dell’amianto, l’azienda ha continuato imperterrita nella sua produzione, in barba ai dati documentati riguardo le tragiche conseguenze dell’esposizione del materiale.
Dal 1976 venne istituita all’interno dello stabilimento il consiglio di fabbrica, che decise di promuovere indagini ambientali con lo scopo di verificare la concentrazione di fibre di amianto. Ci fu anche, coordinato dalle associazioni sindacali, su una forte spinta dalla base, uno sciopero durato ottantasette ore. La richiesta dei lavoratori era quella di ottenere modifiche al processo di lavorazione. L’imposizione di mascherine di carta, la disposizione di ventole e cappe aspiranti bastarono perché la stampa si mobilitasse a parlare di una grande conquista e che l’amianto aveva cessato la sua opera di nocività e che non doveva dare più preoccupazioni. Inoltre l’imposizione dell’INAIL che aveva imposto all’azienda di predisporre pulizie straordinarie e alternare il ciclo produttivo in modo da ridurre lo spargimento delle polveri, aveva portato l’azienda medesima a ridurre il premio per il rischio di amianto.
Sembra che già dagli anni 40 l’azienda fosse a conoscenza dei rischi provocati da questo materiale. Non era un caso che agli operai che lavoravano in un ambiente “a rischio” fosse riconosciuta un’indennità in busta pari a circa ventimila lire. Questa cifra molto simbolica e ridicola rispetto alla portata del rischio, o meglio ancora del pericolo cui il lavoratore era sottoposto, era una sorta di “indennità polvere”. Alla Eternit prendevi la polvere, ti rivestiva, la respiravi, era quasi considerato normale perché faceva parte del duro lavoro.

 

 

 

 

Sul finire degli anni settanta l’azienda dispose pulizie straordinarie alternando il ciclo produttivo per ridurre lo spandimento della polvere e questo intervento portò l’INAIL a ridurre il premio corrisposto per il rischio amianto, perché per l’azienda, a parte due reparti, non c’era più alcun rischio per i lavoratori. La mobilitazione all’interno si fece sentire. La camera del lavoro inoltrò una denuncia nei confronti dell’INAIL conducendo un’indagine con i propri periti. Nonostante le macchine spente e i reparti lucidati, emerse da questa seconda indagine che l’amianto era ovunque. Avremo modo successivamente di parlare di ottant’anni di storia dell’amianto, muovendoci tra narrazione e dati alla mano che sono un disastro per una città di 34.000 abitanti.
Maledetta fibra. Abbiamo già avuto modo di dire che la polvere d’amianto non coinvolse soltanto i lavoratori della fabbrica, ma anche molti di quei cittadini che in fabbrica non avevano mai messo piede. Certo che il problema assunse un dramma, prima di tutto, di rilevanza familiare. Le mogli che lavavano le tute dei mariti venivano a contatto con la fibra, per cui anche loro diventarono, inconsapevolmente, soggetti a rischio. Molte furono vittime di mesotelioma, come se avessero fatto parte integrante di quel mondo. Così i figli. E non solo. La polvere di amianto aveva una dispersione che arrivava a contaminare a 27 km di distanza dal luogo dei processi di lavorazione. Una catastrofe.
Quando l’ordinanza 83 decretò la chiusura dello stabilimento Eternit, giunsero anche da altre realtà dati sconcertanti. Possiamo provare a segnalarne qualcuno, così, tanto per dire che il problema Eternit non aveva una rilevanza soltanto provinciale, ma una portata nazionale e anche fuori dai nostri confini.
Da un summit tenuto alla fine del 2004 a Tokio risultava che di amianto se ne producevano ancora circa due milioni di tonnellate. La Russia, la Cina e il Canada coprivano ancora due terzi della produzione mondiale. L’unica arma per convincere le multinazionali a cessare la produzione era quella di portare avanti denunce per le malattie provocate dalla fibra, accompagnate dalla richiesta di forti indennizzi per risarcimento danni. In questo modo, le multinazionali medesime, costrette a pagare, dovevano per forza interrompere, perché i costi sarebbero aumentati notevolmente e non avrebbero potuto più essere competitive.
Rimanendo, però, nell’ambito territoriale nazionale non ci privammo di nulla. I danni provocati dall’amianto causarono prima di tutto un disastro ambientale e, in secondo luogo, tragedia immane, malattie che non lasciavano scampo.
Considerando che la Eternit di Casale Monferrato fu il più grande stabilimento a livello europeo, che negli anni 60 si fece carico anche degli scarichi e degli scarti di manufatti di quel materiale che provenivano da altri siti, devastando il territorio casalese con discariche a cielo aperto, possiamo ricordare altre realtà che non ebbero nulla da invidiare in fatto di danno ambientale e di mortalità a causa delle polveri.
La Fibronit Bari provocò danni alla popolazione barese a causa dell’amianto che veniva smaltito attraverso il mare, perché l’azienda costituì la spiaggia come suo luogo privilegiato per lo smaltimento dei rifiuti, scaricati nei quasi trent’anni di lavorazioni. Così come a Casale Monferrato, dove si scaricava nel Po e la spiaggia era altamente contaminata. A Bari il problema principale si concretizzò nel corso degli anni, quando la gente che frequentava le spiagge si ammalava a causa della presenza dell’amianto nella sabbia.
La medesima cosa si riscontrò alla Eternit di Siracusa. Nei fondali marini siracusani erano presenti enormi quantità di manufatti di scarto prodotti dallo stabilimento siciliano. Anche questo era uno stabilimento di una certa importanza. Tra gli anni sessanta e gli anni settanta vi lavoravano circa trecento dipendenti e oltre cinquanta morirono per tumore alle vie respiratorie. Molti di questi lavoratori si ammalarono in seguito.
In ultimo aggiungiamo la Fincantieri di Monfalcone, dove il reparto di Oncologia dell’ospedale cittadino, nei primi anni settanta, scoprì tra i cartieristi un’altissima incidenza di mesoteliomi. L’amianto venne sostituito dalla lana di vetro e di roccia, e con questo divenne difficile prevedere fin dove arrivavano i danni provocati dall’amianto e dove cominciavano quelli con le materie con cui fu rimpiazzato.
Terribili le testimonianze raccolte dai lavoratori. La vedova di un operaio della Fincantieri di Monfalcone riporta: “Mio marito ha fatto il tubista per trentacinque anni in quella fabbrica. Ha incominciato a star male quattro giorni dopo che era andato in pensione. Un anno dopo arrivò la diagnosi: mesotelioma pleurico. Morì dopo quattro mesi”. Per questo con fermezza i lavoratori dichiararono “Comparire per non scomparire” e l’aula di un tribunale a questo punto era l’unico spazio per chiedere un po’ di giustizia. Anche i lavoratori della Fincantieri avevano in passato gli stessi metodi di lavorazione dell’amianto che avevano i colleghi casalesi. A mani nude senza protezione. “Noi ci tiravamo i sacchi di amianto puro, lo scaricavamo dalle navi che venivano dal Sud Africa. L’amianto ci finiva anche in tasca. Chi di noi ha lavorato in cooperativa non ha neppure un padrone con cui prendersela.”

 

 

 

 

Tutti questi risultati hanno contribuito nel tempo a confrontare i risultati delle commissioni lavoro su quattro grandi tematiche: salute ed epidemiologia, bonifiche, legislazione e previdenza. Una cosa è certa, che le cifre erano pesanti. Tremila morti ogni anno in Italia per tumori ai polmoni, milioni di metri cubi di eternit da rimuovere, anche negli asili, nelle scuole, in edifici pubblici e privati. I dirigenti degli stabilimenti dove si lavorava l’amianto avevano sempre sostenuto di non sapere della sua pericolosità, e se fosse stato abbattuto prima forse avremmo ridotto i danni. Ci si chiede, in ogni caso, quanto le aziende fossero tenute a prendere in considerazione tutte le precauzioni a protezione della salute dei lavoratori. E se nessuno aveva preso in considerazione le condizioni di salute dei lavoratori con tutti i possibili rischi che ne derivavano, figuriamoci se veniva preso in considerazione la situazione che si era creata all’esterno.
Dopotutto, quando l’amianto è stato abbattuto, erano passati cinque anni dall’ordinanza che fece chiudere la Eternit di Casale Monferrato. Era il 1992. Da una conferenza emergeva, però, che gli ultimi paesi entrati nell’Unione Europea adoperavano ancora l’amianto. Dovevano metterlo al bando, applicando una direttiva europea che avrebbe dovuto essere avanzata per i paesi dell’est. Ma prima di arrivarci c’era ancora parecchia strada da fare.
I miei anni studenteschi a Casale Monferrato sono legati anche a frequentazioni sportive con un piccolo gruppo di atleti locali. Arrivai a loro grazie a Romano Caligaris, una conoscenza comune e grande maratoneta che conseguì ottimi risultati a livello nazionale e internazionale. Fu proprio Romano a presentarmi un altro atleta di notevoli capacità con innate doti di mezzofondista. Iniziai così, durante la mia permanenza nella capitale del Monferrato, ad allenarmi. Il nostro ritrovo era il Natal Palli, lo storico stadio del Casale Calcio. Da lì, a volte, correvamo per mettere chilometri nelle gambe, come si dice nel gergo dei professionisti dell’atletica, qualche volta sulla spiaggia del Po, lungo un percorso che lui conosceva bene. Era la metà degli anni Settanta. L’Eternit era ancora in piena attività. Quando lasciai Casale dopo gli studi, mi ritrovai a fare altre strade e Casale rimase una parentesi della mia vita, accantonata per molto tempo.
Soltanto parecchi anni dopo, credo fosse il 2009, quindi erano trascorsi parecchi anni, quasi trentacinque per dirla in breve, ritrovai casualmente un compagno di quei tempi e, parlando del più e del meno, chiesi notizie dei vecchi amici. Poi il discorso cadde su di lui, su Piercarlo Busto, di cui avevo un ottimo ricordo e che mi sarebbe piaciuto ritrovare.
A confermarmelo fu una mia collega di lavoro che abitava a Casale nel quartiere Ronzone, il quartiere nei pressi della grande fabbrica e, ahimè, anche lei portata via da quel male dal nome impronunciabile: mesotelioma pleurico. Mi confermò di Pier Carlo. La notizia mi franò addosso come un fulmine a ciel sereno. Non ci volevo credere. A casa cominciai subito a fare una ricerca in rete. Trovai conferma alle domande che mi stavano girando in testa e arrovellando lo stomaco.
È il 1988. Lo stabilimento Eternit è chiuso da due anni. Sfoglio con un certo disagio quello che non avrei mai voluto sapere. Le notizie che leggo riportano che quello è l’anno in cui si ammala Pier Carlo Busto, ragazzo di 33 anni, sportivo, bancario, non aveva mai avuto contatti con la fabbrica. Della sua famiglia nessuno aveva mai lavorato all’Eternit e viveva lontano dalla fabbrica maledetta.
Questo sta a significare una cosa: se si è ammalato lui, se il male ha minato i suoi polmoni, i polmoni di un maratoneta, il mesotelioma poteva colpire chiunque. Io ho subito pensato a quella spiaggia in riva al Po, dove una volta la fabbrica scaricava i resti di amianto, e che in sua compagnia avevo frequentato pochissime volte. Lui invece l’aveva bazzicata moltissimo. Ma evitiamo da farci suggestionare e proviamo a fare un po’ di chiarezza. Negli anni 60 lo scarto delle lavorazioni errate veniva portato in una discarica a cielo aperto, e lì si serviva la cittadinanza che cercava i pezzi migliori da utilizzare per lavorazioni fai da te.
Con l’introduzione del re-utilizzo, a partire dagli anni 70, le merci di scarto venivano portate sotto un capannone senza mura, dove una ruspa le frantumava e operava per 24 ore su 24, rilasciando grandi quantità di polvere. Prima di essere reintrodotti nel ciclo produttivo i frammenti venivano portati a un mulino per la macinazione. L’impianto era altamente nocivo. Operava a cielo aperto, ed essendo quello di Casale Monferrato l’unico stabilimento che recuperava materiali di scarto, si faceva carico della macinazione degli scarti di tutte le altre fabbriche di eternit in Italia. Alla fine del turno gli operai, come si usava dire, uscivano inzuccherati, come se fossero ricoperti da uno strato di zucchero a velo, completamente bianchi. Le tute blu andavano a casa con gli operai, per cui la polvere era un aerosol per tutta la famiglia.
Tornando a Pier Carlo, vittima dell’amianto, era confermato che di amianto poteva morire anche chi non lavorava alla Eternit. Questo riscontro non trova un consenso immediato. Ma a seguito dei risultati epidemiologici ottenuti, la pretura di Casale avvia un’indagine rivolta ad accertare la responsabilità penale di tali morti.
In ogni caso, alcuni studi rivelano che già nel 1930 si cominciò a correlare casi di fibrosi polmonari con l’esposizione all’amianto. Con lo scoppio della seconda guerra la richiesta e l’utilizzo dell’amianto aumentarono vertiginosamente, e questo problema dunque passò sotto silenzio. Il suo impiego divenne comodo massicciamente nelle navi e nella quasi totalità delle armi usate in quegli anni. Da qui cominciò un suo progressivo e sempre più diffuso utilizzo per edifici pubblici e privati, senza contare un’ampia gamma di oggetti di uso comune.

 

 

 


Alcuni dati trasmessi dicono che nel 1960 vengono rilevati 47 casi di mesotelioma in una piccola parte del Sud Africa, dove c’erano piccole aziende che utilizzavano l’amianto. Molti di questi deceduti avevano avuto un’esposizione alla fibra di tipo professionale molti anni prima: avevano giocato da bambini su cumuli di materiale depositati, alcuni frequentavano e transitavano nelle vicinanze della fabbrica, dove il materiale medesimo veniva trattato, senza averci mai lavorato.
Il 1965 costituisce comunque la data in cui la comunità scientifica internazionale riconosce gli effetti cancerogeni dell’amianto. È soltanto nel 1982, anno dei mondiali di calcio, che a Casale arrivò la sentenza come un turbine a ciel neanche troppo sereno: il controllo avviato sui certificati di morte per mesotelioma era venti volte superiore a quella attesa. Il dramma di quella malattia era destinato fin dal principio a diventare un dramma tristemente familiare. Le tute di lavoro degli operai della Eternit, rivestite di polvere, erano nell’ambito familiare anche a contatto con moglie e figli.
Nel film di Roberto Ghiaccio, al suo esordio come regista e che è nato e vive in un paese a due passi da Casale Monferrato, il protagonista, un giovane aspirante attore, cerca di ricostruire il rapporto con il padre, ex operaio Eternit malato di mesotelioma pleurico. Il padre racconta della fabbrica e in uno dei dialoghi riporta un passo importante che conferma il dramma familiare. Ecco, entravo in casa con quella tuta impolverata e tu mi correvi incontro. Io ti prendevo in braccio dopo aver abbracciato tua madre e non sapevo quanto facevo male a tutta la famiglia. Ma noi non potevamo immaginare che l’amianto potesse avere queste conseguenze.
I mondiali di calcio del 1982 restarono memorabili per l’impresa della nostra nazionale, che portò a termine una vittoria contro nazionali allora ben più blasonate come Argentina, Brasile e Germania. Mentre l’Italia si trastullava, riversandosi in piazza per festeggiare il grande evento, ecco che in una piccola città che non superava i 40.000 abitanti emergeva un problema di gravità assoluta.
Il controllo avviato in un percorso riservato sui certificati di morte per mesotelioma sul territorio casalese e dintorni, al “Registro Tumori” di Torino, tornò al mittente con una risposta che metteva in luce la drammaticità della situazione: l’elevata mortalità causata dall’amianto a Casale Monferrato era di venti volte superiore a quella attesa.
Mesotelioma pleurico. A pronunciare il suo nome si prova un senso di terrore. Il panico di una città che si confronta con quel male invisibile. Come cantava Gaber, quelle cellule enormi voraci affamate di noi, ci mangeranno come vermi. Il mesotelioma è un tumore maligno che può colpire le membrane sierose di rivestimento di vari organi, in particolare i polmoni. La cancerosi comincia con l’inalazione. Gran parte delle fibre viene eliminata con l’espettorato o con le feci. Circa il 70%. Il restante 30% attraversa l’endotelio e penetra nei tessuti interstiziali. Le fibre tendono ad accumularsi, prevalentemente, a livello del terzo inferiore del polmone, in posizione contigua alla pleura viscerale. I macrofagi alveolari sono in grado di trasformare gli idrocarburi policiclici in cancerogeni attivi.
Non stiamo ad approfondire quelli che sono gli elementi scatenanti le cellule impazzite che portano alla drammatica risoluzione dello sviluppo di questo cancro che non lascia scampo. È sufficiente dire che chi ha avuto o ha la disgrazia di trovarsi in questa tragica situazione si trova un killer dentro con la pistola puntata pronto a fare fuoco. La mira è precisa. Non lascia scampo. In genere il periodo di latenza è dell’ordine di decenni, si possono superare i quarant’anni dall’inizio dell’esposizione.
I sintomi del mesotelioma sono legati ad una compressione dei visceri che sono a contatto con la massa tumorale. Il primo segno nelle forme toraciche è costituito da un versamento pleurico spesso emorragico, con recidive, affanno, mancanza di respiro e febbre. La frequenza della patologia dipenderebbe dal tipo di fibre, dalle loro dimensioni, dalla durata dell’esposizione e dalla esposizione ad altri fattori come il fumo o altre sostanze chimiche. Come già ribadito, il mesotelioma maligno ha un lunghissimo periodo di latenza. Questo è dovuto a una ragione ben precisa, ovvero le fibre di amianto impiegano parecchio tempo prima di arrivare alla pleura.
L’incidenza e la mortalità per mesotelioma maligno hanno mostrato un incremento in questi ultimi anni. Questo è dovuto a un aumento dell’utilizzo di amianto dopo la seconda guerra mondiale. Ulteriori incrementi sono previsti per i prossimi anni per poi, si spera, decrescere in relazione alla riduzione dell’uso del materiale e alla crescita di interventi di prevenzione.

 

 

 


Quando sul finire degli anni 70 la Comunità europea manifestò la necessità di regolamentare l’utilizzo dell’amianto, applicando sui sacchi etichette informative per documentare i rischi procurati dalla polvere, l’AIA propose un’etichetta con toni miti. Non doveva comparire la parola cancro e occorreva affermare che l’uso improprio del materiale poteva arrecare danni. Nonostante queste fossero le premesse, la scritta che comparve sui sacchi di materiale dello stabilimento inglese “Tuner & Newall” era diversa: respirare polvere di amianto può provocare cancro e altre malattie letali.
Viste le pressioni sul tema amianto–salute, l’AIA, sulla pessima pubblicità al prodotto che veniva dal Regno Unito, elaborò una comoda via d’uscita che contribuì a ritardare ancora la presa d’atto del problema: il pericolo della fibra si manifesta se non vengono utilizzate le precauzioni necessarie. Quindi guanti, mascherine e cappe di aspirazione garantivano la lavorazione sicura e controllata. Intanto c’era il tempo di trovare e sviluppare materiali sostitutivi per la continuità dei profitti.
Con l’ordinanza 83 del 1987 l’allora sindaco di Casale Monferrato, Riccardo Coppo, bloccando la Eternit, proibì la produzione di amianto su tutto il perimetro casalese, interpretando l’interesse dei cittadini e schierandosi al fianco dei sindacati e dei familiari delle vittime. Era un forte segnale di discontinuità con il passato. I produttori di amianto impugnarono l’ordinanza, ma non coltivarono il ricorso, forse perché a causa dei morti in aumento, ebbero paura di un effetto boomerang. Occorre precisare che ci fu in quel periodo una politica molto improntata sulla “prudenza giuridica”, per cui loro poterono agire ancora qualche anno.
Poi lo stato riuscì a metabolizzare la decisione del comune di Casale affiancato dalle associazioni sindacali con la legge 257 del 27 marzo 1992 che non insabbiò la questione amianto, ma riuscì a mettere sul tavolo le richieste risarcitorie e previdenziali di centinaia di lavoratori italiani. Ci si è chiesti come era potuto accadere? Profitto. Profitto. La prima vera ragione è che si erano messi davanti a tutto gli interessi economici. Tutto questa a discapito della collettività.
La decisione di far fallire la Eternit italiana fu presa a Zurigo nel 1983. Il 23 dicembre di quell’anno il gruppo Eternit fallì. Intanto, già dal 1981, era stata avviata una causa civile contro la fabbrica di Casale e l’Inail accertò la nocività ambientale in tutto lo stabilimento. Proprio nell’anno in cui si decise per il fallimento la pretura di del capoluogo monferrino avviò un’indagine rivolta ad accertare la responsabilità e la causa delle numerose e continue morti dei lavoratori e cittadini casalesi.
La fase istruttoria durò sei anni e si concluse con la condanna di quattro dirigenti accusati di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurimo aggravate. La multinazionale dell’amianto cercò in qualche modo di isolare le decisioni dei dirigenti italiani tutelandosi da eventuali azioni penali successive, offrendo ai curatori del fallimento 5,5 miliardi di lire da ripartire in maggior misura per i gruppi di Casale e di Napoli. La contropartita stava nella rinuncia a una serie di azioni legali. Anzitutto la richiesta di indennizzo dei danni correlati all’amianto.
Gli obiettivi erano quelli di mantenere il caso a livello locale, lasciare fuori la proprietà da responsabilità dirette e, in ultimo, minimizzare il danno economico oltre che di immagine. Tutte le strategie messe in atto per lungo tempo non riuscirono a spegnere la voce di Casale Monferrato. La città non si fermò alla chiusura dello stabilimento. La lotta proseguì e la città diventò un pilastro della lotta all’amianto, gettando le basi per il grande processo Eternit che riunì 2.897 parti offese e 6.932 parti civili contro il belga Louis De Cartier e lo svizzero Stephan Schmidheiny, responsabili delle società Eternit SpA.