Mag 2021. Nuova Guinea.

 

 

 

 

"El mestée del mes" si ricollega all'intro del "mestée" di febbraio 2014, avente un secondo richiamo nel "mestée" di novembre 2014, riferito al fascino, mistero, avventura della foresta pluviale tropico-equatoriale nei tre siti -Amazzonia, Congo, Nuova Guinea- da me eletti.
Il terzo richiamo lo dedico quindi alla Nuova Guinea, escludendo aprioristicamente la suddivisione politica -Papua e Irian Jaya(Indonesia)-. Nel "mestée" troverai una narrazione di un percorso nella foresta tratta da "Cronaca di una viaggiatrice solitaria" di Kira Salak, la descrizione di un tamburo rituale dei Marind-anim presente nella mia collezione (da cui lo spunto per collegarsi ad un testo esaustivo in inglese inerente gli stessi Marind-anim), e alcune foto di tribù della Nuova Guinea.

 

 

 

 

 

 

 


Una strada lunga. Troppo lunga. (Da "Cronaca di una viaggiatrice solitaria").


Il nostro minuscolo aereo viaggia lentamente nei pressi delle gigantesche cime della Catena Centrale, mentre il ronzio instabile del motore ci tiene sospesi in aria come degli dei. Mi nascondo dietro gli occhiali da sole. La mia faccia inespressiva non tradisce minimamente quello che provo in questo momento. L'unica cosa che chiedo al mondo è di essere lasciata in pace.
Non voglio pensare a niente, men che meno al campo di Blackwater e al tempo che ho trascorso laggiù, ma non posso fermare i pensieri. Il pastore Carl aveva sperato che arrivasse una troupe cinematografia straniera per documentare le sventure del suo popolo, ma io non potevo garantire nulla. Conosco soltanto alcune persone nell'ambiente, ma sono poche. Portare loro o chiunque altro al campo sarebbe praticamente impossibile. Tanto per cominciare, ci sono troppi "Blackwater" sparsi in tutto il mondo. Troppa gente dimenticata che implora l'attenzione altrui. Inoltre, ci sarebbe qualcuno disposto a fare salti di gioia all'idea di introdursi in una zona off-limits, in un campo pericoloso, al centro della giungla della Nuova Guinea dove c'è bisogno di una guardia del corpo per girare?
Le montagne della Catena Centrale dominano il paesaggio circostante, schegge acuminate ricoperte di giungla. Le nubi avvolgono le cime e trascinano la nebbia giù per i pendii. Non c'è un'anima viva laggiù. Nessun luogo che si presti all'insediamento umano, in quanto i pendii sono troppo scoscesi e le valli troppo ripide. Si tratta di una bellezza aspra ma pur sempre di una bellezza naturale, che cerca di fare irruzione nella mia depressione. Per un attimo, che dura abbastanza da farsi sentire. Mi rivolgo al mondo che mi circonda e gli chiedo perché mi stuzzica con tante bellezze.
Non ottengo risposta.
Le nubi in movimento stendono sulla giungla luci e ombre come pennellate, catturando gli alberi in guizzi di raggi solari per poi farli piombare un secondo dopo nell'ombra. Il nostro aereo è come un pezzo di legno di balsa tagliato grossolanamente e lasciato in balia delle correnti e del tempo; un pezzo di legno solido quel tanto che basta a restare sospeso.
Eppure il pilota è a suo agio. Il volo è, per lui, una routine anche quando il vento cambia con violenza al transito rapido delle nubi.
Il pilota mi parla nei pensieri, come se la sua voce fosse un dato di fatto: "Ci stiamo avvicinando a Fiak".
Annuisco. Mi viene in mente che non ho parlato molto da quando sono salita sull'aereo. Mi sono limitata a rispondere alle sue domande semplici: "Come si chiama?, Da dove viene?" Parlando attraverso il microfono che ho intesta ogni mia parola esce con un tono altisonante degno delle parole importanti. Quando gli ho detto che vengo da Chicago, quella parola è sgorgata con una tale forza che ho dovuto chiudere la bocca per il disagio. Dopo Blackwater, seguita da quella notte a Tabubil nella stanza d'albergo, non voglio dire niente a nessuno. La mia paranoia è straripante. Arrivo a credere che qualcuno ci stia seguendo in un altro minuscolo aereo. E di nuovo nella mia mente si materializza l'immagine di quell'uomo che ha cercato di fare irruzione nella stanza la notte scorsa. Lo guardo mentre mi fissa, mentre il suo unico occhio si chiude nell'oscurità.
Incomincio a pensare che sarebbe stato molto meglio se non ci fossi andata affatto in quel campo o che non mi fosse mai venuto in mente di approfondire la causa dell'OPM. Nel momento in cui ci si dedica a una causa, si partecipa, si diventa parte attiva, da quel momento c'è una posta in gioco. Più rischiosa la causa, più alta è la posta. È facile capire il perché dell'apatia: non prende nulla e non chiede nulla. Consente di raggiungere la pace dell'anima forti del fatto che altri combatteranno le loro guerre e poi in un grande gesto di magnanimità divideranno le ricompense. Tutto ciò che desidero è ottenere la benedizione della pace della mente e, a pensarci bene, l'unica volta che sono riuscita a raggiungerla è stato in compagnia di Mike Pease.
Il pilota della missione mi chiede che genere di affare posso avere in un posto come Fiak, ma in pochi minuti la mia spiegazione non avrà più alcuna importanza. Siamo già arrivati. Lui se ne andrà e non ci incontreremo mai più. Ora, però, devo pensare ad alcune bugie da raccontargli, perché la verità apparirebbe come una pazzia, ossia che sono pronta a darmi completamente al mondo, a fare in modo che esso faccia di me ciò che vuole. Non m'importa più di niente. Voglio soltanto perdermi in questa giungla. Se riuscissi a uscirne, tanto di guadagnato. Attraverso la solennità del microfono della cuffia, dico al pilota che voglio visitare dei punti lontani, una Papua Nuova Guinea che non è indicata sulle mie guide. Voglio cercare di raggiungere il fiume Sepik da Fiak a piedi o a bordo di una canoa. Come mi vedrà la popolazione locale? Farà differenza il fatto che io sia una donna?
La mia spiegazione suona piacevolmente accademica, una specie di esperimento nell'ambito di studi al femminile.
Il pilota annuisce con educazione e dice soltanto: "Fiak è lontana, questo è certo."
Fa il pilota per la Missione "New Tribes" che è un gruppo con sede negli Stati Uniti che opera in Papua Nuova Guinea. La loro finalità è divulgare il Vangelo nelle tribù più accessibili. Dietro un pagamento, gli aerei della "New Tribes" scaricano dei passeggeri non affiliati lungo la loro rotta. Questo è il motivo per cui sono finita a bordo di un aereo a quattro posti che sorvola queste montagne. Dietro c'è un abitante di Tabubil, un certo Sammy, che aveva sentito che eravamo diretti a Fiak e aveva deciso di unirsi a noi all'ultimo minuto. A quanto pare, sua sorella vive a Fiak e vuole andare a trovarla. Così siamo in tre a bordo di questo fragile velivolo.
Il pilota punta in basso e io vedo Fiak per la prima volta. Una manciata di capanne di paglia alloggiate nell'inforcatura di alcune montagne più alte. Fiak ha una popolazione di non più di un paio di dozzine di persone. La pista è corta e fangosa e il pilota attentamente scende di quota per atterrare. Continuo a immaginare il peggio, il pilota che all'improvviso perde il controllo, il nostro aereo che precipita in un vortice verso il piccolo villaggio come un pezzo di carta lanciato dal cielo.
L'aereo viene controllato alla perfezione. Sembra essere fatto di carta quando il pilota lo porta a terra e tocca il suolo con un tonfo delicato. Dalvillaggio accorre una folla di gente per guardare. Uomini in pantaloncini stracciati ci osservano. Le donne si tengono a una certa distanza; portano delle magliette e sono nude dalla vita in su. Portano dei drappi di tessuto vecchio intorno alla vita. Gli abiti e la pista di atterraggio testimoniano la cooperazione con la "New Tribes" e sono gli unici segni tangibili di una possibile interferenza dell'Occidente. Mi chiedo come la "New Tribes" operi da queste parti. Si concentrano su un individuo particolarmente zelante in ogni villaggio che raggiungono, plasmandolo o plasmandola finché riescono a spostarsi con sicurezza in un altro luogo? Deve esserci un metodo, una maniera per assicurarsi che nessuno riponga male o perda la nuova fede.
Nel villaggio scorrazzano, frenetici, i polli e i maiali quando una folla di persone si precipita sulla pista di atterraggio. Il pilota spegne il motore dell'aereo e scende. Un paio di uomini si fanno avanti e gli danno la mano mentre io e Sammy scendiamo. Mi guardo intorno. Ci sono soltanto montagne ripide coperte di giungla intorno a Fiak, come una gigantesca barriera rigogliosa. Un corso d'acqua costeggia il villaggio, scorrendo in lontananza nelle profondità della valle.
Non mi è chiaro come si possa uscire, se non per via aerea, da Fiak. Mi rendo conto che entrare nella giungla potrebbe essere un suicidio. Eppure io so che è possibile arrivare fino alla valle del fiume Sepik. Nel 1938, gli esploratori australiani Jim Taylor e John Black hanno compiuto la prima spedizione in questa regione, attraversando a bordo di una canoa il fiume May che deve essere vicino. Mi ricordo i particolari del loro viaggio: furono attaccati mentre cercavano di attraversare questa catena montuosa; uno dei partecipanti morì con una freccia conficcata nel cuore e altri quattro uomini vennero feriti.
Una meraviglia. Spero che tali ostilità facciano parte del passato. Guardo la catena montuosa che devono aver attraversato, chiedendomi come e dove l'abbiano fatto. Non è troppo tardi. Posso ritornare sull'aereo, farmi portare in una città più confortevole, ammesso che ce ne siano in Papua Nuova Guinea, e poi volare fino a casa, e far saltare questa folle avventura. Ma sono in ballo. Devo arrivare fino alla fine, ovunque essa sia. Almeno avrò cercato di ripetere l'impresa di Taylor e Black.
Mi volto verso il pilota. "Lei sa come si chiama quel corso d'acqua?"
"È un fiume" mi dice. "Il May."
Apro la mia cartina. Il fiume May appare come un'arteria principale del Sepik, eppure devo essere vicino alla fonte in quanto Fiak è praticamente uno "sputo". Fiak non è neanche indicata sulla cartina, così tiro fuori la matita e faccio un segno dove penso che possa essere.
"Noi ci troviamo qui?" chiedo al pilota.
Il suo dito si sposta più all'interno negli altopiani, al centro della Catena Thurnwald. Un villaggio a nord, Hotmin Mission, sembra essere il villaggio più vicino a Fiak. Hotmin, irraggiungibile dalle montagne, si trova nelle zone pianeggianti e paludose che segnano l'inizio della grande valle del fiume Sepik. Uscire da Fiak significherebbe uscire dalle montagne contemporaneamente.
"C'è una maniera per uscire da qui facilmente?" chiedo.
Si sta già avviando verso l'aereo. "Volando se si tratta di un'emergenza. Altrimenti..." sorride e punta verso la giungla che confina con la pista "a piedi. A Hotmin probabilmente potrà avere un passaggio in una canoa. Da quelle parti sono gente di fiume."
Il pilota sale di nuovo a bordo dell'aereo e mi saluta con la mano. Io rimango con la gente del villaggio e lo guardo mentre decolla, ritirandosi come un uccello fragile sulla montagna più vicina. Rimango immobile dove sono per un po' in quanto non ho la minima idea di cosa fare. La gente di Fiak rimane con me, mi studia, finché decido di dirigermi verso il villaggio, per quel poco che c'è. Le capanne con i tetti di paglia sono sollevate dal terreno ed esalano un forte odore di fumo. I polli becchettano sotto le capanne. I cuccioli lottano nella sporcizia finché un ragazzino con un calcio li scaraventa di lato. Un paio di anziane donne che sono rimaste nelle capanne durante il raduno della folla sono appoggiate contro gli stipiti dell'entrata delle capanne e mi guardano. I loro capelli sono bianchi e i loro seni afflosciati contro il torace. Le saluto con la mano ma non mi rispondono.
Mentre avanzo nel villaggio, le famiglie di ciascuna capanna fanno un passo indietro allontanandosi da me. Le poche capanne finiscono e io ritorno sui miei passi. Un paio di donne riprendono a sbucciare dei tuberi di taro della grandezza di un cuore. Sedute a gambe incrociate, con grande abilità mantengono i viscidi tuberi di taro con i pollici mentre tolgono via la buccia con un coltello. Tra un taglio e l'altro, mi guardano incuriosite.
"Hai bisogno di una cartina", dico a me stessa.
Alcuni ragazzini che stanno giocando mi vedono avvicinarmi e si precipitano dentro le loro capanne. Come se si trattasse di una lezione estrema di internazionalizzazione, le madri trascinano i loro bambini urlanti fuori e li costringono a toccarmi. Scalciano e sbraitano selvaggiamente, finché riescono a liberarsi dalla presa delle madri e a fuggire via. Ora un paio di donne anziane si avvicinano per accarezzarmi i capelli. Una donna mi tira delle ciocche e le alza verso il sole. Altre bisbigliano e mi toccano dolcemente le braccia mentre mi tirano altre ciocche di capelli. Invitano gli altri parenti a venire a toccare la "wait meri". Mi rendo conto di essere diventata una maschera di carnevale: tutti devono toccarmi, tutti devono prendersi la loro ciocca di capelli come souvenir.
Temendo che alla fine non mi resteranno più capelli in testa, mi avvio verso il fiumiciattolo: il May. La profondità di 30 centimetri scarsi non permette l'uso delle canoe. Ovviamente il fiume non può essere usato come una via navigabile per trasportare persone e merci. Non molto lontano, lungo il fiume, le montagne svettano alte su ambo i lati del corso. Ripongo il mio zaino e mi siedo sulla sponda, rapita dalle montagne, le cui cime sono ammantate di nubi, intorno a me. Quell'altro villaggio, Hotmin Mission, si trova a una distanza ignota più a nord, ma non può essere molto lontano. Soltanto una camminata di un paio di giorni in mezzo alla giungla, sicuramente, se le indicazioni che mi ha dato il pilota sono corrette e se devo credere alla mia cartina. Così decido di provare ad arrivarci.
Mi volto verso un uomo che mi sta accanto e gli chiedo in inglese Pidgin quant'è lontano Hotmin Mission. Lui indietreggia e mi fissa. Mi chiedo se ha capito la mia domanda.
"Hotmin klostu dispela hap?" chiedo alla gente nel mio inglese Pidgin stentato. Hotmin è vicino?
Nessuna risposta.
"Hotmin" riprovo. "I stap longwe o nogat?". "È lontano?"
"Lontano" mi risponde un uomo in inglese. Lo riconosco, è l'altro passeggero dell'aereo, Sammy, l'uomo che ha una sorella a Fiak. Sembra innervosito, mi dice che sua sorella ha sposato un uomo di Hotmin e non vive più a Fiak. Sarebbe venuto a Fiak per niente, dovrà aspettare l'altro aereo per tornare a casa, senza sapere quando questo avverrà. Potrebbe trattarsi di settimane.
Gli chiedo se è possibile arrivare a Hotmin a piedi, perché è quello che sto per fare. Guardo le montagne ricoperte di giungla. Sembra che Hotmin sia dall'altra parte. Soltanto un paio di montagne da scalare e superare. Quanto mai terribili possono essere due montagne?
Sospirando, Sammy dice che verrà con me, e mi chiedo se sa quello che sta facendo. Lui viene da Tabubil, è un cittadino ben nutrito e sedentario in un villaggio dove regnano gli emaciati. Porta una camicia pulita, pantaloni e una bella pancia tonda. Lancia sguardi di disapprovazione per la situazione di impasse generale e agli abitanti del villaggio che si sono riuniti intorno a noi. Sammy chiede nel suo fluente inglese Pidgin se qualcuno dei presenti sa come si arriva a Hotmin. Una donna più grande, che dice di chiamarsi Mila, si offre di accompagnarci per venti "kina". Indossa una maglietta grigia lisa e una gonna bucata, da cui si vede che il corpo minuto è cosparso di eloquenti lesioni rotonde da desquamazione della pelle e da piaghe pruriginose chiamate "girle" in inglese Pidgin, ossia tricofitosi. La tricofitosi ha intaccato anche alcune parti del cuoio capelluto per cui la testa appare a chiazze. Sammy non è spaventato da Mila, immagino perché è una donna. Incrocia le braccia e chiede se qualcun altro vuole guidarci e io devo intervenire ricordandogli che sono io quella che pagherà le venti "kina". Gli dico che voglio che Mila ci guidi e lei corre a prendere qualcosa per il viaggio dalla sua capanna.
Un uomo si offre di farmi da facchino per il mio zaino, che all'aeroporto di Tabubil pesava, con mio grande imbarazzo, quasi venti chilogrammi, ma io, dopo averlo ringraziato, gli dico che non ne ho bisogno. Sono solita portare da sola i miei bagagli. Se lo facessi fare a qualcun altro avrei la sensazione di essere un'aristocratica snob inglese, viziata durante un safari con elefanti. E, in questo caso, sono anche inquieta per il fatto che devo avventurarmi in mezzo alla giungla con due uomini che non conosco, con tutti i miei averi addosso. Gli stranieri residenti in Papua Nuova Guinea raccontano bizzeffe di storie su stranieri che vengono derubati e violentati in mezzo alla vegetazione. Soltanto Sammy, probabilmente, è a posto, ma non voglio nessun altro, eccetto lui e Mila.
Mila fa ritorno. Senza altre cerimonie la seguiamo giù per la pista di atterraggio fangosa quando una pioggia pesante incomincia a cadere. Le montagne incominciano a scomparire sotto le nubi e la nebbia, e danno l'illusione di un paesaggio piatto e di un viaggio diretto fino a Hotmin. Mi cambio gli stivali in quanto il fango è troppo spesso e i miei stivali continuano a impantanarsi. Sammy fa altrettanto. Nessuno, tranne gli stranieri impacciati, ho modo di notare, porta delle calzature nelle giungle della Papua Nuova Guinea.
Mila si guarda alle spalle verso di noi, ridendo come farebbe una madre di fronte alle sciocche mosse dei suoi figli. Con il machete in mano, lei ha già percorso un bel pezzo della pista e sta per entrare nella giungla. Si può descrivere la giungla della Papua Nuova Guinea in un libro, si possono mostrare le foto, ma tutto questo non è che un pallido surrogato della realtà: la soffocante umidità, la pioggia e il fango costante, le piante acuminate, le formiche rosse, le sanguisughe, il ronzio monotono degli insetti. La giungla della Papua Nuova Guinea è un labirinto cupo e imbrigliato di rampicanti e di alberi giganteschi che impedisce alla luce che riesce a passare attraverso la cortina di nubi di filtrare. Soltanto il sentiero sotto i miei piedi mi rassicura sulla direzione, del fatto che esiste una fine di questo verde sconfinato.
Suoni inspiegabili provengono dal cuore della giungla, un susseguirsi di scontri, gracchiare e stridii. Soltanto una persona appartenente alle tribù locali potrebbe spiegare efficacemente questi suoni, l'improvviso fruscio nella boscaglia o nelle chiome sopra la testa. Muoversi in questa giungla paludosa è come passare per un rito di iniziazione a me incomprensibile. Dove mettere i piedi? Cosa toccare e cosa non toccare? Posso mettere un passo qui? C'è qualcosa davanti a me che non vedo?
Ogni passo che faccio è prudente. Bisogna imparare a spostarsi con sicurezza e soltanto Mila lo fa con spontaneità. Non mi meraviglia che rida di noi. Sammy e io cadiamo in continuazione quasi tuffandoci o scivolando dietro di lei. Non c'è nulla della piacevole sensazione che si ha nel tornare a casa. Qui la giungla ci fagocita nelle sue viscere aggrovigliate come se stessimo camminando nel ventre di una belva immensa.
La pioggia è torrenziale. Nella forte umidità, non riesco a distinguere la differenza che c'è tra l'acqua e il sudore. Avanzo a fatica nel fango alto fino alle ginocchia, il mio zaino mi fa sprofondare per via del peso, facendomi inabissare sempre più. È importante mantenere l'andatura sostenuta e stare al passo con Mila, quindi mi libero le gambe dal fango e le obbligo ad andare avanti. La gonna non è proprio il massimo della comodità per viaggiare in mezzo alla giungla, in quanto si impiglia nei rami e mi fa inciampare. Mi fermo per infilarmi i jeans, ma Mila continua a camminare. Non si ferma mai.
La velocità è una regola della giungla. Perfino Sammy lo sa mentre arranca dietro di me e Mila e non si concede il lusso di restare troppo indietro. Le popolazioni locali non misurano mai matematicamente le distanze della giungla. Facile dire che un luogo si trova a "X" chilometri di distanza da un altro, ma quella misurazione non tiene in considerazione le montagne, o le paludi, i fiumi da guadare o la fitta vegetazione da abbattere nell'avanzare. Dicendo che un luogo si trova a "soli 12 chilometri" di distanza automaticamente ti classifica come un pivellino in quanto attraversare montagne alte più di 3000 metri che si estendono per 20 chilometri potrebbe essere di per sé una spedizione.
Invece, la distanza viene valutata sulla base del tempo necessario a un uomo in salute, che avanza a una buona velocità, per andare da un punto all'altro. Questa distanza naturalmente cambierà secondo fattori che esulano dal suo controllo, come la stagione delle piogge o la siccità. Non deve meravigliare, dunque, che i concetti della distanza antichi quanto le tribù siano nati per descrivere la distanza in termini discutibilmente più precisi dell'ossessione che gli occidentali hanno delle misure empiriche. Invece di fornire una risposta in numeri alla domanda "Quanto dista Hotmin Mission?" la distanza viene definita con espressioni avverbiali "vicino" (klostu), "piuttosto vicino" (klostu liklik), "piuttosto lontano" (longwe liklik) o "molto lontano" (longwe) e "lontanissimo" (longwe tumas). I termini appaiono vaghi, come se fossero stati concepiti per urtare le sensibilità occidentali, ma per gli abitanti della Papua Nuova Guinea ogni affermazione ha un significato preciso che annovera gli ostacoli naturali. Se un luogo è "longwe tumas", un individuo probabilmente ci penserà due volte prima di mettersi in viaggio; la destinazione potrebbe non apparire lontana a guardare la cartina, ma il viaggio in sé potrebbe essere piuttosto ostico.
lnquieta per la difficoltà del nostro viaggio fino a quel momento, fermo Mila e le chiedo in inglese Pidgin quanto dista Hotmin.
La sua risposta non è affatto confortante. "Longwe liklik". Piuttosto lontano. Tra l'altro è sempre più difficile localizzare il nostro sentiero, in quanto la giungla è scossa dalla pioggia battente.
Guardo Sammy e lui scuote la testa per la frustrazione. Mila si volta e solleva il suo machete continuando ad abbattere la vegetazione e a eliminare il fango sul cammino. Incominciamo a perdere le tracce del sentiero e questo incomincia a preoccuparmi. Mila ci chiama per farci capire che siamo lenti, ed entrambi acceleriamo verso di lei come bambini pazienti.
Ci immergiamo in una macchia di palme da sago spinose e scivoliamo lungo un pendio melmoso fino a un fiume. Questo è un fiume dal corso rapido e il suo fondo è ricoperto di sassi lisci e sdrucciolevoli di granito. Il nostro passo ora è lento. L'acqua arriva alle cosce, e i miei piedi cercano disperatamente di restare incollati alle pietre mentre la corrente scorre veloce. Il mio zaino pesante rende difficile l'equilibrio, perché quei 20 chili circa in più si fanno sentire a ogni passo. Le mie ginocchia incominciano a cedere e da un po' i miei passi incominciano a essere dolorosi. Scherzo con me stessa e mi dico che sono in missione speciale e che devo trasportare un corpo morto per tutta la Nuova Guinea. Il corpo morto mi fa scivolare di tanto in tanto, le cadute mi provocano dei lividi ai calcagni, e il fiume mi trasporta finché mi rialzo. Sammy mi offre il suo braccio e insieme riusciamo ad avanzare.
In questo cammino doloroso e travagliato, lentamente, seguiamo il corso del fiume. Le ore passano e la pioggia incomincia a diminuire. Le montagne si innalzano su ambo i lati. Immagino che debbano essere alte quasi 2000 metri ma è difficile essere precisi in quanto le loro cime sono coperte dalle nubi. Quando raggiungiamo uno sbarramento di sabbia propongo di fare una sosta. Il sole bollente, tra una pioggia e l'altra, sta calando verso ovest. Non so dove siamo e posso soltanto sperare che Mila lo sappia. Sammy le chiede in inglese Pidgin per quanto ancora dovremo viaggiare in mezzo all'acqua, ma lei si limita a sorridere e non dice una parola. Sammy scuote la testa frustrato. "È pazza."
Medito sulla possibilità di seguire una pazza in mezzo alla giungla. Potrebbe anche essere, però, che sia lei a considerare me e Sammy due tipi assurdi che cercano di capire e di accettare un habitat che lei conosce intimamente fin dalla nascita! Noi siamo come dei bambini, dipendiamo in tutto da lei, e mi chiedo se lei ci vede, soprattutto, come un Uomo e una Donna bianchi: cosa che, all'epoca del colonialismo ci avrebbe resi, socialmente parlando, automaticamente superiori a lei. Sicuramente Mila è abbastanza grande da ricordarsi il primo arrivo dei bianchi nel suo villaggio (considerando la lontananza di Fiak, non deve essere accaduto molto tempo fa). Il fatto che lei conosca l'inglese Pidgin ni dice che probabilmente ha avuto dei contatti con loro per un certo periodo di tempo. Le devono aver insegnato a usare le parole in inglese Pidgin "masta"e "missus" usate per rivolgersi ai bianchi e la parola "pikanini" per parlare dei suoi figli, parola a larga diffusione anche oggi. Ora, però, Mila è in grado di affermarsi come donna capace, di mostrarci cosa pensa veramente della vecchia gerarchia ed egemonia. Indubbiamente lei è sovrana da queste parti.
Ci sorride e ci parla e questa volta, quando parla il suo inglese Pidgin, riesco a capirla. Dice che sta andando a Hotmin, con questo intende dire che stiamo andando a Hotmin anche noi, in quanto non riusciremmo mai a tornare indietro a Fiak da soli. Non possiamo fare altro che continuare.
Raggiungiamo la nostra prima montagna. Non emerge gradualmente ma spara alta in cielo a quasi 90°.
"Dobbiamo scalare questa "cosa"?" chiedo a Sammy.
"Penso di sì."
Mila ci sta già guidando in quella direzione e ora non stiamo più camminando. Usiamo le radici e i rami per scalare il fianco della montagna. Alla cieca allungo le mani in avanti per cercare di aggrapparmi agli steli spinosi delle piante mentre altre volte le affondo in eserciti di formiche rosse. Non voglio neanche pensare ai serpenti, sebbene ne abbia visti un paio sguisciare via prima che mi avvicinassi. Sto avanzando sinuosamente con il mento nel fango, mentre il corpo avanza strisciando su per il fianco della montagna. Quando ho bisogno di riposarmi, avvolgo il braccio intorno alla radice di un albero oppure intorno a un ramo e appoggio le ginocchia nel fango del pendio. Mancano 1200 o 1700 metri prima della fine, non voglio neanche pensarci.
E la pioggia! Ora sta piovendo incessantemente, con quella determinazione devastante e apocalittica che si può sperimentare soltanto ai tropici. Faccio un passo troppo lungo e non riesco a trovare un punto in cui appoggiare il piede. Il peso dello zaino mi tira all'indietro e io scivolo verso il basso a causa della pioggia e del fango, schiantandomi nelle zone di felce per poi atterrare a diversi metri più in basso. Ricoperta di lividi e di tagli, devo rifare tutto da capo ed è a questo punto che mi ritrovo a pensare che avrei fatto meglio a portarmi il facchino. Devo trasportare anche questo zaino su per queste montagne mentre gli altri non hanno praticamente nulla.
Tiro fuori la bottiglia dell'acqua e bevo quello che resta. Sicuramente ci sarà un altro ruscello e potrò riempirla di nuovo. Devo soltanto scalare questa montagna. Ecco tutto. Hotmin Mission sarà dall'altra parte.
La giungla rimbomba al ritmo della pioggia sulle foglie e le piante si piegano e sporgono a causa dei goccioloni. Il pendio sotto di noi non mostra i segni del nostro passaggio.
"Come sta?" mi grida dall'alto Sammy.
"Malissimo!"
"Siamo vicini alla cima."
"Congratulazioni."
Punto uno dei piedi nel fango e mi tengo stretta a una radice per riposarmi.
"Tutto bene?" urla ancora Sammy.
"OK" rispondo. "Mi sto riposando."
Ho la testa che mi scoppia. Ho sete e succhio la maglietta zuppa di pioggia. Che ci faccio qua?
Scaravento via con un movimento del piede un centopiedi. Ho un mal di testa pulsante, ritmato come un metronomo, certamente sintomo del caldo eccessivo, mentre Sammy mi incoraggia dall'alto a riprendere la salita.
"D'accordo" ordino ai miei piedi. "Andiamo."
Quando alla fine raggiungo la vetta, mi levo lo zaino dalla spalla e lo getto per terra. Niente può farmi camminare a quel punto. Sammy apparentemente è nelle mie stesse condizioni e sta raccogliendo dei rami per costruirsi una specie di tettuccio a falda. In vista nessuna fonte d'acqua e anche lui fa quello che faccio io: succhia l'acqua dai vestiti.
Nonostante la giornata così pesante, Mila sembra rilassata. Sta seduta a gambe incrociate, mi osserva divertita mentre io cerco di togliermi le spine dai piedi. Non vedo tagli o ammaccature sul suo corpo. A parte i segni della sua tricofitosi, sembra perfetta.
"Quanto dista Hotmin Mission?" le chiedo in inglese Pidgin.
"Longwe tumas". Moltissimo. Sospetto che la mia lenta scalata abbia in sé aumentato la "distanza".
Guardo Sammy. "Hotmin sembra allontanarsi sempre di più."
"Sì" mi fa corrugando la fronte. Getta le foglie e i rami che ha raccolto e scruta la giungla.
Piove per tutta la notte. La pioggia passa anche attraverso il fragile tettuccio che Sammy ha costruito sopra di me e un flusso costante di gocce mi inonda la faccia. E poi ci sono le zanzare. Anche con la pioggia, ti aggrediscono e infilano la loro proboscide dentro la carne al momento del contatto. Mi seppellisco sotto strati di vestiti presi dallo zaino finché quell'incredibile calore e umidità mi fa pensare che forse preferisco sopportare le zanzare. Invece, giungo a un compromesso: lascio le braccia scoperte e le cospargo di insetticida per zanzare. Queste zanzare, tuttavia, sono così industriose che se mi gratto il braccio o mi strofino il gomito contro il terreno, qualsiasi cosa che elimini un pezzetto di protezione dal mio corpo, trovano la breccia e mi pungono.
Mila dorme con una grande foglia sulla faccia, le ginocchia accartocciate contro lo stomaco. Lei non si è costruita una tettoia ma si è coperta il corpo con la vegetazione per proteggersi dalle zanzare e dalla pioggia. Non si è mossa neanche una volta per tutta la notte, altrimenti, io che mi sono svegliata molte volte, lo avrei notato. Non riesco a capire come lei, o chiunque altro, potesse dormire di sasso in queste condizioni.
Sammy sembra aver subìto il peggio. Prima della notte, gli ho offerto un po' dell'insetticida, ma lui si era rifiutato definendolo "veleno". Ora continua a girarsi su se stesso ogni due minuti, dandosi degli schiaffi e lamentandosi ad alta voce. Sono convinto che stia cercando di tenere Mila e me svegli. Come se commettessimo un sacrilegio a dormire mentre lui soffre.
Ero troppo malata e fisicamente stremata per sforzarmi di provare a montare la mia rete antizanzare portatile; ma ora lo faccio. Nell'oscurità, con il corpo dolente e la pioggia che mi entra nelle ossa, tiro fuori la rete e giocherello con la struttura della tenda. Non riesco a montarla, non riesco a vedere quello che sto facendo e ottengo l'unico risultato di gettarmela addosso. Naturalmente le zanzare continuano a entrare e a mordere attraverso la zanzariera. Se Dante avesse voluto destinare un buon inferno a tutti i suoi peccatori, avrebbe dovuto privarli di tutti i loro indumenti e spedirli nella giungla della Nuova Guinea dopo il tramonto.
Gli inspiegabili suoni della giungla sembrano peggiorare di notte. Deve esserci qualcosa di primordiale nell'innata paura che l'uomo ha del buio. Sono nata in un mondo che è stato domato e interamente spiegato; la paura della notte è diventata infantile e irrazionale. Qui in Papua Nuova Guinea, però, quella paura è giustificabile in quanto chi realmente sa cosa ci aspetta là fuori? Sento che solo un passo mi separa dall'oscurità.
Sopraggiunge l'alba in una concatenazione di grigi cangianti, le foglie e i rami della giungla acquistano la forma della sostanza. In questa luce soffusa incantata, Mila è già sveglia, ci sta chiamando e sta staccando dei pezzi da una lastra grigio polvere di midollo di palma da sago cotta in forno che ha conservato nella tipica sacca, la "billum bag". Il sago è un alimento duro e insipido che, a quanto pare, ha ricavato cucinando le sfere di midollo sulle ceneri del fuoco. Le ceneri della legna le conferiscono un aspetto impolverato, preistorico, simile allo sterco fossilizzato. Sebbene io sia nauseata e mi faccia ancora male la testa, ne metto un po' in mano e mastico lentamente, fingendo si tratti di una torta di mele, delle fettuccine o una pizza alta. Qualsiasi cosa tranne quello che realmente è.
Divertente: la gente nei Paesi occidentali ha sufficiente denaro e tempo libero per poter mangiare e apprezzare il sapore e la struttura del cibo; se un alimento viene bruciato, solitamente lo si scarta in quanto il sapore ne è rimasto compromesso. Questo è uno strano concetto da applicare da queste parti dove l'idea di mangiare è legata solo al fatto che il corpo possa continuare a funzionare, in modo da preservare la vita.
Sono commossa dal fatto che Mila voglia condividere con noi il suo cibo, il suo prezioso cibo, considerato il frangente in cui ci troviamo. È confortante sapere che qualcuno ha la situazione sotto controllo, che ci sia qualcuno in grado di capire cosa è importante fare e quando. Quando la sua voce squarcia acuta l'aria della giungla annunciando la colazione e ordinando a Sammy di alzarsi, quest'ultimo si lamenta dalla sua tettoia miseramente: "Chiudi il becco, donna".
Lei spinge il suo ricovero che crolla sull'uomo. Si scrolla di dosso le fronde e nota che le braccia e le gambe sono punteggiate dai numerosi morsi di zanzara. Sembra quasi abbia il morbillo. Avvolge una grande foglia intorno alla testa, tirando le estremità sotto il naso come a voler concentrare il mondo alla visuale che si ha da uno spioncino. Nugoli di zanzare ronzano e si accalcano intorno alla testa e lui le scaccia con la mano, Mila si mette a ridere. Sammy, in tutta risposta, le indirizza degli improperi che in poco tempo si perdono nella giungla.
Arriviamo ai piedi della montagna. Nessuna traccia di Hotmin Mission. Nessun segno di civiltà, ma soltanto un'altra montagna che si innalza svettante davanti a noi. La pioggia si è trasformata in un leggero piovasco. Siamo tutti in piedi e ci guardiamo intorno.
Siamo in un burrone circondati da alte montagne ovunque. C'è un piccolo ruscello e io immediatamente riempio la borraccia e ci sciolgo dentro una pasticca di iodio per eliminare tutti i parassiti. Sammy ha la sua borraccia personale e la riempie dal ruscello. Quando offro anche a lui una pasticca di iodio, lui alza le spalle e ride, definendola, com'è prevedibile, "veleno". Anche Mila beve direttamente dal ruscello aiutandosi con le mani. Sicuramente è una superdonna. Sebbene sia di una magrezza impressionante, ha rifiutato qualsiasi offerta d'acqua da parte di Sammy o da parte mia e non mostra di essere minimamente provata dal viaggio compiuto fino a questo momento. Lei scandaglia la zona e io non posso fare a meno di chiedermi se sappia realmente dove ci troviamo. Ho l'impressione che il panorama non cambi mai. Per quello che ne posso dire io, siamo tornati dov'eravamo ieri. Potremmo anche aver viaggiato in tondo.
Le gambe, insanguinate, gonfie e coperte di graffi e di tagli, sono terribili a vedersi. Mi siedo sullo zaino. Tiro fuori il coltellino svizzero, uso la punta di una delle lame per togliere alcune spine che si sono infilate nei calcagni. Sammy mi guarda mentre si asciuga il sudore dalla fronte.
"Fa male?" chiede.
"No."
Sto lavorando su una grossa spina. Non ne vuole sapere di uscire e devo affondare di più il coltello.
"Stai sanguinando. Sarebbe meglio un ago, penso" dice lui.
Non dico niente.
"Un ago è meglio."
"Ne comprerò uno quando arriveremo al 7-eleven."
Sammy si piega accanto a me. "Credo che la donna si sia persa" mi fa bisbigliando.
"Mi dice che si è dimenticata come si arriva a Hotmin."
Mila si mette a sedere e solleva le piante dei piedi. Per essere una donna che si è persa, sembra incredibilmente a suo agio. Incomincia a togliersi con metodo scientifico una dopo l'altra le spine con le unghie delle mani.
"Che stai dicendo?" mi concentro sull'estrarre le mie spine.
"Significa che siamo tutti persi."
"Non sa riportarci indietro a Fiak?"
"No." Si guarda dietro alle nostre spalle. "Gliel'ho già chiesto e mi ha risposto di no."
Mi chiedo cosa possa significare quella risposta. Intendeva dire che si rifiutava di portarci indietro? Oppure che non sapeva riportarci indietro anche se avesse voluto?
Guardo la montagna che abbiamo appena disceso. Non c'è segno del nostro passaggio; la giungla rispunta non appena la superiamo.
Sammy si guarda i piedi. "Dobbiamo continuare" dice distrattamente.
È un salire e scendere, salire e scendere per tutto il giorno. Una montagna dopo l'altra. E ancora nessun segno di civiltà. Ho bevuto l'ultimo goccio d'acqua che avevo un attimo nella speranza che sarebbe stato un altro corso d'acqua ai piedi di queste montagne. Non è così, e la pioggia si è fermata. Il mal di testa è arrivato a un livello tale che mi sembra di avere due mani che mi schiacciano il cranio e temo stia per venirmi un colpo apoplettico da calore. La cosa saggia da fare sarebbe non esporsi al sole, bere tanti liquidi, assumere tavolette di sale, cercare di restare al fresco. Naturalmente nessuna di queste situazioni può concretizzarsi.
Questo viaggio nella giungla mi ricorda una delle avventure che ho tenuto nel mio archivio da bambina in cui fingevo di far parte delle Forze Speciali. Quest'avventura nello specifico si trasformò in un'ossessione tale che quando gli adulti mi chiedevano cosa volevo fare da grande, rispondevo loro con tutta la serietà di cui ero capace: il "Berretto Verde". Mi ricordavano che le ragazzine, le donne, non possono. Ciononostante io continuavo a cercare libri sui Berretti Verdi. A dieci anni, me ne stavo accoccolata a leggere il racconto di prima mano di Robin Moore. Il mio film preferito era il primo film di Rambo. Mi vedevo lanciarmi con il paracadute in Laos in missione di ricognizione nella giungla. Le mie missioni erano sempre classificate e pericolose. Cercavo di immaginare il calore e gli stenti della giungla sulla base delle descrizioni che trovavo nei libri e mi chiedevo sempre se sarei stata in grado di sopportarli. Se sarei sopravvissuta.
Ma non è più una questione di sopravvivenza, non posso più idealizzare i Berretti Verdi come quando ero bambina. Mi tornano in mente i volti dei rifugiati del campo di Blackwater i cui familiari erano stati torturati o massacrati dai soldati indonesiani addestrati dalle Forze Speciali statunitensi. Qualcuno negli Stati Uniti si è fermato a pensare cosa stavano facendo? Era come se tutti si fossero lasciati alle spalle le proprie coscienze. Ma, forse, questo è un prerequisito per arruolarsi nei Berretti Verdi. Nessuna coscienza. Nessun rimorso. Soltanto ordini da eseguire.
A qualunque costo, non voglio farne parte.
Mi fermo sul lato della montagna che stiamo scalando. Comprimo la faccia contro il fango. Sammy si arrampica e mi raggiunge, pungolandomi.
"Mi sto riposando" gli dico. "Colpa dello zaino. Pesa una tonnellata."
"Non devi fermarti."
Non riesco a togliermi lo zaino e quindi lo svuoto; tiro fuori i libri, l'altra crema solare, le pillole di vitamine e li faccio rotolare giù per la montagna. Atterrano da qualche parte di sotto inghiottiti dal verde. Sammy cerca di afferrare lo zaino, ma glielo strappo. Soltanto un'irrazionale ostinazione evita che io lasci perdere il tutto: arriverò a Hotmin con lo zaino oppure non ci arriverò affatto. Incomincio a tirare fuori delle altre cose, ma lui mi ferma, afferrando lo zaino e mettendoselo in spalla. Sebbene io sia stremata e mi faccia male tutto il corpo, scalare senza lo zaino mi risulta più facile e avanzo più velocemente lungo la montagna. Una volta in cima, mi accorgo che Sammy è rimasto indietro. Mila lo guarda dall'alto e ride. Incomincio a pensare che il suo senso dello humour sia la fonte segreta della sua energia.
Quando infine Sammy ci raggiunge si toglie il mio zaino.
"Non ce la faccio" mi dice.
Lo passa a Mila che lo accetta senza dire una parola ma anche lei incomincia a restare indietro. Una volta ai piedi della montagna, me lo restituisce e fa schioccare la lingua per esprimere tutto il suo disappunto. Starà pensando la stessa cosa che penso io e cioè che soltanto un'idiota donna bianca poteva portarsi dietro una zavorra del genere in un viaggio come questo. Annuisco. Ha assolutamente ragione.
Proprio quando penso di non poter andare oltre, quando ho perso qualsiasi capacità di coordinazione dei movimenti e i miei passi sono goffi e squilibrati, usciamo dalla giungla e scivoliamo giù lungo la stretta sponda del fiume.
Mila fa le porzioni del suo ultimo taro. Mi sforzo di mangiarlo ma mi nausea all'istante. Eppure, insiste che io ne ingoi un altro po' e non mi lascia finché lo faccio. Non sto più nella pelle, è come se avessi il corpo in fiamme. La testa continua a pulsare, pulsare, e non riesco a stare seduta, figuriamoci a stare in piedi e rimettermi lo zaino per riprendere il cammino. Mila continua a dire che questo posto ormai leggendario di nome Hotmin è "vicino". Tutto quello che io vedo, però, non è altro che giungla. Irti pendii di giungla e non un segno di umanità da nessuna parte. Voglio stare vicino al fiume perché è piatto e mostra la distanza. Il cielo in alto libero dalla vegetazione mi offre un riparo dalla claustrofobica foresta pluviale. Il fiume è come una strada, una via di fuga da un labirinto sconosciuto della natura. Ora posso capire perché gli esseri umani si sono sempre insediati sulle coste.
Mi volto verso Sammy e gli dico che non sono in grado di continuare.
Per me è terribile ammetterlo, ma sto troppo male. Temo di avere un colpo di calore e di morire, o forse sto già morendo. Pur volendo, sarei un pessimo Berretto Verde; non ho quel che ci vuole per attraversare questa giungla. Non ho superato la prova. Non ho imparato niente dalla mia esperienza tranne che si può valutare male un dato ambiente.
"Non puoi stare qua" dice Sammy.
"Devo. Puoi mandare una canoa a cercarmi quando sarete arrivati a Hotmin."
Sammy parla con Mila in inglese Pidgin. Lei ci ride in faccia e scuote la testa. Indica il fiume.
"Dice che non verrà nessuno" mi riporta Sammy. "Nessuno risalirebbe questo fiume."
Guardo le sponde sottostanti del fiume fino al punto in cui piega all'interno della foresta. Sebbene ci siano molte zone in cui si potrebbe allestire un campo di fortuna, non ci sono i segni tipici della presenza umana: delle tettoie grossolane, dei falò, nascondigli di legno. So che quest'area è una delle zone più densamente popolate della Nuova Guinea.
Mi piacerebbe conoscere abbastanza l'inglese Pidgín per poter personalmente dire a Mila che ho bisogno di avere una qualsiasi garanzia da lei, ho bisogno di sapere quanto ancora dovrà durare questa gara perché non posso continuare per molto. Penso a quello a cui ho rinunciato venendo in questo Paese: tutti i miei risparmi... James. Lo vedo davanti ai miei occhi. Seduto come un indiano sulla sabbia che mi fissa. Vuole sapere perché mi sto facendo tutto questo. Che cosa ho da guadagnare "immischiandomi" in tutta questa sofferenza. Sono forse masochista? Mi odio a tal punto?
Cerco di dirgli che non è una questione di odio. Voglio sapere di poter compiere un'impresa straordinaria.
Stai ancora cercando di attirare l'attenzione su di te, mi direbbe lui. La tranquilla ragazza che ha bisogno di essere vista. Questa volta ci sei veramente vicina, sai?
Vicina a cosa? Cerco di mettermi a sedere.
Alla morte.
"Mi hai detto qualcosa?" mi chiede Sammy. Mi sventola sulla faccia e poi poggia la sua palma umida sulla mia fronte. "Ma tu scotti!"
Guardo il fiume senza nome che scorre allontanandosi nella giungla. Ora è il momento di decidere: Mi fermo? Resto da sola qui abbandonata?
Mi ricordo delle gare di corsa che facevo e di quanto fosse dura arrivare all'ultimo giro. Avrei voluto crollare per terra sulla pista e far finire l'opera a qualcun altro. Sapendo che c'era la promessa della fine, il pensiero che sarebbe arrivato un momento in cui mi sarei potuta fermare e riposare mi faceva andare avanti fino al traguardo. E così anche questa esperienza avrà la sua fine sebbene non ce l'abbia ancora molto chiara.
Con molta difficoltà mi tiro su. Continuerò a camminare e arriverò alla "fine" raggiungendo questa meta chiamata Hotmin oppure morirò nel tentativo di tagliare il traguardo.
La giungla all'improvviso si apre sopra di noi, abbiamo raggiunto una radura.
Mila, sorridendo, ci dice di sapere dove ci troviamo, che siamo vicini a Hotmin. Piante di cassava trascurate s'insinuano sui pali tra le coltivazioni di patate dolci. Ci facciamo strada in mezzo ad alcuni campi di canna da zucchero fino a raggiungere un sentiero che costeggia un fiume: sarà il May? Le montagne sono finite e il sole qui è libero di splendere
in tutta la sua luce accecante. Ordino ai miei piedi di continuare a muoversi. Ogni passo deve essere comandato, ogni movimento è coercitivo. Vengo assalita dalle cavallette con i loro versi unici e acuti. Sammy mi passa un pezzo di canna da zucchero da succhiare e questa ha la straordinaria capacità di rivitalizzarmi, a farmi andare avanti. Hotmin deve essere "klotsu", vicina. Molto vicina.
Ma qui c'è il gran finale: la giungla finisce prima di un fiume profondo e dal corso rapido, certamente una considerevole barriera naturale per il villaggio di Hotmin durante i giorni di guerra tra tribù. Il fiume è largo circa 3 metri e un unico tronco stretto, poco più di 30 centimetri di diametro nel punto di maggiore spessore, si estende da una sponda all'altra.
A circa sei metri più in basso, le acque ruggenti si frangono sulle rocce. Questo tronco, mi dice Mila, deve essere attraversato se vogliamo arrivare a destinazione prima che cali la sera.
"Starai scherzando" dico e poi guardo Sammy.
Si asciuga il sudore dagli occhi e si piega per studiare bene il fiume e il tronco che lo attraversa.
I miei movimenti non sono più coordinati, prendo in considerazione la possibilità di usare un bastone per tenermi in equilibrio, ma l'acqua scorre così veloce che mi trascinerebbe dentro. No, non è facile. Questo è l'esame finale: o lo supero o fallisco miseramente.
Mila è la prima ad andare, naturalmente. Per aumentare la mia ansia, non fa il solito salto sul tronco. Invece, mette con calma un piede davanti all'altro mentre il tronco si piega e oscilla. Tiene le braccia aperte all'infuori come una ballerina inesperta. Soltanto quando è ormai vicina alla riva opposta accelera il passo e salta per mettersi in salvo. A questo punto è tutta sorridente. Lei ci fa cenno di avvicinarci e Sammy, borbottando, preoccupato per il fiume, si asciuga il sudore dalla faccia e incomincia ad attraversare. Ogni movimento dei suoi piedi è lento, calcolato. Il suo corpo va avanti e indietro, le braccia si agitano e si piegano per correggere l'equilibrio. Cerco di imparare da lui quando alla fine tocca anch'egli la sponda e salta a terra risollevato.
Ora tocca a me.
"Lentamente" urla Sammy. "Apri le braccia all'esterno."
Sospiro e scuoto la testa. Cerco di respirare con molta calma. Dopo di questo sarà tutto finito. Hotmin mi aspetta dall'altra parte. Dopo potrai fermarti.
"OK" apro gli occhi. "Facciamolo."
Mi concentro sull'equilibrio. Non posso permettermi di cedere alla mia stanchezza delirante neanche per un attimo. Provo la presa delle dita dei piedi intorno al tronco. Mi rendo conto quant'è scivoloso. Non è così male. Lentamente. Faccio il primo passo. Il mio zaino cerca di tirarmi da una parte e io mi piego dall'altra per equilibrare il peso. Ora faccio un altro passo in avanti. È più facile camminare con i piedi in parallelo al tronco. Trascinando un piede lungo il tronco e poi muovendo anche l'altro. Appositamente non sollevo lo sguardo per vedere dove mi trovo, in quanto non voglio perdere la spinta del momento.
Lentamente, lentamente faccio dei progressi. Ora guardo rapidamente verso l'alto e vedo che sono al centro del fiume. L'acqua sale dal basso. Quasi colta dal panico, incomincio a muovermi più rapidamente. Più mi avvicino alla sponda opposta, più aumenta la possibilità di poter saltare sulla terra ferma.
Come se riuscisse a leggermi nella mente, Mila mette un piede sul tronco e incomincia a muoverlo. Faccio un salto per raggiungere la sponda e atterro sul fango vicino ai suoi piedi. Mentre la osservo mi dà una pacca sulla spalla, ridendo. Sammy mi stringe la mano.
"Congratulazioni!" dice, aiutandomi a tirarmi su.
Giriamo intorno a una roccia scivolosa, piccoli rivoli di acqua che cadono a cascata da un corso d'acqua più in alto sulla faccia della scogliera per poi precipitare in altre paludi e in altri campi coltivati. I cani iniziano ad abbaiare. Riesco a vedere le capanne, a sentire la gente che esulta per l'eccitazione. I ragazzi si radunano intorno a me e applaudono. Con le mani mi toccano e mi spingono ad andare avanti.
Ecco Hotmin. (Kira Salak, 2001)

 

 

 

 

Gli Asaro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli Asmat.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Baining.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Bugamo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Dani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Goroka.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli Huli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Kaluli.

 

 

 

 

 

 

 

 

I Kui.

 

 

 

 

 

 

 

 

Tra i Marind-anim, sulla costa meridionale della Nuova Guinea, i grandi tamburi "kandara" sono riservati dagli uomini per cerimonie importanti, come i rituali di iniziazione, in cui gli iniziati entrano nel terreno di iniziazione suonando i tamburi. Ad ogni festa principale, si canta e si balla il "samb-zi" (canto festivo) e si suonano i "kandara". I suonatori di batteria di solito si riuniscono intorno al fuoco mentre il timpano viene accordato attraverso l'applicazione di grumi di cera sulla membrana, con il calore delle fiamme che mantiene la cera malleabile.
Alla base dei “kandara”, un intaglio curvilineo in rilievo fa riferimento alla forma organica di un alveare di vespe e in alto una stella o una volpe volante. I motivi sono migliorati con pigmenti bianchi, neri e rossi. Il tamburo "kandara" ha una vita stretta e cilindrica da cui si allarga verso le due estremità.
Nella parte centrale è posta una maniglia, che forma un rettangolo. La pelle utilizzata è quella dell'iguana, del minyawak o del canguro dendrolagus. Il Marind-anim usa una miscela di calce, sangue e urina per fare la colla per fissare la pelle alla pelle del tamburo. Il sangue a volte è quello di un animale, ma nella maggior parte dei casi si ottiene praticando un'incisione, con un pezzo di bambù appuntito, nel glande del proprietario del tamburo. I Marind-anim credono che un tamburo di cui la pelle è incollata con una tale colla produrrà un suono particolarmente bello e creerà una forte reazione nelle donne.
Di solito si trovano un certo numero di minuscole palline sulla pelle del tamburo, o se ne trovano tracce, disposte in modo uniforme in un quadrato. Queste palline sono fatte della sostanza viscosa che un particolare tipo di ragno secerne nell'addome per formare la sua tela. Le pelli sono spesso viste con un quadrato costituito da tre file di tre di queste minuscole macchie o quattro file di quattro. La loro funzione è migliorare il suono. Nel caso in cui la pelle si allenti durante la riproduzione del tamburo, si ottiene nuovamente la giusta tensione scaldandola sul fuoco.
L'antropologo olandese Jan Van Baal ha riferito che canoe e tamburi erano oggetti di incantesimi magici in cui i loro nomi avevano un ruolo. Un "wih", o spirito, può essere contenuto in un tamburo e quando un tamburo è rotto, si dice che il "wih" è andato, proprio come quando un uomo o una donna muore.
Padre Geurtjens fornisce una descrizione dettagliata del modo in cui i Marind-anim suonano i loro tamburi.
"I tamburi sono realizzati con il legno di un albero con un durame tenero. Un pezzo del tronco viene tagliato nella forma ruvida di un tamburo. Un'estremità viene leggermente scavata e il pezzo di legno viene quindi messo in posizione verticale, l’estremità scavata verso l’alto. L'estremità inferiore è bloccata nel terreno sufficientemente per evitare che cada. L'estremità scavata viene quindi riempita con acqua che viene costantemente e accuratamente reintegrata. Sotto l'azione dell'acqua, il durame inizia rapidamente a marcire. Le parti ammorbidite vengono quindi rimosse. Quando metà della cavità è marcita in questo modo, il pezzo di legno viene ribaltato e la stessa cosa viene ripetuta all'altra estremità. Questo processo consente di spingere la parte più interna con un pezzo di legno duro o un pezzo di bambù. Il risultato è un canale che attraversa la lunghezza del pezzo di legno. Questo canale viene poi allargato dalla cottura, il calore viene regolato da soffietti e l'interno viene raschiato con conchiglie e zanne di maiale. Internodi di bambù vengono anche fatti esplodere nella cavità: se gli internodi del bambù vengono tenuti nel fuoco, si aprono con un potente botto. Questo è inteso come magia simpatica, con l'obiettivo che il tamburo produrrà un suono forte. Ottenuta la cavità interna richiesta, la parte esterna del tamburo viene quindi lavorata con paletta e rifinita: si intaglia poi con le zanne di maiale ".

 

 

 

 

 

 

Cultura Marind-anim.

Tamburo rituale "kandara". Dimensioni: h. cm.135.5, largh.max. cm. 28, diametro parte superiore tamburo cm. 26.5.

Acquistato ed espertizzato Galleria Mazzoleni-Sambonet, Milano. 1996.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Foto d'epoca di Marind-anim con "kandara".

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

"per aprire il documento cliccare sulla locandina"