November 2021. Dario.
“In tutta la mia vita non ho mai scritto niente per divertire e basta. Ho sempre cercato di mettere dentro i miei testi quella crepa capace di mandare in crisi le certezze, di mettere in forse le opinioni, di suscitare indignazione, di aprire un po' le teste.”
Come scrissi nel "mestée del mes" di luglio 2020 era mia intenzione dedicare tre "mestée" a un trittico di artisti che ebbero Milano come manifestazione, per nascita o per adozione, della loro "arte"". Il primo fu Enzo Jannacci, il secondo Giorgio Gaber, il terzo è Dario Fo.
Cosa dire di Dario? Qualsiasi definizione sarebbe restrittiva. Come artista è stato drammaturgo, attore, regista, scrittore, autore, illustratore, pittore, scenografo; nel suo esprimersi è stato boicottato, censurato, denunciato, querelato. Premio Nobel per la letteratura nel 1997 con la motivazione: "Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi". Come uomo è stato l'incarnazione della militanza politica, dell'impegno assoluto, della dedizione alla causa di classe. Fu riferimento essenziale per tutti coloro che dal 1968 in poi ricercavano nell'intellettuale di eccelsa qualità il piacere di coniugare arte e partecipazione.
Dario per me è stato, e rimane tuttora, l'espressione più elevata del connubio uomo-artista che abbia mai visto: semplicemente ineguagliabile.
Indimenticabile e fondamentale la collaborazione umana, artistica e politica avuta dalla compagna della vita Franca Rame (clicca sull'immagine).
Di seguito un testo del 1976 di Marco De Poli, che, anche se datato ante-Nobel, l’ho ritenuto il più conciso ed esaustivo trovato sul web riferito agli esordi teatrali di Fo sino al capolavoro “Mistero buffo”, alcuni video, purtroppo di pessima qualità, da “Mistero buffo”, il video di “Morte accidentale di un anarchico”, il discorso fatto all’assegnazione del Nobel nel 1997, l’intervista fatta nell’occasione del compimento di 90 anni da “Fanpage” e le parole di Carlo Petrini davanti al Duomo di Milano nel giorno del suo funerale, il 15.10.2016.
Infine per avere una panoramica completa dell’attività artistica di Fo, indispensabile riferirsi a (clicca sull'immagine):
"Fermare la diffusione del sapere è uno strumento di controllo per il potere perché conoscere è saper leggere, interpretare, verificare di persona e non fidarsi di quello che ti dicono. La conoscenza ti fa dubitare. Soprattutto del potere. Di ogni potere."
Dario Fo. Marco De Poli, Belfagor 31.01.1976.
La notizia, diffusasi lo scorso inverno, che Dario Fo aveva la possibilità di essere incluso nella rosa dei candidati al premio Nobel per la letteratura, non dovrebbe avere stupito i suoi estimatori e quanti sanno che Fo è oggi I'autore teatrale italiano forse piú conosciuto e rappresentato all'estero; ma ha certo sconvolto tutti coloro (e sono molti) che in Italia lo hanno sempre tenacemente ostacolato e avversato. Non è comunque il primo riconoscimento internazionale del valore di un artista che, per essersi battuto apertamente fin dagli inizi della sua carriera, e piú specificatamente negli ultimi anni, contro l'establishment non solo culturale ma anche e soprattutto direttamente politico, ha conosciuto da parte delle "patrie" autorità censure, querele, denunce, arresti, processi, in una persecuzione tanto ostinata quanto inconcludente. Inconcludente non perché alla line la "ragione" è prevalsa, ma perché Fo è riuscito a creare intorno a se una tale rete di collegamenti, di partecipazione, di solidarietà a livello di massa prima ancora che sul piano intellettuale, da rendersi, in qualche misura, "invulnerabile" a questo genere di attacchi.
Dario Fo appartiene a quella categoria, non rara nella storia dello spettacolo italiano, di artisti "popolari" e "totali", creatori, interpreti e registi al tempo stesso dei testi che rappresentano; con la differenza che la sua "popolarità" non è rimasta settorializzata, o presente soltanto come ispirazione originaria, ma ha saputo confrontarsi e adeguarsi al significato politico e non piú sociologico che questo concetto ha prevalentemente assunto negli ultimi anni. Cosi gli spettacoli di Fo sono usciti dai teatri del centro, sono entrati nelle università occupate, nelle case del popolo, nelle fabbriche, sulle piazze; hanno raggiunto un pubblico in gran parte nuovo, dandogli insieme un nuovo senso del teatro legato alle proprie personali esperienze di vita e di lotta. Tutto ciò supera, ovviamente, i limiti del semplice "spettacolo", e diventa un fenomeno sociale e politico: ed è proprio in questa accezione, non piú in quella dell'"artista" tradizionale, che Fo preferisce oggi essere considerato.
Dario Fo è nato nel 1926 a San Giano in Valtravaglia (provincia di Varese), figlio di un ferroviere e di una contadina: un'origine popolare e "lombarda", che si somma alla tradizione dei "fabulatori" che "giravano il lago Maggiore... raccontando nelle piazze, nelle osterie, strane storie, un poco ingenue, un poco matte". Dopo la guerra si trasferisce a Milano, dove studia all'Accademia di Brera e alla facoltà di architettura, frequentando gli ambienti della cultura di sinistra" in una stagione, probabilmente, irripetibile". In questi anni di studio apprende quanto gli servirà per fare, in seguito, lo scenografo e il costumista dei propri spettacoli, ma fa anche importanti scoperte intellettuali che in seguito rievocherà così: "Studiando architettura, mi sono interessato alle chiese romaniche. Rimasi stupito come opere cosí poderose potessero essere espressione non di intellettuali o di artisti con l'A maiuscola, ma di semplici scalpellini, di semplici operai e muratori, ignoranti e analfabeti. Scopersi improvvisamente una cultura nuova, vera: la forza creatrice di coloro che sono sempre stati definiti i "semplici" e gli "ignoranti", che sono sempre stati i "paria" della cultura ufficiale".
Il passaggio il teatro avviene un po' per caso: aveva cominciato ad organizzare, insieme ad altri studenti, uno spettacolo satirico su un comizio elettorale; "scoperto" da Franco Parenti, viene introdotto alla radio, dove scrive e recita per quattro mesi i monologhi del "Poer nano", in cui il tradizionale rapporto tra personaggi mitici o reali dell'antichità (Caino e Abele, Davide e Golia, Sansone e Dalila, Cesare e Cleopatra, ecc.) viene demistificato attraverso una vera e propria inversione di ruoli. Nel 1952 Fo rappresenta questi stessi testi al teatro Odeon, e lavora con Giustino Durano nella rivista "Cocoricò". E in collaborazione con Parenti e Durano (con l'impostazione mimica di Jacques Lecocq realizza l'anno seguente "Il dito nell'occhio", una satira della rivista americana "kolossal", senza soubrette, senza ballerine e senza coreografie fastose, che in venti quadri espone la storia del mondo dalle origini ai nostri giorni, demolendo impietosamente i miti della tradizione. Presentato al Piccolo Teatro, "Il dito nell'occhio" ottiene un successo strepitoso, e tra repliche e tournè viene visto, nella stagione '53-'54, da oltre 180.000 spettatori. Successo uguagliato l'anno successivo da "Sani da legare", in cui gli stessi schemi paradossali e parodistici vengono applicati alla radiografia della vita di una città dall'alba al tramonto: testo tartassato dalla censura e avversato dalle autorità di governo, che giungono al punto di imporre la presenza in sala di agenti di polizia con il copione in mano, per controllare che lo spettacolo non si discosti dal testo approvato.
Dopo questi due spettacoli che hanno fortemente contribuito alla morte della rivista tradizionale e hanno rinnovato gli schemi della satira allargandola al campo della politica, Fo (che nel frattempo ha sposato l'attrice Franca Rame) si dedica per qualche anno al cinema. Scrive insieme ad Age e Scarpelli alcune sceneggiature per Pietrangeli, e insieme a Lizzani collabora alla sceneggiatura alla regia de "Lo svitato", di cui è il principale protagonista: film due racconta le disavventure di Achille, galoppino tutto fare di un giornale della sera, nelle sue peregrinazioni per Milano in cerca del "colpo" giornalistico che lo faccia promuovere reporter. Ma il tentativo di creare in Italia un corrispettivo del francese "Monsieur Hulot" di Tatì si può dire in complesso fallito; forse anche per questo Fo non interpreterà piú altri film, e, a parte qualche raro ritorno alla radio e alla televisione (fino a Canzonissima del '62), si dedicherà completamente al teatro.
Tra il '58 e il '59 Fo mette in scena due spettacoli di farse. Il primo, "Comica finale", tratto da canovacci teatrali della famiglia Rame, è una vera e propria ripresa delle piú antiche tradizioni popolari nel campo dello spettacolo, dalla commedia dell'arte alle marionette. In un'ambientazione storica piuttosto imprecisata si muovono personaggi fuori dal tempo (nobili e briganti, servi e "bravi", osti e contadini), dominati, in varia misura, dal comune denominatore della bramosia materiale, che per i piú umili, come nella tradizione contadina, diventa poi lotta contro la fame, necessità di pura e semplice sopravvivenza.
Nel secondo spettacolo, "Ladri, manichini e donne nude", sempre ispirandosi a quella tradizione, Fo unisce in un lungo collage una serie di atti unici scritti appositamente, in cui gli "umili" sono impersonati da categorie sociali piú "moderne" (ladri, imbianchini, spazzini), forse meno fameliche ma pur sempre contrapposte al mondo dei "signori". Il conflitto, o semplicemente l'incontro, tra queste due classi diverse, porta a situazioni paradossali di comicità sfrenata, in cui vengono utilizzati tutti i vecchi trucchi della tradizione farsesca e pochadistica. Si tratta insomma di testi che non vivono ancora autonomamente ma il suo valore consiste soprattutto nel fatto che è lo stesso Fa a recitarli, con la sua tecnica di attore ormai raffinata e perfezionata, con la sua capacità di controllare, sulla scena, ogni movimento del suo corpo, fino a trasformarlo in una vera e propria marionetta, in un manichino snodato e animato di vita propria e autosufficiente.
Con il '59 ha inizio, si può dire, la stagione della maturità di Dario Fo, aperta dal ciclo delle "commedie". Con la sola eccezione del 1962, in cui viene chiamano insieme a Franca Rame a presentare "Canzonissima" (che è costretto ad abbandonare dopo alcune puntate per insanabili contrasti con la censura) ogni anno Fo scrive e mette in scena, sempre con trionfale successo di pubblico, una commedia diversa. Sono gli anni in cui, pur restando ancora all'interno delle istituzioni teatrali, egli affina e perfeziona la sua satira sociale e politica.
Nelle "commedie" Fo ricorre largamente, come nelle farse, a tutte le tecniche della tradizione comica teatrale: mimica sfrenata, camuffamenti, scambi di identità, meccanismo dell'intreccio, ricerca dell'effetto; ma rinnova anche questa tradizione in modo originale, con il costante uso del paradosso, con l'inserimento nei momenti chiave dii canzoni a riassumere e suggellare le situazioni tipiche, con l'inversione del ruolo pazzi-sani e la predilezione per personaggi volutamente "ingenui": tutti mezzi per presentare, ridendo e facendo ridere, le verità piú sgradevoli e piú scomode.
Si precisano cosí, strada facendo, anche i bersagli della sua critica. Dalla satira della burocrazia statale ne "Gli arcangeli non giocano a flipper" (1959), a quella della proprietà privata in "Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri" (1960), e poi della speculazione edilizia "Chi ruba un piede è fortunato in amore" (1961), argomento questo che, ripreso l'anno seguente a Canzonissima, provocherà il suo allontanamento dalla trasmissione televisiva. E, dopo la parentesi brechtiana di "Isabella, tre caravelle e un cacciaballe" (1963), la vasta e animata denuncia di tutto il sistema di potere economico-politico che governa la nostra società in "Settimo ruba un po' meno" (1964), a cui segue, quasi come conseguenza logica, l'anno successivo, l'invito alla mobilitazione, all'azione politica diretta rivolto al pubblico (benché ancora velato dietro l'ambientazione medioevale) in "La colpa è sempre del diavolo".
In questa operazione di smitizzazione, e poi di lotta aperta contro la società borghese, hanno sempre una funzione importante le canzoni, vale a dire la satira espressa nella sua forma piú immediata e popolare: sia quelle inserite, brechtianamente, negli spettacoli teatrali, sia quelle composte indipendentemente dalla rappresentazioni, da "Hanno ammazzato il Mario in bicicletta" a "L'Armando, "Prete Liprando", "Veronica", "Vengo anch'io" (queste ultime musicate e cantate da Enzo Jannacci, uno dei tanti giovani "lanciati" direttamente o indirettamente da Fo nei campo dello spettacolo). E sulla doppia scia della passione musicale e della scoperta della tradizione Fo mette in scena, nel 1966, "Ci ragiono e canto", spettacolo di canzoni popolari che abbracciano tutta la vita dell'uomo dalla nascita al giudizio universale-rivoluzione. Questa grossa esperienza di contatto con gruppi e autori di diverse regioni (esperienza ripresa in seguito due volte in forma rinnovata, nei 1969 e nel 1973) gli permette anche di precisare la direzione del proprio impegno artistico e sociale: "A me interessa soprattutto un passato che sia attaccato alle radici del popolo, cioè che parta dalle manifestazioni di vita e di cultura del popolo, come fonte essenziale di solidità e di ampiezza di rappresentazione sia della vita sia della cultura, per poter esprimere nuove ricerche e saggiare nuove indagini, sulla base quindi del concetto del "nuovo nella tradizione" al quale sono legato".
Nel 1967 Dario Fo mette in scena l'ultima delle sue "commedie", "La signora è da buttare", una violenta critica dell'imperialismo americano. Con questo spettacolo egli ha ormai raggiunto il punto di rottura: non fa piú della commedia "borghese", ma non fa ancora del teatro "politico", nel senso che non ha ancora operato una scelta definitiva di campo e quindi di pubblico a cui rivolgersi. L'esperienza del '68 si incaricherà di risolvere questa contraddizione. Quando un giorno si farà la storia dei mutamenti che questo anno, con tutto quello che rappresenta, ha prodotto nella mentalità e nel comportamento degli intellettuali e degli artisti italiani, a pochi certo si potrà riconoscere una coerenza teorica e pratica come quella dimostrata da Fo. Abbandonati i teatri del centro, fonda l'"Associazione Nuova Scena", che appoggiandosi al circuito organizzativo dell'ARCI porta il teatro nelle sale di periferia, nelle cooperative, nelle case del popolo e nelle camere del lavoro di tutta Italia. "Per anni -egli dichiara- ho fatto da giullare ai borghesi. D'ora in poi sarò il giullare dei proletari".
Nel '68 e nel '69 gli spettacoli messi in cantiere sono numerosi, quasi a tener dietro al ritmo del "movimento" e delle lotte: "Grande pantomima con bandiere e pupazzi piccoli, grandi e medi", sulla continuità del fascismo nelle strutture dello stato borghese, "Ci ragiono e canto nr. 2", "Mistero buffo", "Legami pure che tanto spacco tutto lo stesso" e "L'operaio conosce 300 parole, il padrone mille, per questo lui è il padrone". In questi ultimi due è particolarmente evidente la "svolta" nell'attività di Fo, e anche il senso del suo tentativo d'intervento ancora all'interno della sinistra "ufficiale". Le situazioni e i fatti descritti sono immediatamente attuali e tangibili, in scena i protagonisti sono operai e operaie, militanti politici in cui il pubblico può immediatamente riconoscersi; e l'analisi delle contraddizioni che essi vivono non spinge piú soltanto al riso, ma vorrebbe indurre gli spettatori a lottare contro quelle stesse contraddizioni. In questo tentativo Fo appare fortemente critico nei confronti della linea politica del gruppo dirigente del PCI, accusato di non sviluppare le lotte fino in fondo anche contro le aspettative e le esigenze della sua "base" sana. Di qui lo scontro inevitabile con gli organizzatori dell'ARCI c la clamorosa uscita di Fo dall'organizzazione.
Negli anni dal 1970 ad oggi Fo si trova dunque in una situazione di isolamento sia dalle istituzioni teatrali "normali" sia da quelle "alternative" (ma fino a un certo punto) della sinistra ufficiale. E tuttavia egli non si lega, programmaticamente, a nessuno dei gruppi o movimenti sorti alla sinistra del PCI. Fedele alla sua concezione di teatro "popolare", Fo intende mettere il suo lavoro al "servizio del movimento di classe", il che non vuol dire "infilarsi nel piatto già confezionato, ma contribuire al movimento, essere presenti, cambiare con esso, con le sue lotte e con le sue reali esigenze".
Lo strumento che viene scelto per portare avanti questa nuova fase di lavoro è il Collettivo Teatrale La Comune, il che implica da un lato un momento creativo di gruppo, dall'altro la soluzione organizzativa del "circolo privato", che permettendo l'ingresso in sala ai soli soci, supera sul piano legale i problemi di censura, controllo di polizia, ecc.. Questo non impedisce naturalmente che la repressione dell'apparato statale sull'attività di Fo si sia sviluppata in diversi modi, da quelli indiretti ("persuasione" nei confronti dei proprietari o gestori delle sale) a quelli diretti, fino allo stesso clamoroso arresto di Fo a Sassari, nel novembre 1973, con l'accusa di "resistenza a pubblico ufficiale" per essersi opposto all'ingresso in sala degli agenti durante le prove.
Sono, ciò nonostante, anni di intensa produzione teatrale, perché Fo cerca di tener dietro, con i suoi spettacoli, ai principali avvenimenti politici, in modo da trasformare ogni rappresentazione in un momento di presa di coscienza e di mobilitazione. Abbiamo cosí spettacoli su Pinelli, la "strage di stato" e la repressione ("Morte accidentale di un anarchico", "Pum, Pum! Chi è? La polizia"); sulla lotta di classe in Italia e sui cedimenti politici della sinistra riformista ("Tutti insieme, tutti insieme!", "Scusa, ma quello non è il padrone?", "Morte e resurrezione di un pupazzo", Ordine per Dio.ooo.ooo.ooo!"); sulla resistenza italiana e palestinese ("Vorrei morire anche stasera se dovessi pensare che non è servito a niente", "Feadyn"); sulla "Guerra di popolo in Cile" (in cui il "coinvolgimento del pubblico" arriva fino alla simulazione -sul palcoscenico e in sala- di un vero e proprio colpo di stato; fino ai recenti "Non si paga, non si paga", sulla autoriduzione e riappropriazione, e "Il Fanfani rapito" (presentato nei giugno '75, pochi giorni prima delle elezioni amministrative).
A questa intensa produzione corrisponde una altrettanto intensa attività di "decentramento", sviluppata sia attraverso le rete di circoli "La Comune" presenti in diverse città, sia attraverso interventi diretti del Collettivo nelle particolari situazioni di lotta. Questa mobilità è resa possibile sotto il profilo tecnico dalla rinuncia all'impianto teatrale tradizionale (scenografie, costumi, luci); sotto quello politico dalla scelta di un tipo di spettacolo "aperto", disposto ad adeguarsi volta per volta alla realtà di un pubblico sempre diverso. Il dibattito costituisce quindi la naturale e necessaria conclusione di ogni rappresentazione, ed anche l'occasione per continue revisioni, modifiche, cambiamenti del testo rappresentato. Accanto a questo lavoro di comunicazione e di informazione, e ad altre attività politiche collaterali (come il "Soccorso rosso"), Fo si è reso personalmente protagonista nel 1974 (ma la vicenda non è ancora conclusa) di una vera e propria lotta, nell'ottica della "riappropriazione". Allontanata da teatri, cinema, e in genere da tutti gli "spazi" possibili, "La Comune", con 30.000 soci a Milano e 700.000 spettatori in tutta Italia, si trovava priva di una sede per la propria attività nella sua stessa città. Su invito dell'assessore al demanio, Fo visita una palazzina Liberty di proprietà del comune di Milano nel popolare quartiere di Porta Vittoria, unico avanzo del vecchio mercato ortofrutticolo demolito; e nonostante le disastrose condizioni dello stabile, decide di restaurarlo, insieme agli abitanti del quartiere, per farne un "centro di iniziativa culturale al servizio della creatività e della volontà di progresso del movimento popolare". E l'inizio di un tentativo di tipo nuovo, di gestione autonoma di uno spazio culturale; ed anche di un lungo abbraccio di ferro con il comune di Milano (rimangiatosi nel frattempo gli impegni assunti) che vede Fo vincitore di fatto, non solo per la sua caparbia tenacia nel portare avanti il progetto, ma per il vastissimo appoggio dimostratogli in questa occasione, oltre che dalla culture militante, da vasti strati di abitanti del quartiere coinvolti in un discorso che li vede per la prima volta protagonisti.
Le ragioni del successo di Fo, a livello di pubblico prima ancora che di critica (che è anzi nei suoi riguardi ancora sporadica e lacunosa), stanno forse proprio nel fatto che egli crede nell'esistenza di una lunga tradizione di "cultura popolare", ancor viva nel presente, simile nel fondo, al di là delle differenze esteriori. Come artista egli si sente in dovere di recuperarla, di "togliere gli orpelli che il potere, attraverso i suoi intellettuali, ha imposto", e di riproporla al popolo stesso perché se ne faccia "l'arma della sua presa di coscienza nella lotta". Di qui il rifiuto del teatro intimistico e naturalistico e della concezione borghese dell'attore "ispirato" (secondo le direttive di Stanislavski); e invece il tentativo di abbattere la "quarta parete" che divide l'attore dal pubblico per "parlare in terza persona", cioè rivolgendosi direttamente agli spettatori come nel "teatro epico" di Brecht. In passato ai è spesso ricollegato Fo a Ionesco, Becket, Adamov o al "teatro dell'assurdo" francese; e per l'uso della gestualità come elemento funzionale alla narrazione scenica lo si è paragonato alle esperienze piú recenti dell'avanguardia teatrale, da Grotowski al Living Theatre. Ma egli preferisce riconoscersi nel più umile e anonimo giullare della tradizione farsesca popolare.
"Il teatro popolare ha sempre usato del grottesco, della farsa -la farsa è una invenzione del popolo- per sviluppare tutti i discorsi più drammatici... Perché la risata rimane veramente nel fondo dell'animo con un sedimento feroce che non si stacca. Perché la risata fa evitare uno dei pericoli maggiori, che è la catarsi... Noi non vogliamo liberare nella indignazione la gente che viene. Noi vogliamo che la rabbia stia dentro, resti dentro e non si liberi, e che diventi operante con lucidità nel momento in cui ci troviamo, e portarlo alla lotta".
II più tipico e completo spettacolo di Dario Fo, la sintesi di tutti i suoi punti di vista culturali, politici e teatrali, continuamente ripreso, ringiovanito e aggiornato, é quindi "Mistero buffo": spettacolo veramente unico nel suo genere, in cui per tre ore, solo sul palcoscenico, senza l'aiuto di alcun artificio teatrale, Fo presenta e interpreta una serie di testi medioevali in dialetto padano (spesso liberamente reinventati), tutti più o meno imperniati sulla critica popolare della religione e della Chiesa come espressioni del potere. E' una piccola folla di personaggi diversi, ma tutti fortemente marcati dalla loro origine "giullaresca", attraverso i quali emerge realmente il senso di un mondo misteriosamente lontano e indefinito nello spazio e nel tempo, ma al tempo stesso presente e attuale nei suoi temi e nei suoi problemi.
In "Mistero buffo" ogni schematismo politico, agni forzatura polemica sono felicemente risolti in un discorso omogeneo che supera la dicotomia -talvolta presente nei lavori degli ultimi anni- tra momenti creativi e momenti esclusivamente politici. E ci sembra che questo spettacolo sintetizzi meglio di ogni altro il senso complessivo del lungo processo (non sempre unilineare, come si è forzatamente dovuto schematizzarlo, ma talvolta contraddittorio e contrassegnato da tensioni, scontri e scissioni) che ha portato Dario Fo dal teatro "borghese" al teatro "militante", senza però rinnegare quella capacità di coinvolgere il pubblico attraverso il comico che costituisce la caratteristica, e il pregio principale della sua personalità di interprete e di autore.
Mistero buffo.
Il momento più alto della produzione di Dario Fo è senza dubbio "Mistero buffo", in quanto sintesi di tutto il lavoro di ricerca, sia nell'ambito della cultura popolare che per quanto riguarda la scrittura scenica e l'uso della parola, della voce, del corpo, che l'autore ha portato avanti nella sua vita. "Mistero", infatti significa "rappresentazione sacra", e come tale è all'origine di tutto il teatro italiano popolare.
L'aggettivo "buffo" richiama invece le caratteristiche più evidente della secolare cultura degli oppressi, soprattutto italiani, capaci di contrapporsi alle vessazioni molteplici e reiterate dei potenti di tutte le epoche grazie alla forza dissacrante della risata, al rovesciamento parodico di ciò che altri riteneva sacrosanto e ineluttabile.
"Mistero buffo" è il vertice di una cultura profondamente eversiva, espressa in tutte le opere di Fo con quel tanto di illusoria ingenuità che gli ha permesso di individuare, nella forza popolare autentica, consapevole e ribelle, le energie necessarie ad un rovesciamento delle condizioni storiche di sottomissione e ingiustizia patite per secoli. Il sogno di una cultura nuova che poggia esattamente sulla propria forza culturale.
L'utopia che sta al fondo di questa idea artistica ha vitalizzato l'intera opera dell'autore-attore lombardo, consentendogli di offrire una nuova angolatura di osservazione degli emarginati, degli oppressi, con opportuni e originali approfondimenti psicologici e, soprattutto, con la splendida invenzione linguistica del grammelot, una sorta di lingua popolare universale, buffa ma concreta, ispirata alle parlate dialettali dell'area padana (con sconfinamenti significativi nell'umbro medievale) e alla lingua letteraria e popolaresca insieme che, da Francesco d'Assisi e Jacopone da Todi, raggiunge gli esempi seicenteschi del Folengo e del Ruzante.
I video recuperati sono tratti dall'opera. La qualità purtroppo è pessima, ma non ho trovato nulla di meglio.
La resurrezione di Lazzaro.
Lo Zanni.
Caino e Abele.
Il miracolo.
Il matto sotto la croce.
Cielo d'Alcamo.
Morte accidentale di un anarchico.
Nel 1970 Dario Fo sfida depistaggi e menzogne attorno al caso di Giuseppe Pinelli, il ferroviere morto cadendo da una finestra della questura di Milano dopo la strage di Piazza Fontana. Il premio Nobel lo fa dal teatro provando a restituire almeno in parte giustizia a un uomo innocente.
Il 5 dicembre 1970 Dario Fo metteva in scena per la prima volta “Morte accidentale di un anarchico.”
Giuseppe Pinelli, ferroviere, animatore del circolo Ponte della Ghisolfa e giovane staffetta nella Brigata Autonoma Franco, forse collegata alle Brigate Bruzzi Malatesta durante la Resistenza, muore nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 precipitando da una finestra della questura di Milano, dove era illegalmente trattenuto per accertamenti in seguito alla esplosione di una bomba nella sede milanese della Banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana. La prima versione data dal questore Marcello Guida nella conferenza stampa convocata subito poco dopo la morte di Pinelli sarà quella del suicidio, ma a questa versione crederanno in pochi.
Nei mesi successivi alla sua morte il ‘Comitato cineasti contro la repressione’ raccoglierà numerosi materiali per la realizzazione di un lungometraggio sulla vicenda. L’opera sarà portata a termine da due gruppi di lavoro coordinati da Elio Petri e Nelo Risi. Il film, composto da due parti: "Giuseppe Pinelli", diretto da Risi, e "Ipotesi su Giuseppe Pinelli", anche conosciuto come "Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli", diretto da Petri, vedrà la luce nel 1970.
“Quella sera a Milano era caldo. Ma che caldo che caldo faceva. Brigadiere apra un po’ la finestra. E ad un tratto Pinelli cascò”, recita la Ballata dell’anarchico Pinelli scritta la sera stessa dei funerali. Decine saranno i libri, i filmati, le opere teatrali, le installazioni artistiche, le canzoni dedicate a Pino Pinelli e al suo assassinio, non solo in Italia.
"Morte accidentale di un anarchico" è una delle commedie più note di Dario Fo (dopo "Mistero Buffo" e "Sesso, grazie, tanto per gradire" arriverà al terzo posto nella classifica degli spettacoli di autori viventi più rappresentati nel mondo), rappresentata per la prima volta il 5 dicembre 1970 a Varese da Fo e il suo gruppo teatrale “La Comune”.
L’allestimento dello spettacolo costerà al futuro premio Nobel più di quaranta processi in varie parti d’Italia (per evitare problemi Fo sposterà l’azione della commedia dall’Italia agli Stati Uniti d’America, dove negli anni venti, nella città di New York, era accaduto un fatto di cronaca simile agli avvenimenti svoltisi intorno alla morte di Pinelli che aveva come protagonista Andrea Salsedo, amico di Bartolomeo Vanzetti). L’opera, nata e sviluppatasi grazie a materiali reperiti dai coniugi Fo (verbali dei processi, articoli di stampa, interviste) cambierà forma man mano che nuove notizie contribuivano all’approfondimento sul caso e dal 1970 al 1973 si avranno tre stesure del lavoro.
Diceva Claudia Pinelli alla camera ardente allestita per ospitare la salma del premio Nobel al Piccolo Teatro Strehler di Milano: “Vogliamo ringraziare Dario per aver messo in scena Morte accidentale di un anarchico, hanno rischiato tantissimo, hanno dovuto fingere di parlare di un’altra persona, hanno agito con grande coraggio, cosa che li ha sempre caratterizzati, sia lui che Franca Rame; grazie al loro spettacolo la vicenda di mio padre è arrivata al grande pubblico”. (Ilaria Romeo, 2020)
Discorso di Dario Fo all’assegnazione del Nobel per la letteratura 1997.
Signore e Signori: il titolo di questa mia chiacchierata è «contra jogulatores obloquentes» e avete capito tutti che si tratta di latino, latino medievale. Questo è il frontespizio di una legge che è stata promulgata nel 1221 in Sicilia dall’Imperatore Federico II di Svevia, un «Unto del Signore» che a scuola ci presentano come un imperatore illuminato straordinario, liberale. Ora voi, da quello che segue, giudicherete se questo prossimo a Dio fosse veramente liberale. «Jogulatores obloquentes» significa «giullari che diffamano e insultano». La legge in questione permetteva a tutti i cittadini di insultare i giullari, di bastonarli e, se si era un po’ nervosi, anche di ammazzarli senza rischiare alcun processo con relativa condanna. Vi avverto subito che questa legge è decaduta e quindi posso continuare, tranquillo.
Signore e Signori... Alcuni amici miei, letterati, artisti famosi, intervistati da giornali e televisioni, hanno dichiarato: «Il premio più alto va dato senz’altro quest’anno ai Membri dell’Accademia svedese che hanno avuto il coraggio di assegnare il Nobel a un giullare!». Eh sì, il Vostro è stato davvero un atto di coraggio che rasenta la provocazione. Basta vedere il putiferio che ha causato: poeti e pensatori sublimi che normalmente volano alto... e poco si degnano di quelli che campano rasoterra... si sono trovati all’istante travolti da una specie di tromba d’aria. Ebbene, io applaudo e sono d’accordo con loro. Stavano già beati nel Parnaso degli eletti e Voi, con questa Vostra insolenza, li avete abbattuti e precipitati giù a sbattere musi e pance nel fango della normalità. Si son levati urla e improperi tremendi, rivolti all’Accademia di Svezia, ai suoi Membri e ai loro parenti prossimi e lontani fino alla settima generazione. I più scatenati hanno gridato: «Abbasso il Re... di Norvegia!». Nel trambusto si sono sbagliati di dinastia. A questo punto potete voltare pagina... vedete che c’è l’immagine di un poeta nudo travolto da un turbine di vento.
Qualcuno ha battuto anche la parte bassa: ci sono stati dei poeti e scrittori che hanno avuto crisi di nervi e di fegato spaventose. In quei giorni in Italia, nelle farmacie, non si trovavano più calmanti. Ma bisogna ammetterlo, diciamo la verità, cari Membri dell’Accademia, stavolta avete esagerato: andiamo, avete cominciato una diecina d’anni fa col premiare un nero... un Nobel di colore. Poi avete dato il Nobel a un ebreo... adesso addirittura a un giullare!! Ma che —come dicono i napoletani— pazziamme? Anche nel clero alto ci sono stati momenti di pazzia... proprio i grandi elettori del Papa: vescovi, cardinali, prelati dell’Opus Dei sono andati in escandescenze. Tant’è che costoro hanno richiesto che venga ripristinata la legge che permette di bruciare i giullari sul rogo: una cosa delicata, a fuoco lento. Per contrasto devo dirVi che però ci sono state masse straordinarie di persone che hanno gioito con me in modo incredibile per questa Vostra scelta. E io Vi porto il più festoso dei ringraziamenti da parte di una caterva di guitti, di giullari, di clown, di saltimbanchi, di contastorie.
E a proposito di contastorie non posso dimenticare i fabulatori del mio paese sul Lago Maggiore, dove sono nato e cresciuto e dove c’è una grande tradizione di fabulatori; loro, i vecchi fabulatori, maestri soffiatori di vetro, che hanno insegnato a me e ad altri ragazzi il mestiere, l’arte, di raccontare assurde favole, che noi ascoltavamo commentandole con sghignazzi e silenzi improvvisi a strozzagola per la tragica allegoria che di colpo sormontava ogni sarcasmo. Ancora mi ricordo la favola della Rocca di Caldé. «Tanti anni fa —raccontava il maestro soffiatore— sul dorso scosceso di quel cocuzzolo che si erge dal lago... lassù, stava arroccato un paese di nome Caldé, che giorno dopo giorno franava tutt’in blocco giù verso il fondo del dirupo. Era uno splendido paese con il campanile, con le torri arroccate proprio in cima, con tutte le case una dietro l’altra. È un paese che esisteva e adesso non c’è più: nel 1400 è sparito. ‘Ehi —gli gridavano i contadini e i pescatori di fondovalle— attenti, state franando... sloggiate di lassù!’. Ma i roccaroli non ascoltavano, anzi ridevano, scherzavano, sfottevano: ’Furbi voi, cercate di terrorizzarci per convincerci a scappare, andare via lasciando le case, i nostri terreni per poi fregarveli voi. Non ci caschiamo’. E così continuavano a potare le viti, seminare i campi, sposarsi, fare all’amore. Andavano a messa. Sentivano slittare la roccia sotto le fondamenta delle case... ma non se ne curavano più di tanto: ‘Normali mosse d’assestamento ’ si rassicuravano. La grande scheggia di roccia stava affondando nel lago. ‘Attenti, avete i piedi nell’acqua!’, gridavano dalla costa. ’Macché, è l’acqua di scolo delle fontane, è soltanto un po’ più umido’; e così, piano piano ma inesorabilmente, il paese intiero s’affonda nel lago.
Glu... glu... pluf... affondano... case, uomini, donne, due cavalli, tre asini... iaa... glu... Il prete continuava imperterrito a confessare una suora: ‘Te absolvi... animus ... santi... gluu... Aame... Glu...’. Scompare la torre, va sotto il campanile con le campane: don... din... dop... plok...’ “Ancora oggi —raccontava il vecchio soffiatore di vetro— se ci si affaccia dallo spuntone di roccia rimasto a picco in quel punto del lago, se in quell’istante scoppia un temporale, i lampi riescono ad illuminare il fondo dell’acqua e, incredibile, là sotto si scorge il paese affondato con le case e le strade ancora intatte e, come in un presepe vivente, si scoprono loro, gli abitanti della vecchia Rocca, che si muovono ancora e imperterriti ripetono: ‘Non è successo niente’. I pesci passano loro davanti agli occhi di qua e di là... fin nelle orecchie... ‘Niente paura!... è solo un tipo di pesce che ha imparato a nuotare nell’aria’, commentano. Eccì!’. Salute!’. Grazie... fa un po’ umido oggi... fa più umido di ieri, ma va tutto bene!’ Sono sprofondati... ma per loro non è successo assolutamente nulla.
Non si può negare che una favola del genere sia ancora oggi di sconvolgente attualità. Ripeto, devo molto a quei miei maestri soffiatori di vetro e anche loro, Vi assicuro, oggi sono immensamente grati a Voi, Signori Membri dell’Accademia, per aver premiato un loro allievo. E in modo follemente esplosivo Ve lo manifestano. Infatti al mio paese giurano che la notte in cui si è saputo del Nobel a un loro concittadino fabulatore, si è sentito un tremendo botto! Dal grande forno della vetreria spenta da cinquant’anni, è esplosa una bordata di lava infuocata e una miriade di schegge di vetro fuso colorato s’è proiettata altissima in aria come in un finale di fuochi d’artificio... ed è ricaduta rovente nel lago, sparando gran vapore. Mentre voi applaudite bevo un po’ d’acqua; ne vuoi anche tu? Importante è che mentre beviamo voi parliate tra di voi perché se tentate di sentire il glu glu glu che fa l’acqua che scende ci va tutto di traverso e cominciamo a tossire. Allora parlate: “Oh che bella serata che è questa”. Secondo tempo: pagina nove. Ma adesso sarò veloce, non preoccupatevi.
Sopra tutti, questa sera a Voi si leva il grazie solenne e fragoroso di uno straordinario teatrante della mia terra, poco conosciuto non soltanto da voi e in Francia, Norvegia, Finlandia... ma poco noto anche in Italia. Ma che è senz’altro il più grande autore di teatro che l’Europa abbia avuto nel Rinascimento prima ancora dell’avvento di Shakespeare. Sto parlando di Ruzante Beolco, il mio più grande maestro insieme a Molière: entrambi attori-autori, entrambi sbeffeggiati dai sommi letterati del loro tempo. Disprezzati soprattutto perché portavano in scena il quotidiano, la gioia disperazione della gente comune, l’ipocrisia e la spocchia dei potenti, la costante ingiustizia. E soprattutto avevano un difetto tremendo: raccontavano queste cose facendo ridere. Il riso non piace al potere. Ruzante poi, vero padre dei comici dell’Arte, si costruì una lingua, un lessico del tutto teatrale, composto di idiomi diversi; dialetti della Padania, espressioni latine, spagnole, perfino tedesche, miste a suoni onomatopeici completamente inventati. Da lui, dal Beolco Ruzante ho imparato a liberarmi della scrittura letteraria convenzionale e ad esprimermi con parole da masticare, con suoni inconsueti, ritmiche e respiri diversi, fino agli sproloqui folli del grammelot.
A lui, al Ruzante, permettetemi di dedicare una parte del riconoscimento prestigioso che Voi mi offrite. Qualche giorno fa, un giovane attore di grande talento mi ha detto: “Maestro, tu devi cercare di proiettare la tua energia, il tuo entusiasmo ai giovani. Questa carica che tu hai devi darla a loro. Ai giovani devi dare la conoscenza e la sapienza del tuo mestiere”. Io e Franca (mia moglie) ci siamo guardati e abbiamo detto: “Ha ragione”. Ma quando noi insegneremo un mestiere, daremo una carica effervescente di fantasia, poi a che cosa servirà, dove verrà portata questa fantasia, questa vitalità, questo entusiasmo, questo mestiere? A che scopo e verso cosa far proiettare vitalità e entusiasmo? Negli ultimi mesi mi è capitato con Franca di girare per parecchie Università tenendo stages e organizzando conferenze davanti a platee di giovani. La cosa che più ci ha colpiti e quasi sconvolti, è stato scoprire la loro ignoranza rispetto al tempo in cui stiamo vivendo. Raccontavamo loro del processo che si sta svolgendo in Turchia contro gli esecutori della strage di Sivas. In Anatolia trentasette intellettuali democratici fra i più prestigiosi del paese, riuniti per ricordare un famoso giullare del Medioevo ottomano, venivano bruciati vivi, intrappolati dento un hotel, in piena notte. Ad appiccare il fuoco era stata una banda di fanatici integralisti ben protetta da elementi di governo.
In una notte, trentasette fra i più importanti artisti, scrittori, registi, attori e attrici, famose danzatrici del rito curdo, sono stati all’istante cancellati dalla terra. In un sol colpo quei fanatici avevano distrutto, si può dire, gli uomini più importanti della cultura di quel paese. Ascoltavano questo nostro racconto migliaia di studenti, che ci guardavano attoniti, increduli. Non sapevano nulla di quel massacro. La cosa che mi ha impressionato è che anche i professori presenti a questo mio discorso non ne sapevano niente. Eppure la Turchia è lì, nel Mediterraneo, quasi di fronte a noi, insiste per essere ammessa nella Comunità Economica Europea... ma loro del massacro nulla sapevano. Giustamente un grande democratico del nostro Paese diceva: «L’ignoranza diffusa dei fatti è il maggior supporto all’ingiustizia». Ma questa assenza distratta dei giovani viene da chi li educa e li dovrebbe informare, e costoro sono invece i primi assenti e disinformati, parlo dei maestri e dei responsabili della scuola. I giovani, in gran parte, soccombono al bombardamento di banalità e oscenità gratuite che ogni giorno i mass media propinano loro: telefilm truculenti dove in dieci minuti avvengono tre stupri, due assassini... un pestaggio e uno scontro di dieci auto su un ponte che crolla e tutti, macchine, autisti e passeggeri, precipitano nel mare... solo uno si salva, però non sa nuotare e annega fra le risate dei curiosi accorsi in massa.
In un’altra Università abbiamo denunciato il progetto, ormai in via di realizzazione, della manipolazione genetica... cioè di brevettare organismi viventi, proposto dal Parlamento Europeo... abbiamo sentito un gran gelo salire dalla platea. Io e Franca spiegavamo come i nostri eurocrati, stimolati dalle strapotenti e onnipresenti multinazionali, stanno preparando un piano degno di un film di fantascienza-trucida dal titolo «Il fratello porco di Frankenstein». Vogliono cioè approvare una direttiva che (attenti alla trovata) autorizzi le industrie a brevettare esseri viventi, o loro parti, create con quella tecnica da apprendista stregone che è la manipolazione genetica. Le cose andrebbero così: uno scienziato riesce, andando a mettere le mani nel corredo genetico di un maiale, a renderlo più simile all’uomo, col risultato, stravolgente, che grazie a questo arrangiamento sarà più facile staccargli il fegato, o un rene... a scelta, per trapiantarlo in un uomo. Ma per essere più sicuri che gli organi trapiantati attecchiscano, bisognerà inserire nell’uomo delle particelle del maiale che ne condizionino e modifichino la struttura; avremo così, finalmente, un uomo-maiale (voi direte che ne abbiamo già tanti) o un maiale-uomo e ogni parte di questo nuovo essere si potrà brevettare, imporgli il copyright; e chi vorrà un pezzo di questo porco umanizzato dovrà pagare i diritti d’autore all’industria che lo avrà «inventato».
Malattie conseguenti, deformazioni mostruose, morbi trasmettibili in massa... tutti sono optional inclusi nel prezzo. Il Papa è rimasto indignato da questa operazione, da questa mostruosità genetica da bassa stregoneria, e l’ha chiamata un obbrobrio contro l’umanità, contro la dignità dell’uomo, l’ha insultata ricordando che la morale in questo caso è spenta ed è ridotta a livello sotto-animale. La cosa incredibile è che nello stesso tempo c’è un americano, uno stregone straordinario, voi l’avete letto sul giornale sicuramente: è quello che taglia la testa a un babbuino e poi mozza la testa a un altro babbuino, prende la prima testa e la seconda testa e le scambia. Il babbuino rimane un po’ male. In verità rimangono sempre paralizzati, tanto l’uno che l’altro, poi muoiono ma l’esperimento è riuscito che è una meraviglia. La cosa incredibile è che questo personaggio che si chiama White, professor White, sembra proprio Frankenstein. Questo White è membro dell’Accademia delle Scienze del Vaticano. Bisognerebbe avvertire il Papa. Ecco, noi raccontavamo queste farse criminali ai ragazzi, agli studenti e loro ridevano come dei matti: dicevano di me e di Franca: «Ma come sono simpatici, si inventano delle storie incredibili»; non avevano assolutamente, neanche per l’anticamera del cervello, l’idea che quello che raccontavamo fosse vero. Allora sempre di più siamo convinti, come incitava Savinio, un grande poeta italiano: «Raccontate, uomini, la vostra storia». Il nostro dovere di intellettuali, di gente che monta in cattedra o sul palcoscenico, che parla soprattutto con i giovani è quello non soltanto di insegnare come si muovono le braccia, come si respira per recitare, come si usa lo stomaco, la voce, il falsetto. Non basta insegnare uno stile: bisogna informarli di quello che succede intorno. Loro devono raccontare la loro storia. Un teatro, una letteratura, una espressione d’arte che non parli del proprio tempo è inesistente.
Io sono andato ultimamente a un grande congresso con tantissima gente e cercavo di spiegare a loro e soprattutto ai giovani un processo che si è svolto in Italia, un processo che si è sviluppato in sette processi; alla fine di questi processi, tre politici di sinistra sono stati condannati a 21 anni di carcere, accusati di aver trucidato un commissario di polizia. Io ho studiato le carte del processo come avevo fatto con «Morte accidentale di un anarchico». Ebbene, raccontavo i fatti di questo processo assurdo, addirittura farsesco nel modo in cui è stato condotto, e a un certo punto ho capito che parlavo nel vuoto perché la gente non era al corrente degli antefatti, non conosceva cosa era successo cinque anni prima, dieci anni prima: le violenze, il terrorismo, niente sapeva, non sapeva delle stragi di stato avvenute in Italia, né dei treni che sono saltati in aria, né delle bombe nelle piazze, né dei processi che sono stati portati avanti come farse. Il guaio terribile è che per raccontare la storia di oggi devo cominciare a raccontare la storia da trent’anni fa a venire avanti, non mi basta raccontare di adesso; e state attenti, questo succede dappertutto, in tutta l’Europa. Io ho provato in Spagna ed era lo stesso discorso, ho provato in Francia, ho provato in Germania, devo ancora provare qui da voi in Svezia, ma verrò a provare.
E per finire permettete che io dedichi una buona metà della medaglia che mi offrite, a Franca. Franca Rame, la mia compagna di vita e d’arte che Voi, Membri dell’Accademia, ricordate nella motivazione del premio come attrice e autrice, che con me ha scritto più di un testo del nostro teatro. Franca proprio in questo momento sta recitando in Italia ma dopodomani sarà qui: arriva a mezzogiorno, se volete venire andiamo tutti insieme a prenderla all’aeroporto. Franca è molto spiritosa, ve lo assicuro. A dei giornalisti che le chiedevano: «Ma scusi, lei come si sente adesso ad essere la moglie di un Nobel? Con un monumento in casa?» rispondeva: «Non sono preoccupata, non mi sento a disagio perché mi sono sempre allenata. Tutte le mattine faccio flessioni: mi piego in due appoggiando le mani a terra, così mi sono abituata a diventare piedestallo al monumento. Ci riesco benissimo». Vi avevo detto che è molto spiritosa... e a volte addirittura autolesionista nella sua ironia. Ma davvero senza di lei per una vita al mio fianco personalmente non ce l’avrei mai fatta a meritare questo premio. Insieme abbiamo montato e recitato migliaia di spettacoli in teatri, fabbriche occupate, università in lotta... perfino in chiese sconsacrate, in carceri, in piazza col sole e la pioggia, sempre insieme. Abbiamo sopportato vessazioni, cariche della polizia, insulti dei benpensanti e le violenze.
E soprattutto è lei, Franca, che ha subito la più atroce delle aggressioni. Lei, più di tutti, sulla sua pelle, ha pagato per la solidarietà che davamo agli umili e ai battuti. Il giorno in cui mi è stato designato il Nobel mi trovavo davanti al teatro in corso di Porta Romana, a Milano, dove Franca stava recitando, con Giorgio Albertazzi, «Il diavolo con le zinne». All’istante è arrivata una turba di fotoreporter, cronisti, operatori con le loro telecamere. Un tram che transitava in quel momento s’è fermato, il conduttore s’è sporto a salutarmi, sono scesi tutti i passeggeri, mi applaudivano, mi volevano stringere la mano per felicitarsi ma poi si sono bloccati e tutti in coro hanno gridato: «E Franca dov’è?» e hanno chiamato a gran voce «Francaaa!» e lei dopo un po’ è apparsa... frastornata... commossa alle lacrime, ed è venuta ad abbracciarmi. All’improvviso, come dal nulla, è apparsa una banda musicale di soli fiati con tamburi, erano tutti ragazzi, che accorrevano da punti diversi della città, musici che suonavano insieme per la prima volta, hanno intonato «Porta Romana bella, Porta Romana» a ritmo di samba. Non ho mai sentito stonare a quel modo ma era la più bella musica che Franca e io avessimo mai ascoltato. Credetemi, questo premio l’avete proprio dato a tutti e due. Grazie.
Intervista fatta da Fanpage per i 90 anni.
Le parole di Carlo Petrini, davanti al Duomo di Milano. 15.10.2016.
Dario ha voluto curare questa ultima regia e io per amicizia e per affetto mi trovo a fare questa difficile parte.
Con tutto il rispetto del luogo, sono vittima di un bello “scherzo da prete”!
E chiedo a voi benevolenza e comprensione se mi limiterò a ricordare a tutti due episodi tra i più significativi e importanti della mia lunga amicizia con Dario: uno pubblico e uno privato.
Prima di tutto però lasciatemi dire una cosa: in questi giorni molte persone oneste e sincere hanno tenuto a sottolineare la differenza tra l'artista, il genio straordinario, l'attore meraviglioso, e la politica, quasi come se le due cose fossero scindibili. Ecco, io voglio dire, con tutto il rispetto, che penso che questo sia impossibile e che non sia giusto.
E ben lo sapevano quei sovversivi dell'Accademia svedese che motivarono il suo Nobel con una sintesi perfetta: “Seguendo la tradizione dei giullari medioevali dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi…” Dileggia il potere e restituisce la dignità agli oppressi!
Sono accademici, sono svedesi e fanno questa affermazione quando l'anno successivo, nel riconoscere lo stesso premio a Josè Saramago, motivarono il suo Nobel per la sua straordinaria immaginazione e poi nel 2006 a Orhan Pamuk per la nostalgia della sua città natale.
Per Dario la motivazione fu: “dileggia i potenti per restituire dignità agli oppressi”.
La sintesi è che questo premio, nella sua valenza artistica, era impregnato di grande politicità… e noi dobbiamo riaffermarla con forza, questa simbiosi stretta, strettissima tra la sua arte e il suo impegno politico, sempre guidato da un gran senso civico! Con grande onestà, senza ricavarne benefici, sempre al fianco dei più umili. Pensare a Dario senza la politica è come se dalle mie parti dovessimo pensare a un buon vino fatto senza l'uva. E oggi voglio partire da questa politicità nel ricordo di quella che per me è stata un'esperienza straordinaria che voglio condividere con voi.
Nell'ottobre del 2012, davanti a 7000 delegati di Terra Madre (contadini, pescatori, nomadi, artigiani del cibo) difensori della biodiversità del pianeta, provenienti da 140 paesi del mondo, Dario volle rappresentare La fame dello Zanni.
Quando salì davanti a quell'immenso pubblico, dopo aver sentito come questa parte dell'umanità è chiamata a soffrire a causa di un'economia finanziaria canaglia che distrugge la loro dignità e il loro lavoro, Dario ricordò che nel '500 lo Zanni Padano, il Johan, il Giovanni, era anche lui vittima, vittima di questo sopruso. Perché già allora si accumulavano derrate alimentari per poi metterle nel mercato e distruggere i prezzi, distruggere la vita dei contadini… e questo accadeva già nel '500 e Dario lo ricordò davanti a quella straordinaria umanità.
Aveva davanti 7000 Zanni, 7000 ne aveva, parlavano lingue diverse, la maggior parte non conosceva Dario Fo: come potevano conoscere Dario Fo gli Indios Yanomami dell'Amazzonia, i pastori Masai del Kenya, i contadini del Burkina Faso, i pescatori della Tailandia? No, non lo conoscevano … E ad un certo punto, in un momento estremamente intenso, si dovettero fermare tutte le traduzioni - dieci traduzioni in lingua che davano a tutti l'opportunità di capire quello che si andava dicendo - perché Dario incominciò il suo gramelot, dichiarando che non era quello originale ma era frutto della sua fantasia.
E descrisse la fame dello Zanni che prima prende parte del suo corpo e se lo mangia dalla fame, poi s'immagina in una immaginifica cucina dove c'è di tutto, ogni ben di Dio, e prepara un pasto straordinario.
Nei primi due o tre minuti quei volti guardavano questo ottuagenario che si esprimeva col corpo, poi incominciarono a intuire che tirava il collo a una gallina, incominciarono a intuire che tagliava a fette il salame, videro che accendeva il fuoco della caldaia, videro che tutti questi pezzi entravano dentro, capirono che c'era il sale, il pepe, il mestolo che girava, e lui girava il mestolo per preparare questo pranzo e incominciarono a entrare in sintonia senza capire niente di quel gramelot. Ma era la rappresentazione visiva di un messaggio, il messaggio di quello che è la vergogna di sempre di questo mondo, il messaggio che ci mostra che dobbiamo convivere ancora in un mondo dove milioni di persone soffrono la malnutrizione e la fame, e questa parte di mondo non merita questa logica di un'economia finanziaria canaglia.
Quando lo Zanni poi prende questo calderone e mangia a quattro palmenti, sazio, come per incanto si accorge che era tutta fantasia, che non c'era niente, che non c'era niente da mangiare e urla disperato, però a un certo punto una mosca incomincia a girare, incomincia a voltargli attorno e lui la prende e questa mosca diventa il suo pasto, quelle alette, quelle gambe che ricordano i prosciutti e poi la mangia, la divora e chiude, chiude urlando davanti a tutti: “Che magnata! Che magnata!”.
E a quel punto i 7000 contadini e pescatori fecero un applauso straordinario perché avevano avuto quello che è l'elemento distintivo della tradizione contadina, avevano avuto l'oralità, quell'oralità che i nostri contadini provavano nelle stalle sentendo la storia di Bertoldo, quell'oralità che i contadini francesi avevano ripetendo Gargantua e Pantagruel e la sentirono loro, la sentirono in modo uniforme. C'era quell'oralità che nei villaggi indiani gli anziani esprimono raccontando le loro storie. E Dario ne ha fatto la sintesi e in quella sintesi sta il suo vero premio Nobel, ha parlato agli umili e gli umili della terra lo hanno capito.
Guardate, penso che la sua regia prevedeva anche questa pioggia perché solo dei coraggiosi stanno qui per rendergli omaggio sotto alla pioggia.
L'ultimo ricordo è un ricordo di appena cinque giorni fa quando, nel suo letto di ospedale, ci ha intrattenuti per un'ora e mezza a descrivere le visioni che aveva. Mi diceva: “Sai, non lo governo io! Questo copione non l'ho fatto io, lo sto interpretando, e vedo queste figure… Perché? Perché sono drogato, perché le medicine che mi danno per non soffrire mi drogano e questa droga mi rende impotente!”.
Le sapeva descrivere e assieme alle figure sentiva delle voci e ci disse che quelle erano le voci che nella drammaturgia shakespeariana e del Ruzzante sono le voci dei pazzi, dei matti che sono fuori di noi ma che diventano parte di noi. Un'ora e mezza, cinque giorni fa, ecco che a quel punto cita il pazzo che davanti alla croce parla col Cristo, cita il pazzo Becchino che parla con l'Amleto, il pazzo, il matto che parla col Re Lear.
Quando sono uscito, impressionato da questa manifestazione, sono andato a vedere cosa diceva il pazzo al Re Lear. Il pazzo al Re Lear diceva: “Troppo in fretta sei invecchiato, non hai fatto in tempo a diventare saggio”.
Lo scriveva Shakespeare e un secolo prima il Ruzzante, grande maestro di Dante, scriveva di se stesso: “Troppo in fretta mi sono invecchiato, non ho fatto in tempo a liberarmi della leggera imbecillità della giovinezza”.
Ma che bel finale Dario, sei arrivato a novant'anni e ci hai consegnato la bellezza della tua intelligenza e della tua giovinezza! Per questo ha ragione Jacopo: è stato un gran finale! Perché all'età di novant'anni… come si dice dalle mie parti: tanti di noi farebbero la firma per essere protagonisti di un finale del genere ed è per questo che noi oggi dobbiamo celebrare, sotto la pioggia, la gioia, l'allegria, consci che celebriamo una vita spesa nella generosità e nella solidarietà e non la celebriamo solo per Dario, la celebriamo anche per Franca!
Un giorno nel vederla sempre così attiva, trafelata la definii con una parola piemontese e dissi: “Franca tu sei sfaraggiata” perché lo sfaraggiamento è una dimensione… come dire.... e lei a sentire questa parola si ribellava. Diceva: “Sfaraggiata a me!? Io sono l'unica in questa famiglia… mi devo accudire due matti in casa, c'ho un monumento e io di quel monumento sono il basamento, io lo reggo con la mia schiena, con la mia testa quel basamento.”
Il monumento non sta in piedi senza il basamento e oggi noi dobbiamo essere felici, felici perché dopo tre anni quel monumento ritrova e si ricongiunge con il suo basamento e dobbiamo essere felici, dobbiamo essere felici di averli conosciuti, dobbiamo essere felici di averli amati, dobbiamo raccontare ai nostri figli e ai nostri genitori che abbiamo conosciuto queste persone, che ci hanno insegnato che per quei quattro giorni che abbiamo da vivere è meglio essere generosi che avari, è meglio darsi da fare che essere accidiosi, è meglio essere gioiosi che magonosi.
E' questa la giornata che celebriamo, e che piova ancora di più, tanto a noi non ce ne frega niente! Perché in questo sabato noi stapperemo le bottiglie e in questo mezzogiorno, tornando nelle nostre case mangeremo e berremo e canteremo, e se possiamo balliamo, e se possiamo facciamo l'amore, esprimiamo tutta la nostra allegria.
Ritroviamo la gioia, la gioia straordinaria di chiamarci compagni e compagne, non solo perché dividiamo il pane ma perché condividiamo la gioia, condividiamo la fraternità e questo nostro amore reciproco che non lascia spazio a cattiverie di alcun genere.
Noi siamo e vogliamo essere questi e celebriamo il più grande tra di noi, il più grande che aveva la capacità di dileggiare i potenti con uno sberleffo.
Oggi allegri bisogna stare che il troppo piangere non fa per noi, allegri bisogna stare perché il troppo piangere non rende onore ai nostri amici, allegri bisogna stare perché celebriamo la vita, il grande mistero della vita e della morte, l'unico grande Mistero Buffo della nostra precaria esistenza.