Genar 2022. Homo sapiens.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il primo "mestée del mes" del 2022 è dedicato a un testo di Silvana Condemi e Francois Savatier "Noi siamo Sapiens" (ed.Bollati Boringhieri), di fondamentale interesse generale, ma soprattutto per chi volesse approcciarsi alla conoscenza delle nostre origini e del conseguente percorso evolutivo.
Dal testo ho estratto due capitoli, che come al solito, mia volontà espressa in questi 10 anni di redazione del sito, vorrebbero accenderti la curiosità e stimolarti all'approfondimento del tema.

 

 

 

 

 

 

 

 

Prefazione dell'editore.
Poche discipline avanzano tanto rapidamente quanto la paleoantropologia. ln pochi anni gli scienziati hanno stravolto la visione tradizionale della nostra evoluzione (che spesso troviamo ancora nei libri di testo delle scuole). Il continuo ritrovamento di nuovi fossili e, più in generale, di interi siti archeologici, e l'utilizzo sempre più comune di nuove e avanzate tecniche di studio del DNA, hanno permesso di riscrivere radicalmente la storia della nostra specie, rendendola molto meno lineare di quanto si credesse un tempo, ma anche molto più affascinante, realistica e sorprendente. Lo studio dell'evoluzione di Homo sapiens non è mai stato tanto avvincente e ricco di colpi di scena come ai giorni nostri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La nostra grande testa ci ha (quasi) ucciso.

 

La cultura ha modificato la nostra biologia, che si è evoluta per consentire... ancora più cultura. Questo fenomeno si osserva prima di tutto nella nostra fisiologia, che promuove l'immagazzinamento dei grassi per far funzionare correttamente il nostro grosso cervello. Lo si vede anche nella nostra riproduzione, che con l 'aumento delle dimensioni del cervello e stata spinta oltre i limiti ostetrici dei primati. Poiché il tempo necessario ai bambini per raggiungere la maturità è aumentato, la crescita e
l'apprendimento dei bambini banno cominciato a richiedere sempre più cooperazione, diventando attività sociali collaborative.
In questa lunga storia, è importante prendere coscienza di un elemento chiave dell'ominizzazione: la cultura ha modificato profondamente la nostra biologia di primati.
Le pressioni selettive all'origine del bipedalismo permanente, e poi dell'ominizzazione, sono state così potenti che hanno rimodellato il nostro scheletro, la nostra testa, il nostro apparato digerente e addirittura le nostre capacità cognitive. Per prima cosa, concentriamoci sulle profonde modifiche fisiologiche, funzionali e comportamentali causate dallo sviluppo estremo del nostro cervello.
La nostra evoluzione ha spinto lo sviluppo della nostra scatola cranica al suo limite biologico, e poi persino al di là di ciò che parrebbe fisiologicamente possibile, sia per quanto riguarda il corpo femminile che il metabolismo. Sappiamo tutti che il parto è in generale doloroso e spesso pericoloso per la donna del Sapiens. Il travaglio dura in media 9,5 ore, ossia cinque volte tanto che nelle femmine di gorilla, scimpanzé e orango. La spiegazione è semplice: il voluminoso cervello umano presuppone una testa grande, che come quella dei nostri neonati fatica a passare attraverso il canale pelvico. Il risultato è stata una selezione di linee evolutive umane in cui le ossa craniche dei bebè non sono ancora saldate prima del parto, così che una certa deformazione della testa ne agevoli il passaggio. Una volta iniziato il travaglio, la testa del neonato del Sapiens, un po' troppo grande, deve effettuare una rotazione prima di poter scendere nel canale pelvico.
Questo però non è sufficiente: non ci sarebbe alcuna nascita se lo sviluppo non venisse rallentato in utero, perché se i nostri neonati nascessero allo stesso stadio di sviluppo dei loro cugini scimpanzé, la loro testa sarebbe troppo grande per passare. Invece nascono con un cranio e un cervello ancora incompiuti, quasi assurdamente immaturi in confronto a quelli delle altre specie di primati (figura 8).

 

 

 

 

Una volta che il bebè è nato, le dimensioni del cervello continuano ad aumentare nei primi sette anni, quando il piccolo umano non è più isolato dentro l'utero, bensì circondato dai suoi simili. In questo modo, il cervello finisce di svilupparsi quando il bambino subisce già l'influenza della vita sociale. Per completare lo sviluppo cerebrale, l'umanità sostituisce il "bagno" uterino con un bagno sociale. Questa particolarità spiega in parte l'impressionante sviluppo delle nostre capacità cognitive, che prosegue fino a che il nostro cervello arriva a contenere ben 86 miliardi di neuroni, in confronto agli appena 6 miliardi dei nostri cugini scimpanzé. La vera macchina pensante, la neocorteccia (ossia lo strato cerebrale esterno), rappresenta negli umani il 33 per cento del volume cerebrale totale, contro il 17 per cento degli scimpanzé. Quando un bambino ha un anno di età, le dimensioni del suo cervello sono due terzi di quelle di un cervello adulto. Il cervello raggiunge le sue dimensioni finali tra 1 e 7 anni di età, ma la regione del cervello chiamata corteccia prefrontale, responsabile della memorizzazione temporanea delle informazioni, continua a maturare anche dopo. Questo processo è quasi completo nell'adolescenza, ma continua ulteriormente con l'acquisizione di nuovi apprendimenti. Allo stesso tempo, una volta raggiunte le dimensioni finali, il cervello matura ancora, "potando" i neuroni: vale a dire eliminando le connessioni neurali che non vengono attivate regolarmente da stimoli esterni. Infine, il nostro cervello è sottoposto per tutta la vita a un costante rimodellamento e può riconfigurarsi improvvisamente a qualsiasi età in funzione delle esperienze vissute.


Una riproduzione migliorata dalla longevità...
Dalla notte dei tempi, il costo del nostro grosso cervello si traduce nella perdita di vite di donne e neonati, ma questo non ci ha impedito di avere la crescita demografica più forte di tutti gli animali: siamo quasi sette miliardi e mezzo di individui. Come spiegare questo paradosso? Il lento sviluppo del cervello umano è pienamente possibile solo se i genitori vivono a lungo. Pertanto, gli esseri umani praticano quella che gli ecologisti chiamano una strategia di selezione K, il che significa che abbiamo pochi figli, una gestazione lunga, cure parentali a lungo termine e un lungo periodo prima di raggiungere la maturità sessuale. Le specie che seguono la strategia opposta, chiamata hanno molti figli, brevi periodi di gestazione, meno cure parentali e raggiungono rapidamente la maturità sessuale. A differenza delle specie r-strateghe, come alcuni pesci che depongono 500.000 uova, molte delle quali vengono mangiate dai predatori, la strategia riproduttiva umana consiste in un basso numero di nascite associato a un forte investimento parentale. E per questo che, da milioni di anni, la cultura umana ha un ruolo cruciale nell'allevare i bambini, processo che è stato progressivamente completato da sempre più educazione. La nostra riproduzione è, insomma, cooperativa: i bambini possono essere seguiti in certi momenti da altre donne, dai fratelli e le sorelle maggiori (beneficiando così dell'educazione già acquisita da loro), dagli uomini e soprattutto (se c'è) dalla nonna. A questo proposito, gli studi di Rachel Caspari della Central Michigan University e di Sang-Hee Lee dell'Università della California, a Riverside, suggeriscono che gli individui anziani siano diventati frequenti nei gruppi umani solo dopo l'inizio del Paleolitico superiore (tra i 40.000 e i 10.000 anni a.e.c.), ma che il loro contributo all'allevamento e all'educazione dei bambini e la loro esperienza abbiano avuto un ruolo fondamentale nell'evoluzione demografica degli esseri umani. L'aumento della longevità della nostra specie significa che gli individui più anziani hanno iniziato a svolgere un ruolo più importante per la crescita e per lo sviluppo dei bambini, educandoli sulla base delle proprie esperienze e contribuendo così su larga scala all'apprendimento e all'evoluzione della cultura umana. Con il loro ricco bagaglio di conoscenze utili alla sopravvivenza dei neonati, le nonne si dedicano da tanto, tantissimo tempo ad allevare i nipotini. Questo investimento sarebbe stato talmente efficace in termini di sopravvivenza dei neonati, da far selezionare le linee evolutive in cui le donne smettono di essere fertili molto tempo prima di morire, il che spiega in buona parte il fenomeno tipicamente umano della lunga menopausa (in generale, le femmine di scimmia muoiono abbastanza presto dopo essere entrate in menopausa).


 ... e dal grasso.
Poi sono state selezionate le linee con le donne grasse (e gli uomini più grassi). Nel 2010, il team di ricerca del primatologo Richard Wrangham dell'Università di Harvard ha mostrato che l'essere umano stanziale è più grasso di tutti gli altri primati, anche quando questi se ne stanno seduti allo zoo per tutto il giorno. Secondo i ricercatori, questo tratto umano che oggi tanto disdegniamo si spiega con il fatto che, grazie al loro talento nell'immagazzinare energia in numerose parti del corpo, le donne -che in età riproduttiva hanno il 25 per cento di adipe in più rispetto agli uomini- sono in grado di avere una gravidanza dietro l'altra e di fare più figli delle femmine di scimmia, anche se la riproduzione ha inizio più tardi e l'accudimento dei figli dura più a lungo. Ancora una volta, il nostro grande cervello spiega l'immagazzinamento di tutto quel grasso che garantisce, anche in caso di carestia o di periodi duri, non solo che il feto riuscirà a formarsi, ma anche che la macchina pensante della donna incinta o in allattamento continuerà a funzionare bene, accrescendo in tal modo le possibilità di sopravvivenza della madre e del suo neonato. Quando le condizioni di vita sono buone, un bebè umano è già cicciottello alla nascita, cosa che troviamo istintivamente tenera e di cui ci rallegriamo. Il cervello umano è estremamente sensibile agli sbalzi di temperatura e ha infatti bisogno di una considerevole quantità di energia. Anche a riposo, farlo funzionare mantenendo attive le funzioni di base "vitali" (respirazione, termoregolazione, mantenimento e "restauro" del corpo) e gli organi vitali (cuore, polmoni, reni, fegato, ecc.) richiede un minimo d'energia. Questo minimo essenziale -che chiamiamo metabolismo basale- dipende dalla statura degli individui, dalla loro età, dal sesso e dalle condizioni climatiche. I bambini hanno un metabolismo basale molto più alto degli adulti, soprattutto durante la maturazione del cervello, tra gli 0 e i 7 anni. Sebbene rappresenti il 2-3 per cento del nostro peso corporeo, il cervello dell'adulto consuma da solo dal 15 al 20 per cento del nostro metabolismo basale.
Naturalmente, quando il cervello lavora il suo fabbisogno cresce ulteriormente. Nel 2016, il gruppo di ricerca di Herman Pontzer della City University di New York ha messo a confronto il dispendio energetico degli esseri umani con quello delle scimmie antropoidi. I ricercatori hanno constatato che un essere umano consuma ogni giorno mediamente 400 calorie più di uno scimpanzé o di un bonobo, 635 calorie più di un gorilla e 820 più di un orango: un ipermetabolismo che si spiega con i bisogni energetici del nostro voluminoso cervello.


Le prime carni bio.
Tutti i paleontologi concordano nel dire che l'introduzione delle proteine animali nel regime alimentare umano e poi l'aumento del consumo di carne hanno avuto un ruolo cruciale nell'evoluzione dell'enorme macchina pensante che è il nostro cervello. Da sola, la carne fornisce energia sotto forma di proteine e grasso, più tutti i minerali e quasi tutte le vitamine di cui il corpo umano ha bisogno.
I reperti archeologici indicano che nel corso del tempo i cacciatori-raccoglitori hanno cercato di procurarsi quanta più carne energetica possibile, vale a dire carne grassa. Malgrado gli enormi rischi, si sono ostinati ad abbattere animali grassi e imponenti, come mammut, bovidi grandi e piccoli, rinoceronti, foche, balene, ecc. E quando hanno cominciato a addomesticare gli animali da carne, si sono concentrati innanzitutto sugli animali grassi come i suini (maiali), i bovini (vacche), gli ovini (montoni, capre), prima di interessarsi agli uccelli, ai cavalli, ecc. Allo stesso modo, le prime piante domesticate erano particolarmente energetiche (cereali, lenticchie, ceci e fagioli).
In un articolo del 1995, Leslie Aiello e Peter Wheeler hanno presentato una teoria, conosciuta come "The expensive tissue hypothesis", che afferma che l'evoluzione di Homo ha riorganizzato il metabolismo in modo da deviare verso il cervello una parte del dispendio energetico degli altri organi, in particolare del sistema digestivo.
L'intestino crasso delle scimmie è adatto alla digestione di grandi quantità di foglie e frutti maturi, cibo relativamente povero di sostanze nutritive. Le dimensioni dell'intestino di Homo ergaster (1,9 Ma), che aveva accesso a una maggiore gamma di risorse (compresi pesci di lago e crostacei), si erano già ridotte rispetto a quelle dell'intestino di Homo habilís e degli australopitechi. Man mano che gli esseri umani sono diventati più carnivori, la lunghezza dell'intestino ha continuato a diminuire.
Visto che abbiamo citato la caccia ai mammut, sottolineiamo che il dispendio energetico dei nostri muscoli è rimasto comunque importante, pur essendosi ridotto rispetto a quello delle grandi scimmie: passando dal 20 per cento del metabolismo basale nell'uomo, al 40 per cento di quello dei gorilla. Dunque a partire dall'H. ergaster (1,9 Ma) il cervello è cresciuto a scapito della potenza muscolare, che si è ridotta, e dell'intestino, che si è accorciato (figura 9).

 

 

 

 

Padroneggiare il fuoco.
L'apporto tecnico della cultura ha avuto un ruolo fondamentale in questa evoluzione, non solo perché ha permesso di procurare alimenti energetici, ma anche perché ha consentito di trarne maggiore energia, soprattutto dopo la domesticazione del fuoco. Rendendoli più facili da masticare, la cottura favorisce la detossificazione degli alimenti, li rende più digeribili e aumenta il loro valore calorico. Gli studi mostrano, ad esempio, che il 35 per cento dell'amido cotto può essere digerito, rispetto al 12 per cento di quello crudo, così come viene assimilato il 78 per cento delle proteine cotte contro il 45 per cento di quelle crude. Grazie alla cottura, il nostro sistema digestivo consuma appena il 10 per cento del nostro metabolismo basale; la cottura ha inoltre permesso la riduzione dell'apparato masticatorio nel corso dell'evoluzione umana.
A quando risale la domesticazione del fuoco? Nel Vicino Oriente, i focolari più antichi sono stati trovati da Naama Goren-Inbar, dell'Università ebraica di Gerusalemme, nel sito di Gesher Benot Ya'aqov in Israele, e risalgono a circa 790.000 anni fa. In Europa, le più antiche tracce di focolari sono un po' più recenti: quelle di Prezletice, nella Repubblica Ceca, hanno circa 700.000 anni; quelle di Menez Dregan, in Bretagna, ne hanno circa
450.000 così come quelle di Vértesszöllös, in Ungheria. In Cina, a Zhoukoudian, ci sono i resti di un focolare di 420.000 anni fa. Di conseguenza, in Europa H. heidelbergensis -l'antenato comune a H. neanderthalensis e H. sapiens- 600.000 anni fa padroneggiava già il fuoco ed è forse proprio dall'Europa che la pratica si è poi diffusa in Asia.
E in Africa? Il caso della grotta di Swartkrans (Sudafrica), dove più di 270 ossa bruciate suggeriscono la cottura di carne e senza dubbio anche quella di radici e tuberi, ci dice che l'uso del fuoco è molto più antico e risale ad almeno 1 ,5 milioni di anni fa. Anche nel sito di Chesowanja, in Kenya, esistono tracce importanti di un fuoco di 1,4 Ma, benché la sua domesticazione in un'epoca così lontana non sia certa. Potrebbe infatti trattarsi di un caso di utilizzo di fuoco "naturale". Il dibattito prosegue, ma nel suo libro "L'intelligenza del fuoco", Richard Wrangham sostiene che il fuoco sarebbe effettivamente legato al rapido sviluppo del cervello tra 1,6 e 1,8 Ma in H. ergaster in Africa e in H. erectus in Asia, poiché il fuoco avrebbe rappresentato un vantaggio per gli esseri umani che consumavano quante più proteine animali potevano. La padronanza del fuoco è stata vantaggiosa anche per l'uso di strumenti. Lo si può vedere in almeno due siti attribuiti a Homo heidelbergensis in Germania: a Lehringen (500.000 anni fa) e a Schönigen (400.000 anni fa), dove le punte delle lance di legno sono state bruciate per aumentarne la durezza. Inoltre, il fuoco è stato importante anche per lo sviluppo della vita sociale, poiché i gruppi umani hanno iniziato a riunirsi attorno ai falò per prolungare così il giorno e condividere le esperienze.

 

 

 

 

Cosa ci ha dato il bipedalismo permanente.


Il bipedalismo ci ha lasciato libere le mani, svincolandole dalla locomozione. La loro evoluzione è stata poi influenzata dalla cultura, in particolare dalla fabbricazione di strumenti, che le ha rese vere e proprie macchine utensili programmabili, le cui prodezze sono spettacolari; migliaia di sensori e una parte enorme del cervello servono a guidarle. Il bipedalismo però ha anche causato un riassetto complessivo del corpo, tanto da consentirci di correre; e correre ci ha fatto perdere il pelo...
Con l'acquisizione del bipedalismo e l'evoluzione verso uno sfruttamento del territorio sempre più diversificato ed esteso, la cultura e la biologia hanno iniziato a coevolversi influenzandosi a vicenda. Questa coevoluzione è quanto mai visibile nell'evoluzione della "cultura materiale", ossia nelle tracce archeologiche della cultura, a partire dagli strumenti in pietra. Qui, l'evoluzione verso una maggiore complessità cognitiva, compresa quella della mano e del cervello che la controlla verso una maggiore abilità e versatilità tecnica, sono particolarmente evidenti.
A tale proposito, è bene ricordare che si tratta di una teoria datata, poiché prima della scoperta di utensili presumibilmente attribuibili agli australopitechi (a Lomekwi), vedevamo nella fabbricazione di strumenti "ciò che è dell'uomo e di lui solo": si riteneva cioè che l'ominizzazione fosse stata introdotta proprio dalla fabbricazione di strumenti. Secondo questa teoria, detta dell'Homo faber, ossia dell'"uomo artigiano", alla fabbricazione di strumenti si attribuisce un'unicità senza pari, che avrebbe distinto gli esseri umani dagli altri ominidi. La mano umana, quella di H. habilis nello specifico, avrebbe fabbricato -2,6 milioni di anni fa nel sito di Gona in Etiopia- degli strumenti litici e ciò a sua volta avrebbe provocato il progressivo sviluppo del grande cervello necessario a produrre e perfezionare nuovi strumenti a seconda dei diversi usi...
Oggi è chiaro che si trattava di un'idea esagerata, dato che il primo artigiano probabilmente non fu un essere umano, ma un australopiteco. Ancora una volta l'evoluzione, sia delle specie sia dei tratti culturali, mostra una struttura a cespuglio. A un certo stadio evolutivo, l'evoluzione ha prodotto tutta una serie di forme, e poi una di queste ha eliminato progressivamente le altre, forse perché era più efficace o per qualche altro motivo. Detto questo, è evidente che la fabbricazione e l'impiego di strumenti ha esercitato una pressione considerevole sulla nostra biologia, in particolare su quella della mano, e sulle nostre capacità cognitive, cioè sulla parte del cervello che dirige la mano. Vediamo come.


La mano, una vera e propria macchina utensile programmabile.
L'evoluzione delle industrie litiche rispecchia quella della mano. La nostra estremità così particolare è uno dei risultati distintivi dell'ominizzazione, talmente si differenzia da quella degli altri ominidi. L'evoluzione l'ha rimpicciolita, come risulta chiaramente dal pollice, a cui manca la falange media, ma anche le altre dita sono corte in confronto a quelle degli scimpanzé. La nostra mano è costituita da ventinove ossa, altrettante articolazioni, ben trentacinque muscoli, da un vasto reticolo di nervi e di arterie e soprattutto da più di cento tendini. Le falangi non sono incurvate come quelle delle scimmie, ma dritte. Il pollice, il dito più robusto, è opponibile e il suo funzionamento richiede da solo ben nove muscoli e i tre nervi principali della mano. E grazie a questi collegamenti multipli, paragonabili ai fili di una marionetta, che le dita si muovono con destrezza.
Tutto ciò si traduce nel grande numero di posizioni che la nostra mano può assumere: forma dei ganci aperti o chiusi di vario tipo; costituisce un punto d'appoggio e uno strumento prensile polivalente, dotato di forza o di precisione; serve anche da percussore o da coppa per bere, da strumento di misurazione, ecc. Insomma, la nostra mano ultramobile ci trasforma in una sorta di macchina utensile intelligente, che si programma quasi istantaneamente in funzione delle informazioni raccolte dai tanti sensori di cui è dotata.
Proprio grazie ai suoi microsensori, la mano è anche un organo d'informazione e di comunicazione. La forte presenza di terminazioni nervose, soprattutto sul palmo e sulla punta delle dita -più di 17.000- fa sì che il nostro tocco sia modulato dalla sensibilità, e infatti è con la mano che entriamo in contatto con il mondo materiale. Senza che ce ne rendiamo conto, ci fornisce ogni giorno migliaia di informazioni sottili sulla forma, la natura, l'aspetto di tutto ciò che ci circonda e sullo stato emotivo dei nostri simili. La mano rispecchia anche la stupefacente estensione delle nostre capacità cognitive. Si pensa che le sue attività mobilitino circa un quarto delle aree cerebrali dedicate al movimento, in particolare la corteccia motoria (situata nella parte posteriore del lobo parietale) coinvolta nei movimenti volontari e una parte dei neuroni del cervelletto che presiedono ai movimenti coordinati. Insomma, le capacità motrici e sensitive della mano hanno sicuramente contribuito all'aumento della nostra cognizione e delle dimensioni del nostro cervello.


Le mani e il corpo, figli del bipedalismo.
La mano non si sarebbe evoluta senza il bipedalismo, che dunque ne è all'origine. Del resto è alla base di tante altre trasformazioni, di cui è bene cogliere la portata: il corpo umano è diventato idoneo a una locomozione permanente in posizione eretta dopo un'impressionante serie di adattamenti che non hanno riguardato solo i piedi, le ginocchia, le anche, il bacino o la colonna vertebrale, ma anche la scatola cranica e persino l'orecchio interno. E una moltitudine di altre modifiche biomeccaniche ha agito sui muscoli dei piedi e dell'addome, sullo sviluppo dei glutei, la rigidità del piede, la resistenza del famoso tendine d'Achille, la struttura delle spalle, la forma del bacino maschile e femminile (che in posizione eretta, regge tutto il peso degli organi), ecc.
Il bipedalismo ha anche lasciato liberi i nostri arti anteriori, affidando loro compiti ben diversi dalla locomozione. In sostanza, ha rimodellato completamente il corpo degli ominidi, e quest'enorme trasformazione non è ancora finita, dato che le difficoltà legate alla posizione eretta non sono state del tutto superate, basti pensare al parto, o a quanto fatichiamo a restare in piedi per ore senza che ci venga mal di schiena.
Inoltre, il bipedalismo è anche una postura adatta alla corsa, cosa che ha imposto una profonda trasformazione anatomica. Quando corriamo, la testa non può ciondolare, sarebbe un disastro. Ciò significa che servono dei muscoli abbastanza robusti da sostenerla, il cui sviluppo ha allungato la parte superiore del nostro corpo, tanto diversa da quella delle scimmie - avete mai notato che la loro testa sembra poggiare direttamente sulle spalle? Quanto al corpo, deve restare dritto e stabile, e ciò è reso possibile dallo sviluppo straordinario dei nostri glutei. E anche il nostro piede è stato completamente rimodellato, così che durante la corsa possa immagazzinare energia elastica nell'arco plantare.


Corridori glabri.
Del resto, è indubbio che i nostri lontani antenati fossero già in grado in correre, poiché la pratica sempre più diffusa della corsa spiega in parte una delle caratteristiche più singolari per un primate: la perdita del pelo. Anche il più villoso tra noi è glabro in confronto alle scimmie! La cosa è quanto mai strana dato che il pelo comporta dei vantaggi preziosi: oltre a essere un buon isolante termico, protegge contro le abrasioni, l'umidità, i raggi solari, i parassiti e gli agenti patogeni; per di più il suo colore, spesso fulvo, serve a mimetizzarsi, e il suo "motivo" aiuta a riconoscersi tra membri della specie. Come spiegare dunque questa particolarità?
Siccome gli scheletri fossili non possono fornirci alcun indizio, dobbiamo ragionare a partire da ciò che è tipicamente umano nel funzionamento di quell'organo prezioso che è la pelle. Ogni centimetro quadrato del nostro derma contiene non meno di 600-700 ghiandole sudoripare (cioè "che generano sudore") sulle mani e sui piedi, 180 sulla fronte, 108 sulle braccia, 65 sulla schiena...
Ora, queste ghiandole, in particolare le ghiandole eccrine, producono sulla superficie della pelle una traspirazione fluida, molto diversa da quella degli altri primati, che è spumosa e inumidisce il pelo. Negli esseri umani i peli sopravvivono solo in certe parti del corpo -le ascelle, il pube e i capezzoli- dove sono associati a ghiandole sudoripare apocrine, che reagiscono agli stimoli emotivi (psicologici e/o sessuali), ma non al calore; sono rimasti anche sulla testa per proteggerci dal sole, dato che peli e capelli hanno la medesima struttura.
Gli antropologi hanno imputato la selezione, nei primi ominidi, di linee genealogiche sempre più glabre alle temperature presenti nella savana. In quell'habitat, ben più caldo rispetto alla foresta, disporre di una fitta pelliccia sarebbe stato svantaggioso. Gli individui meno pelosi invece sarebbero stati avvantaggiati nelle lunghe marce alla ricerca di risorse; e lo sarebbero stati anche di più per scappare in fretta dai loro predatori. La ridotta villosità e poi la nudità quasi totale sarebbero state selezionate progressivamente, via via che il corpo umano sviluppava -di generazione in generazione- una regolazione più efficace della temperatura corporea. Parallelamente, la pelle, che era chiara sotto i peli, si è scurita. Come ha dimostrato la paleobiologa Nina Jablonski, dell'Università della Pennsylvania, l'aumento della melanina ha cambiato la pigmentazione della pelle, cosa che ha avuto soprattutto il vantaggio di proteggere dai raggi ultravioletti i nostri lontani antenati rimasti nelle zone tropicali.
A questo proposito, sottolineiamo un'ulteriore evoluzione paradossale di certe linee genealogiche umane andate a vivere nella zona periartica: la loro pelle si è schiarita. In quelle zone, infatti, è meglio essere pallidi, perché la vitamina D -indispensabile per la salute delle ossa, per esempio- viene sintetizzata solo nella pelle e per effetto del bombardamento ultravioletto. Siccome tale bombardamento era insufficiente sotto le nuvole del nord per le pelli pigmentate, si è verificata una selezione delle linee con pelle più chiara, sia neandertaliane che denisoviane e, infine, sapiens. Il nostro cugino Neandertal fu il primo bianco d'Europa, ben prima dell'arrivo del Sapiens, la cui pelle scura si sarebbe depigmentata durante la glaciazione successiva, molto tempo dopo essersi pigmentata per resistere al sole dell'Africa.
Non sappiamo, esattamente, quando gli esseri preumani e poi umani iniziarono a perdere il pelo né quando arrivarono ad avere il nostro aspetto attuale. Dato che il più antico fossile ritenuto umano ha 2,8 milioni di anni, è plausibile che questo processo fosse già in atto nelle linee evolutive degli australopitechi che vivevano nella savana 3 milioni di anni fa. La perdita del pelo coincide con la comparsa del genere Homo? La questione rimane aperta, ma in ogni caso secondo noi coincide con l'introduzione della caccia.