L’innominabile realtà della violenza. Note su Joker.

 

 

 

 

Non capita spesso che da un film scaturisca un dibattito serrato e prolungato all'interno dell'habitat di movimento, solitamente distratto agli stimoli esterni. Eppure su Joker di Todd Phillips si stanno spendendo fiumi di inchiostro e di post; grande cosa l'interrogarsi a partire da certe cose, ma spesso l'analisi si concentra sulla banale assimilazione o rinnegamento del personaggio secondo i nostri schemi interpretativi e l'approfondimento si arena allora sulla benedizione o l'accantonamento. Ci si chiede se Joker sia un potenziale stragista nero, un apprendista Spartaco, una vittima da compatire o curare prima che la sua furia degeneri. La questione, se permettete, è più complessa. Joker non è un nazista, non è un incel, non è un compagno, né un vendicatore mascherato e nemmeno un semplice psicopatico.
Joker è l'immagine estrema ed estremizzata del subalterno: il prodotto violento di una società violenta; è l'individuo alienato, sfruttato, rinnegato, rigettato ai margini di un mondo che non lo necessita e non si esime dallo sputargli addosso tutta la sua mostruosità. Joker/Arthur Fleck è un individuo mediocre, non è bello, né brillante, non ha aspirazioni se non quella di fare il comico, di esercitare un mestiere: aspira al suo posto nel mondo potendo mangiare con ciò che gli piace; e tuttavia non brilla nemmeno nella sua comicità se non quando è oggetto di scherno sadico. Come un giullare deforme alla corte di un sovrano annoiato.
Joker assume su di sé tutta la violenza strutturale di un sistema classista, rapace e psicotico, la respira nei bassifondi della sua città, la mangia con il cibo precotto e gli psicofarmaci mentre la osserva dalla sua postazione tv. Joker è la parte mostruosa di ognuno di noi, non in quanto individuo psicopatologico, ma in quanto soggetto alienato, straccio da piedi della società, produttore/consumatore deumanizzato. È rinnegato dalla sua stessa comunità che lo addita con un misto di scherno e paura: è il mostro, il matto, il negro, il pezzente, lo spiantato, il fallito, è ciò che fa capolino allo specchio del bagno ad ogni abluzione mattutina.
Il povero Arthur Fleck non aspira altro che a diventare umano. E lo diventa solo nel momento in cui la vendetta diventa un opzione praticabile, quando un qualche giovane ricco e di successo cade a terra impallinato come merita. Nel gesto violento, irrazionale, finanche accidentale Joker schiude a se stesso una dimensione liberatoria, anche quando quel gesto è assolutamente ingiustificabile ed abominevole, Joker si riprende se stesso facendo a pezzi i totem del dominio che lo ha tenuto schiavo.
E la violenza vendicatrice è immediatamente recepita dalla massa subalterna nel suo significante liberatorio, il pagliaccio assassino di ricchi da ultimo resto della catastrofe neoliberista diviene immediato volto della rivolta sociale, della "giusta vendetta". La comunità degli oppressi, amorfa e incattivita trova la sua collocazione nel mondo tracciando una linea invalicabile tra sé ed il proprio nemico. Ricchezza e plebaglia, ville lussuose e slums, poliziotti che proteggono la società e sbirri che difendono i privilegiati. È la semplice divisione manichea del mondo che diviene tangibile nel momento dello scontro, il momento che rende tale una comunità e che dipana nella pratica il concetto di classe. Non ci sono buoni né cattivi, non c'è una morale che possa essere univoca, ognuno ha il suo posto nella gerarchia del mondo tardo capitalista e da lì può scegliere se piegarsi o muovere guerra.
Chiariamoci, Joker non è un personaggio esplicitamente politico, se ne frega della rivolta anche quando la trova bella e gode della sua apocalittica performance, la sua è una vendetta individualista e nichilista contro il mondo e contro se stesso, contro ciò che il mondo lo ha costretto ad essere ed è, in fondo, lo stesso sentimento che muove ognuno degli stereotipati insorti di Gotham City. È la recezione di quella sfera liberatoria da parte del proprio simile collettivo a schiudere un piano di sovversione. Ciò che c'è di politico nel film è anzitutto il disvelamento parossistico di un mondo diviso brutalmente per classe in due mondi differenti e non compatibili l'uno con l'altro, un mondo a compartimenti stagni dove ognuna delle due metà non può che essere, in fondo, irriducibile all'altra. Laddove viga la pace sociale, è una pax armata garantita dal rapporto di forza. L'altro elemento politico del film, per quanto stereotipato ai limiti del banale è la suddetta violenza che nel gesto disperato ed individuale trova una profonda eco collettiva nel momento in cui risponde alle più recondite esigenze esistenziali di un soggetto subalterno che è perennemente sull'orlo del baratro di una crisi di nervi o di una sommossa popolare.
Per tornare al Joker ed al suo essere né un fascio né un compagno, ma un figlio bastardo del capitalismo, esso non è interessante in quanto villain o psico-giustiziere, è la verità che impone al mondo tramite il gesto innominabile ad essere profondamente interessante. Purtroppo è una verità che si manifesta nello stesso identico modo degli attentati dei cani sciolti nazisti o dei radicalizzati islamici, ma (ed è un MA grande come la Trump Tower) verticalizzata tramite la sommossa secondo linee di classe. Joker individuo colpisce chi gli procura sofferenza più da vicino ed è spesso orrendo nel farlo, ma la traiettoria che disegna andando ad ammazzare i ricchi è la carta che genera un Joker collettivo, con un nemico che più chiaro non può essere quando inizia a muoversi al grido di Kill the rich!, le stesse pulsioni compresse e lo stesso nemico trasformano l'umanità disgregata da bassifondi in forza d'urto della rivolta. È in questa coincidenza tra gesto individuale e nichilista e soggettivazione collettiva che si condensa il dato politico di una storia simile. È una versione sangue e merda della dialettica servo-padrone di Hegel se volete, oppure ancora il principio fanoniano della rivolta; è qualcosa che dovremmo ben conoscere insomma.
Ora, duole ammetterlo, ma i ragazzotti bianchi e frustrati di Christchurch, di El Paso, Oslo o Macerata, come anche i giovani immigrati radicalizzati del Bataclan e di Nizza, quando agiscono compiono un gesto immensamente politico: elevano la propria violenza nichilista (ed il proprio sacrificio) ad atto di redenzione che cauterizza tutte le ferite riportate in anni e anni di esistenza frustrante, priva di significato e prospettiva. Uno lo fa in nome della supremazia bianca, l'altro in nome della Jihad. Ma la matrice è la stessa e la possiamo trovare nelle macerie fumanti del nostro tempo, proprio lì all'angolo sotto casa.
Ognuno di questi gesti crea un precedente, disegna una traiettoria, indica un nemico, chiama all'azione il suo simile e interroga il presente sulle sue responsabilità nella catastrofe dell'Occidente. È questa politicità, quasi sempre negata dal potere, a rendere chiaro, comprensibile e soprattutto ripetibile questo gesto. Dopo un Breivik ce ne sarà un altro, per ogni Johnny Jihad in tv ce ne sono alti dieci al computer. Pionieri tristi della guerra civile che viene, la cui violenza non si scaglia verso l'alto ma in orizzontale o verso il basso, contro il proprio omologo o subordinato. Alfieri di un apocalisse che l'antagonismo ha smesso di accarezzare per dedicarsi al pietismo, alle autonarrazioni, al far le pulci ad ogni cosa si muova fuori dalla finestra, rimbecillito e compiaciuto della propria marginalissima ed autolegittimata ragione.
Che la violenza di una vita miserabile possa essere maneggiata da un qualche disperato e rispedita contro la società in modo confusionario e nichilista, desti scandalo tra le facce pulite dei salotti bene, degli yuppies e delle aspiranti famiglie Wayne è normale: ogni cosa turbi il buon ordine liberale è qualcosa di inaccettabile, maligno e corrotto. Ma che i supposti rivoluzionari non colgano (che non vuol dire condividerne le enunciazioni ma comprenderne la forma e le causali) il dato politico dei gesti d'insubordinazione e (auto)distruzione è assai grave.
Come Joker, così come i novelli stragisti, tempi addietro a scaricare il proprio odio e la propria vendetta contro il nemico c'erano Sante Caserio, Giovanni Passanante, Jean-Jacques Liabeuf, Gaetano Bresci e tutta una sequela di celeberrimi Signor Nessuno che irrompevano, con la loro drammatica verità, sul teatro della storia a scompigliar le carte del dominio. E per ognuno di questi Signor Nessuno c'era una schiera di altrettanto cenciosi Nessuno ad erigere barricate per rivendicare il gesto e la liberazione del vendicatore, a celebrarne le gesta sui muri o anche solo ad annuire compiaciuti alla notizia riportata sul quotidiano.
Chiariamoci di nuovo, tutto questo parlare di violenza parrebbe macabro ed eccessivo, non si vuole certo fare qui apologia dello stragismo o dell'infanticidio, non sono mica nelle nostre corde! C'è qui da riflettere piuttosto su quanto la realtà di una violenza strutturale e sistemica, subita sulla pelle giorno dopo giorno da milioni di individui, sia tristemente sparita dal nostro orizzonte. Come se il semplice discettare di politica e proporre colazioni meticce e solidali, fare a spintoni con la polizia ogni tanto e riunirci nei nostri mirabolanti parlamentini ci basti a non guardare fuori (e dentro) di noi; come se bastasse un centro sociale a cancellare la rabbia, la tristezza, la frustrazione delle vite mutilate. I nostri nemici sono cartonati da campagna stagionale, i nostri eroi vendicatori sono diventati caricature innocue, la nostra militanza diventa panacea per non affrontare l'orrore. E ci si ritrova spesso a condividere il biasimo della classe dirigente, scuotendo tristemente la testa davanti all'ennesimo gesto disperato.
Joker non è un rivoluzionario né un eroe, è un banalissimo dato di fatto. E mentre il milieu militante si guarda l'ombelico chiedendosi se Arthur Fleck sia buono o cattivo, nazi o rosso, malato o ribelle, fuori da queste stanze, qualcuno molto meno preparato di noi comprende l'essenza del messaggio, veste la stessa maschera e scende in strada. E noi o saremo in grado di comprenderla ed indossarla quella maschera, o il fuoco che muoverà brucerà noi per primi. Sono gli altri ad essere impazziti, o siamo noi ad aver perso la bussola?


Jack Orlando, 2019