Viaggiatori d’altri tempi.

 

 

 

 

"In alto mare e dinnanzi al giudice si è soli nelle mani di Dio". In questa frase spesso citata traspare ancora un po' dell'antica insicurezza che prendeva i nostri antenati quando dovevano perdere temporaneamente il saldo terreno sotto i loro piedi salendo su una nave oscillante. Chiaramente alcune delle paure collegate a ciò si sono preservate nella nostra memoria culturale, altrimenti questo proverbio non potrebbe apparire cosí immediatamente chiaro a chiunque. Tuttavia, oggi i viaggi per mare sono considerati per lo piú sicuri, se si prescinde dai pericoli della pirateria, sempre grandi oggi come un tempo, nelle regioni in crisi o dalle eccezioni di una condotta irresponsabile, della quale ad esempio cadde vittima la Costa Concordia nel 2012.
Nell'antichità i rischi non erano però l'eccezione che conferma la regola, bensí la normalità. Ciò valeva non tanto per i rudi uomini, capitani e marinai, che si mettevano in viaggio per mare, ma molto probabilmente per quelli che prenotavano un posto sulla nave da carico per un viaggio lontano come passeggeri. Si trattenevano in questo luogo d'eccezione a loro estraneo con sentimenti altamente contrastanti, e per meno tempo possibile. La nave era soprattutto un luogo di paura.
Ebbene, accompagniamo un viaggiatore in una simile avventura! Questi si recava al porto e si informava al molo se una delle navi in procinto di partire si dirigesse alla meta del suo viaggio o se almeno puntasse in quella direzione. Anche nell'antichità c'era un servizio di traghettamento locale, ma non esistevano navi per passeggeri con un preciso orario programmato che effettuassero viaggi di lunga distanza. Anche le navi che trasportavano preferibilmente passeggeri quali i soldati (tale imbarcazione era chiamata phaselus) erano impiegate molto sporadicamente. Ora, quando il nostro passeggero aveva trovato una nave da carico adatta, doveva dedicarsi ad alcuni preparativi.
Innanzitutto, prenotava o pagava il viaggio a un ufficiale o al capitano del mercantile. Poi si procurava il vitto, perché sulla nave c'era sí un piccolo angolo cottura, ma a parte l'acqua non c'erano né cibo né servizio. Il viaggiatore doveva portarsi anche le stoviglie, gli utensili per la notte, una tenda per ripararsi e dei vestiti. A differenza di oggi il giorno preciso della partenza non era stabilito; dunque, il nostro viaggiatore doveva piantare le tende al porto e fare attenzione ai banditori che annunciavano quando la nave prenotata salpava, non appena le condizioni esterne -non da ultimo il tempo- lo permettevano.
Ma c'era tutta una serie di aspetti che condizionavano il giorno della partenza. Sarebbe stato impensabile mettersi in mare in giorni festivi o ancora meno in date nefaste, come un venerdí 13 o una fine del mese. Inoltre, bisognava fare sacrifici agli dèi, anche se delle irregolarità nel corso del rito sacro potevano ritardare la partenza. A questo si aggiungeva tutta una serie di altri segni premonitori che potevano essere interpretati negativamente. E anche se tutto ciò si era verificato in termini fausti, poteva succedere, ad esempio, che dei brutti sogni del passeggero, in cui comparivano chiavi o ancore, oppure una cornacchia nel sartiame o uno starnuto sulla passerella o molto altro venissero interpretati come segni ominosi.
In tal caso bisognava rinunciare al viaggio organizzato sulla nave già scelta. Ma quando siffatti segni nefasti non si verificavano, si partiva sul serio e si assegnavano ai passeggeri dei posti sul ponte, dove si potevano sistemare. Alcuni venivano portati sottocoperta, nei posti piú economici e, dunque, peggiori. L'acqua putrida della sentina, lo spazio ristretto avvolto nell'oscurità, i claustrofobici depositi delle merci e le alte temperature rendevano il viaggio sottocoperta molto difficile da sopportare.
Dato che la maggior parte dei viaggi si svolgeva in estate, il passeggero, nel caso in cui avesse pagato per questo, poteva piazzarsi sul ponte, montare una piccola tenda e passarvi la notte. Il motivo per cui si viaggiava preferibilmente nella piacevole estate mediterranea è collegato con la navigazione. Per orientarsi, si dipendeva molto dal vedere di giorno il sole e di notte le stelle, dato che la bussola magnetica era ancora sconosciuta. La formazione di nuvole in estate era piú scarsa, per cui l'orientamento astronomico era piú certo che in altre stagioni, e i venti soffiavano con maggiore costanza da una direzione affidabile. L'inverno, in quanto momento di altissimo rischio per viaggiare, era designato come mare clausum, poiché in quella stagione il mare sembrava agli uomini dell'antichità essere chiuso nel vero senso della parola.
In base alla meta del viaggio c'erano diversi modi in cui compiere l'itinerario. Un viaggio da Atene attraverso l'Egeo fino alla costa meridionale dell'Asia Minore richiedeva, come sappiamo da Cicerone, molta pazienza. Il viaggio per nave era nella stragrande maggioranza dei casi un tragitto costiero, perché era piú sicuro per i marinai navigare lungo le coste piuttosto che nel mare aperto: in caso di emergenza o di maltempo improvviso potevano velocemente ripararsi presso un porto. E naturalmente, le navi che procedevano lungo la costa di sera puntavano ai porti piú vicini.
Vi si vendevano merci, nuovi beni di scambio venivano caricati sulla nave e le riserve d'acqua di nuovo alimentate. I passeggeri potevano cercarsi un riparo per la notte e qualcosa da mangiare. Nel caso di destinazioni che si trovavano ancora piú lontano, il viaggiatore doveva magari cambiare piú volte nave; cosí in diversi porti doveva di nuovo domandare in giro tra gli uomini degli equipaggi su quale nave avrebbe potuto continuare il suo viaggio. Piú semplici e confortevoli erano veri viaggi con mete lontane, soprattutto su rotte importanti, come quella dal porto romano di Ostia fino ad Alessandria. In questi casi, un viaggiatore poteva, ad esempio, prenotare la sua tratta su grandi navi per il trasporto di granaglie, che con possenti vele e un equipaggio particolarmente esperto percorrevano in pochi giorni, grazie ai venti favorevoli, l'intero tragitto senza pause intermedie. Queste navi, talora enormi, offrivano anche delle cabine alla ricca clientela e ai loro servi. Persino i membri della famiglia imperiale utilizzavano queste navi con il loro entourage per i viaggi a lunga distanza.
Quando nel II secolo d.C. una di queste navi fu mandata alla deriva da una tempesta, e nel viaggio di ritorno verso Roma approdò inopinatamente al Pireo, mezza Atene confluí al porto, come ci racconta Luciano, che era lí presente, per ammirare il gigantesco vascello. La nave da carico, chiamata Iside, la protettrice dei viaggiatori per mare, poteva portare molto piú di 1.000 tonnellate di cereali, grazie a una lunghezza di piú di 50 metri, una larghezza di 13 e una profondità di 12 metri. Questi bastimenti accoglievano un numero sorprendente di passeggeri, in particolare quando viaggiavano con una zavorra, e dunque invece delle merci erano caricati soltanto con del peso per la stabilità.
In questo modo viaggiò lo storiografo Flavio Giuseppe (1 secolo d.C.) dalla costa levantina insieme con altri 600 passeggeri, e l'apostolo Paolo racconta di niente meno che 276 passeggeri che si trovavano sulla stessa nave per il trasporto cerealicolo su cui lui era in viaggio. Queste condizioni di trasporto dovevano essere per la stragrande maggioranza dei passeggeri tutt'altro che gradevoli. Nondimeno, su queste navi non si correva il pericolo di essere derubati da un equipaggio criminale o addirittura di essere venduti come schiavi. Tuttavia, questi rischi sembrano essere stati, per le navi piú piccole che si spostavano lungo la costa, ancora presenti fino all'epoca romana.
Ci si può immaginare facilmente come il nostro viaggiatore esaminasse i marinai per poter magari cogliere dalle loro storie tali cattive intenzioni ancora prima della partenza. Mi posso fidare di loro? Mi deruberanno o mi venderanno perfino come schiavo? Probabilmente si ricordava ancora di quei versi dell'Odissea imparati a scuola, dove la vendita dei viaggiatori come schiavi era descritta come pratica ricorrente dei navigatori. Inoltre, era nota la storia mitica o, meglio, la favola del cantore Arione di Lesbo (Erodoto, Storie I, 23-24), che nel VI secolo a.C. voleva viaggiare da Taranto in direzione della sua patria d'elezione, Corinto. Cosí scelse una nave corinzia, credendo di potersi fidare dell'equipaggio, che però stabilí di derubarlo e gettarlo fuori bordo. Il cantore pregò di poter cantare un'ultima volta con indosso le sue vesti, per poi lanciarsi in mare. Dopo che fu saltato, un delfino miracolosamente lo raccolse nei pressi della località di Tenaro, sulla punta meridionale del Peloponneso, e lo portò sulla terraferma. Arione si diresse da lí a Corinto, dove il tiranno Periandro, che aveva nostalgia di lui, lo attendeva come ospite di riguardo. Quando poco dopo la nave arrivò, Periandro smascherò i marinai senza scrupoli presentando loro il cantore ancora in vita: cosí furono puniti.
In questi versi e storie drammatiche -forse anche nei salvataggi miracolosi per opera di delfini- si mascheravano esperienze della vita quotidiana che ci si raccontava nelle taverne al porto o che ci si figurava da viaggiatore nella propria cupa fantasia come scenari spaventosi. Una catastrofe non meno temibile e presumibilmente piuttosto frequente che poteva toccare a un passeggero di una nave era l'avaria. Abbiamo alcuni resoconti antichi su simili catastrofi. Ma forse ancora piú impressionanti sono le testimonianze archeologiche di simili disgrazie, relitti di navi con i loro carichi, che fino ai giorni nostri sono rimasti celati sul fondo del mare e qui ritrovati.
L'Institute of Nautical Archaeology della Texas A&M University si gloria non a torto di essere un ente guida nella ricerca dei relitti. L'istituto ha una sede illustre nella città turca di Bodrum, insieme con un museo, dalla quale si indagano relitti importanti. Con l'aiuto delle navi di ricerca Virazon I/ II e di uno speciale sottomarino, a cui è stato dato il simpatico nome di Carolyn, gli studiosi esplorano soprattutto le regioni vicine alla costa dell'Asia Minore e dell'Egeo. Grazie a innumerevoli immersioni, soltanto nell'area operativa di Carolyn sono state trovate e mappate centinaia di navi sul fondo del mare.
Il loro numero complessivo nel Mediterraneo ammonta attualmente a piú di mille, e la quantità di nuovi relitti scoperti sale ogni anno. L'aumento significativo di navi affondate dal III secolo a.C. in poi è una prova impressionante della forte crescita del commercio marittimo, che di conseguenza fece salire anche il numero delle avarie. Anche se ai pur consistenti affondamenti di navi fanno da contraltare molti piú viaggi finiti bene, ciò non avrà quasi per niente tranquillizzato i viaggiatori impauriti dell'antichità, e cosí sarà stato anche per quelli del Medioevo e dell'età moderna. Catastrofi come quelle a cui sopravvissero, ad esempio, lo storico ebreo Flavio Giuseppe o l'apostolo Paolo testimoniano dell'orrore di simili sciagure.
La nave di Giuseppe affondò nell'Adriatico, e i seicento passeggeri dovettero nuotare tutta la notte. Scialuppe di salvataggio e galleggianti erano all'epoca praticamente sconosciuti. Solo ottanta di loro furono soccorsi il giorno dopo da una nave proveniente dalla città nordafricana di Cirene, che si trovava per caso a passare per il punto del naufragio. Tutti gli altri passeggeri probabilmente annegarono in quella notte spaventosa. Il fatto che Giuseppe menzioni incidentalmente in poche parole la sua salvezza ci dice che ai lettori erano familiari simili tragedie che accadevano regolarmente. Dietro molti resoconti sulle crisi di approvvigionamento a Roma ci sono gli affondamenti dei carichi di cereali. Seguendo dei calcoli pessimistici, una nave su cinque non deve aver raggiunto il suo obiettivo.
E' uno scandalo che il Mediterraneo oggi sia di nuovo diventato teatro di catastrofi indicibili con migliaia di profughi morti, il cui destino a malapena tocca i contemporanei piú dei resoconti degli affondamenti nel mondo antico, che a loro volta si cancellano facilmente dalla memoria.
Un altro pericolo che minacciava fino al 1 secolo a.C. i navigatori e gli equipaggi delle barche erano le aggressioni dei pirati. Essi catturavano le navi, facevano bottino e rapivano gli uomini per venderli come schiavi oppure, nel caso di passeggeri illustri, per pretendere un riscatto. Cesare cadde vittima di un simile attacco, come abbiamo già visto trattando della città pirata di Olimpo. Dopo la depredazione e il sequestro delle persone, le navi attaccate venivano per lo piú semplicemente affondate. Considerato il fiorente commercio di schiavi praticato dai Romani, la pirateria doveva essere un'attività redditizia: Pompeo fu il primo a comprendere come fosse necessario arginarla in maniera durevole.
Però, nonostante i vari pericoli e le paure a essi collegate, la navigazione rimase l'elemento di collegamento per eccellenza tra le culture antiche. Era semplicemente il modo piú rapido ed economico per muoversi. Il continuo scambio di novità che si accompagnava ai viaggi per mare era il mezzo di comunicazione piú veloce nel mondo antico. Le navi erano, per cosí dire, le linee del telegrafo del passato, la cui velocità di trasmissione a noi oggi sembra naturalmente lenta, ma che, considerata la durata infinita dei viaggi per terra di allora, comunque funzionava in maniera incomparabilmente piú efficiente di questi ultimi. Una lettera che partiva dalla parte orientale del Mediterraneo per arrivare in Occidente stava in viaggio, in base alla situazione dei venti, diverse settimane, mentre nella direzione opposta meno di due. Persino i piú veloci cavalieri della posta statale necessitavano di mesi per questo trasporto. Come sappiamo da Plutarco, si domandava "Che novità ci sono?" al porto, non nel centro della città.
Sin dall'età greca arcaica, chi non prendeva parte a questo tipo di comunicazione per i contemporanei non apparteneva -e questo è significativo- alla civiltà. Già nella prima letteratura geografica dei Greci, nel tardo VI secolo a.C., il Mediterraneo è considerato il cuore dell'oikoumene, il mondo abitato fino allora conosciuto, e al contempo la condizione basilare della propria cultura. Senza il mare nessuna civiltà greca! Già centocinquant'anni prima, come sappiamo dall'Odissea, Omero descrisse i Ciclopi come una comunità non civilizzata, esclusa dal mondo del mare. Non hanno assemblee, nessun consiglio, nessuna legge, non conoscono l'agricoltura e vivono nelle caverne. Il motivo per cui tutte le acquisizioni della civiltà gli sono sconosciute è ovvio: "Non hanno i Ciclopi navi dalle guance di minio, non mastri fabbricatori di navi ci sono, che sudino a far navi solidi banchi e queste poi tocchino, uno per uno, i borghi degli uomini, come gli uomini spesso, gli uni gli altri cercandosi, il mare sulle navi attraversano" (Odissea IX, 12 5-29).
I Greci chiamavano il Mediterraneo, come i Fenici, megale thalassa, il "grande mare". Questo mare era il mezzo di scambio e di comunicazione, le uniche cose che garantivano un progresso di civiltà. Il mare non separava, semmai univa. Per i Romani le cose non stavano diversamente. Per loro, il controllo del mare era alla fin fine origine e garanzia del loro dominio sul mondo. Tutti questi effetti benefici del mare potrebbero essere stati ben presenti al nostro viaggiatore che domandava al porto un passaggio in nave. Ciononostante, alla luce degli innegabili pericoli, egli avrebbe volentieri evitato questo luogo particolare con le sue offerte di barche a lui e ai suoi contemporanei amanti della terraferma. E sicuramente avrà pensato preventivamente, mentre passava di nave in nave e chiedeva in giro la rotta, alle dimensioni del sacrificio che avrebbe presentato agli dèi se gli avessero garantito un felice ritorno a casa, e avrebbe poi raccontato per lungo tempo gli spaventi patiti e le nuove sensazioni.


M.Zimmermann, 2020