Mani Pulite. 30 anni dopo.
È qui la festa delle trenta candeline di Mani Pulite con torta, abbracci e spumantino? Certo che è qui. Li festeggiamo nel modo più appropriato con “la più grande truffa della storia repubblicana” in corso, quella dei Bonus e del Superbonus, razziati dai professionisti delle carte false e dai loro clienti per la bella cifra di 4 miliardi e mezzo di euro, incassati in contanti e trasformati in lingotti, come ai tempi del mai dimenticato Duilio Poggiolini.
Complici anche oggi gli italiani di ogni colore, appartenenza, fede, titolo di studio, classe sociale. Un record che si ripete. E che attraversa orizzontale l’intera Repubblica, nella speciale festa collettiva in ricordo di quel disgraziato di Mario Chiesa, ombra minuscola di Bettino Craxi e di tutti gli altri ras della politica che si rubarono tutto il rubabile, compreso l’onore dei rispettivi partiti, le spalle ben coperte dal Muro di Berlino, che ingessava lo status quo nel mondo, e dall’allegra gestione del debito pubblico che stampava Bot a nastro, scalando il cielo dell’inflazione a due cifre. Tutti arrivati, in quell’inverno di portenti, al capolinea della Prima Repubblica. Per poi consegnare la Seconda al Piccolo Cesare (copy: Giorgio Bocca) quel Berlusconi Silvio che allestì il nuovo spettacolo della comune rovina – morale, sentimentale, culturale, giudiziaria – con il potere dei soldi e la mediocre complicità dell’eterna sinistra aventiniana, sempre convinta della sua astuzia, dissipata in cambio di un po’ di equo canone nei palazzi del potere, qualche fidanzata o figlia assunta, e un ottimo cappuccino caldo, offerto ogni sera in tv, insieme a una vestaglia e alle ciabatte, pregasi non disturbare.
Festeggiamo le maxi, le medie e le piccole “dazioni ambientali” scoperte a suo tempo dal Pool di Milano in quei mesi dell’anno 1992, in cui brillarono i boati di Capaci e via D’Amelio, con le nostre quattro mafie oggi in piena salute. Encomiabile record anche questo, rispetto all’intero Occidente. Mafie evolute al punto da esercitare la pacifica convivenza e la costante infiltrazione nel sistema nervoso del corpo sociale, dal Sud al Nord, nelle amministrazioni locali, nelle imprese per il movimento terra e in quelle finanziarie per il movimento del contante. Mafie al momento impegnate nel sistematico assalto ai 209 miliardi di pasti caldi in arrivo da Bruxelles, vediamo chi sarà più svelto, le guardie, i ladri o la politica. Trent’anni fa l’inchiesta dissipò i dubbi sulla superiorità atletica della politica, veloce al punto da diventare predittiva, come ebbe a spiegare Gerardo D’Ambrosio, l’allora procuratore generale aggiunto di Milano: “Eravamo arrivati al punto che non si prendevano più le tangenti per fare i lavori pubblici, ma si facevano i lavori pubblici per prendere le tangenti”. Gli imprenditori e i finanzieri confessarono e patteggiarono in fretta per tornare al lavoro. Persino Enrico Cuccia, il dominus di Mediobanca, interrogato sul falso in bilancio di una certa società, disse in tribunale: “In verità non ho mai visto un bilancio vero in vita mia”. E in vita sua, per la prima volta, sorrise.
Certo che festeggiamo le trenta candeline. Tutti in lieta attesa di almeno un paio di referendum caricati a pallettoni contro il petto della magistratura, la sua indipendenza, per darle il colpo di grazia, dopo gli innumerevoli danni che in questi anni la magistratura ha subito da tutti i manovratori disturbati, oltre che da se stessa. Incalzata da una opinione pubblica che di giorno in giorno, di legge in legge, è stata istruita e fomentata al suo disprezzo. Fino alla bella avventura di questo tale Luca Palamara, caro a Cossiga al punto da chiamarlo “tonno”, radiato per indegnità dalla magistratura, ma che fa la morale alla magistratura.
“Faccio la lepre e corro fino a che non mi prendono”, aveva detto a suo tempo Antonio Di Pietro, un po’ prima di togliersi la toga, con gesto teatrale, per essere 27 volte inquisito e 27 volte assolto dal Tribunale di Brescia. Gherardo Colombo, nel 1998, propose ai legislatori di interrompere “la società del ricatto” che procede secondo “accordi sottobanco e patti occulti”. Per spiegargli che non doveva azzardarsi, gli caddero in testa tutti i vasi di gerani a disposizione dei partiti. E il mite ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, lo mise sotto processo disciplinare per aver offeso l’onorabilità della politica. E naturalmente della Repubblica.
Da allora si è marciato alacremente al contrario. L’attività legislativa principale non è mai stata quella di contenere la corruzione, ma di arginare le indagini che la scoprivano. Sono state fatte leggi per azzerare le prove, per cambiare i reati o cancellarli, per inceppare le rogatorie sui conti esteri, per allungare i processi e accorciare la prescrizione. Per ridimensionare, in omaggio ai potenti, quella molesta esagerazione che compare in ogni aula di tribunale: “La giustizia è uguale per tutti”. Ultima chicca: l’improcedibilità, ideata dalla ministra Marta Cartabia, che misura la scadenza dei processi, alla maniera degli yogurt, tanti saluti alle vittime dei reati.
E dunque sì, festeggiamo i trent’anni di Mani Pulite con i prossimi che passeremo in compagnia di questa nuova classe politica, selezionata in base alla fedeltà ai segretari di partito e quasi mai per la competenza, salvo che in quella necessaria a moltiplicare, lucidare, arredare le rispettive Fondazioni con il flusso costante di denari che corrono verso la foce. Facendo molta attenzione che non scattino mai gli allarmi per le inondazioni, come sta accadendo al figlio di Tiziano Renzi per eccesso di autostima, viaggi esteri e golosità contabile.
Abbiamo il migliore dei banchieri che ci governa, l’unico, a quanto sembra, capace di pensare al bene collettivo, così tipico dei banchieri. E una fitta schiera di statisti al seguito che Mattarella Primo, alzando il sopracciglio, sgomberò da Palazzo Chigi, giusto un anno fa. Premiato (o condannato) con altri 7 anni di Quirinale, dopo 7 giorni di risse negli spogliatoi dei 16 partiti in circolazione. Ma che si è tolto lo sfizio, il giorno in cui è diventato Mattarella Secondo, di cantarle chiare al suo predecessore. Applauditissimo.
Pino Corrias, 2002.