Il disco di Festo.

 

 

 

 

Festo è uno dei grandi palazzi minoici, e il suo disco è stato trovato lì all'inizio del Novecento da un archeologo italiano, Luigi Pernier. Nel palazzo non sono stati ritrovati archivi, non come quelli maestosi e stracolmi di tavolette di lineare A e lineare B scavati a Cnosso, a nord dell'isola, o quelli, di lineare A, del sito di Hagia Triada, un complesso edificio a sud e contiguo a Festo. Qui, di scrittura sembrava non esserci quasi traccia. Ma come è possibile, si chiedeva Pernier, che in un palazzo così imponente e monumentale, con le sue scalinate regali e grandiose, ci siano solo un paio di iscrizioni, sparse qua e là?
Nel 1908 doveva tenersi l'ultima campagna di scavo. I fondi per continuare la ricognizione del palazzo stavano finendo. Brutto momento per Pernier. Anche perché, secondo voci locali, era consumato dall'invidia per gli archeologi suoi rivali e le loro scoperte sensazionali. Pernier aveva bisogno di una svolta, uno spiraglio di luce.
Detto, fatto. Il ritrovamento del disco di Festo viene salutato da tutti, rivali compresi, come la scoperta dell'anno. Festo acquisisce subito notorietà e pubblico. Il disco stupisce tutti. Non somiglia a nulla di già visto prima.
Come è possibile che un oggetto così piccolo -sedici centimetri di umile argilla-, da solo, sia diventato l'icona dell'ísola, la gondola di Creta? Perché è così magnetico? La risposta è semplice e sta nelle parole crociate che fate il sabato mattina, nei libri gialli, nelle serie tv su crimini e omicidi, negli amori ostinati e non corrisposti che vi tengono incollati al telefonino in attesa di un messaggio. La risposta sta nei coni d'ombra, negli angoli ciechi della vita, nello stimolo delle nostre capacità analitiche, nella proiezione forzata delle nostre previsioni e delle nostre aspettative. La risposta è il più magnetico dei misteri: afferrare quel che non sappiamo, arrivarci prima degli altri. Intuire, sondare. Decifrare.
Siamo preda facile dell'ignoto. Ci tiene incollati al futuro. E più qualcosa è avvolto nell'oscurità, più è buio, più vogliamo gettargli addosso un po' di luce.
E allora basta un piccolo oggetto, come il disco di Festo, per innescare la miccia della sfida. Una spirale di segni illeggibili, incomprensibili, che creano un effetto ipnotico. E l'enigma non sta solo nella scrittura, ma anche nelle circostanze del suo ritrovamento, la sua storia, i dubbi sulla sua autenticità. Tutto ciò che ruota intorno al disco di Festo ci racconta di abbagli, tranelli, puzzle da risolvere. Una storia che sembra una partita di Cluedo, oltre che di Scarabeo.
Ma qual è la prima cosa che vi succede se avete una botta di fortuna, come è successo a Luigi Pernier? Innanzi tutto, le malelingue partono subito all'attacco. Quindi questo disco non può che essere un imbroglio, creato ad arte dalla bile di un archeologo rancoroso e invidioso, in cerca di gloria. Insomma, non può essere autentico, Pernier deve aver barato: il disco deve essere un falso.
Hanno ragione le malelingue, è davvero così? Bella domanda. Vediamo il clima che si respirava: da un lato abbiamo un archeologo italiano, quindi sospetto, che si muove in un ambiente competitivo; dall'altro, abbiamo una campagna di scavo impoverita, con i fondi agli sgoccioli: in un contesto del genere, creare un falso fa svoltare. E chi si muove nell'ambiente universitario sa benissimo che è più facile avvelenare il pozzo dell'accademia con la malvagità e l'invidia che tenerlo limpido con la collaborazione e il dialogo.
Ma lasciamo perdere i pettegolezzi. Pensiamo ai fatti. Che cosa c'è sotto? Il disco è senza dubbio strano, con i suoi simboli impressi alla perfezione, i bordi ben torniti e regolari. Sembra confezionato ieri. Anche se non lo è, sembra un falso. E c'è chi la pensa ancora così, anche tra colleghi esperti. Però, il contesto archeologico in cui è stato ritrovato è solido e attendibile. Anche la sua datazione lo è, ed è riconducibile allo stesso periodo in cui gerogliflco cretese e lineare A convivevano sull'isola, anche se in location diverse. ll disco era stato ritrovato vicino a una tavoletta di lineare A molto arcaica. Tirando le somme, dobbiamo, con il beneplacito degli scettici, concludere che Pernier non si era inventato nulla e il disco è “buono”, come si dice in gergo. La storia rocambolesca di inganni e sotterfugi, il pettegolezzo, devono essere sepolti sotto gli strati delle inutili diatribe accademiche.
Basta inventare storie. Poniamoci le domande legittime: a che cosa poteva mai servire un disco del genere, e che cosa c'è scritto sopra?
Il disco di Festo non è un testo amministrativo. I simboli disposti a spirale ricordano un altro disco di piombo di datazione più tarda e iscritto in un'altra lingua ancor oggi pressoché incomprensibile, l'etrusco. Il disco di Magliano è subito citato da Pernier nel suo report di scavo, come a dire “full disclosure: non ho copiato”. I due oggetti sono molto simili, ma è solo una strana coincidenza, Etruria e Creta non hanno connessioni storiche, le date sono molto, troppo, distanti.
Allora forse è un gioco a percorso, una specie di gioco dell'oca? Tra le mille interpretazioni, è stata suggerita anche questa. Gli Egizi giocavano a "mehen", su tavole circolari, il percorso definito da un serpente arrotolato. "Mehen" infatti significa “l'arrotolato”, il dio serpente, e il percorso sul suo corpo segnava il passaggio dalla vita alla morte. Il gioco dell'oca moderno è di certo meno solenne e anche meno macabro. Può il disco di Festo rappresentare un sollazzo cretese, di qualche scriba annoiato e stanco di dover compilare solo liste di lana e pecore? Credo proprio di no.
E forse il disco è meno isolato di quanto si pensi. Le spirali non erano estranee ai Minoici: le vediamo con la lineare A disposta a cerchio sul castone di un anello, o intorno a una simpatica coppa conica dipinta con segni di lineare A all'interno. Un'impresa non da poco, dipingere segni all'interno di un vasetto dalla pancia così profonda, e infatti non si leggono con facilità. Ma nulla è più illeggibile di questo disco, la sua iscrizione -perché alla fine, di iscrizione si parla- un cruciverba inespugnabile, una sfida impossibile.
In questo caso siamo preda dell'ignoto e dobbiamo concedergli vittoria. Ci sono cose che dovremmo ammettere di non sapere, di non poter sapere, e di non poter sapere mai. Gettiamo dunque la spugna?
Una serie di simboli disposti a spirale su entrambi i lati, quasi tutti riconoscibili: uomini di varie fattezze e in varie pose, una donna, un pesce, un fiore, un vaso, asce, un'ape, una colomba e tanti altri, alcuni ripetuti. Il mondo minoico, tutto lì. Eppure questi simboli hanno solo una vaghissima somiglianza con il geroglifico cretese. Da dove vengono? Che cosa ci fanno su questo disco?
Ci sono due misteri racchiusi nel mistero di questo oggetto. Il primo è che è stato cotto apposta ad alta temperatura per essere preservato nel tempo. Cosa inusuale, perché le tavolette di lineare A e i documenti di argilla del geroglifico cretese si sono conservati solo perché “bruciati”, cotti dagli incendi che hanno distrutto i palazzi, prima minoici e poi micenei. Cuocere la creta rende le tavolette quasi indistruttibili. E quindi solo un accidente di percorso, fortunato e inaspettato, che si siano salvate e che siano arrivate a noi in condizioni quasi perfette. Serendipità degli epigrafisti egei.
Il secondo mistero è che i segni sul disco non sono incisi nell'argilla. Sono stampati. La prima stampa, secoli prima di Gutenberg, che nel Rinascimento europeo del Quattrocento inventò i caratteri mobili. Il disco li ha già, tutti in fila, e disposti a cerchio. Un precursore senza continuità storica, perché gli stampini cretesi non sono stati usati per stampigliare nessun altro oggetto. Il disco di Festo è un unicum.
Duecentoquarantadue segni, in sequenze di parole ben divise e non casuali, che indicano con ogni probabilità che questa è una vera lingua scritta: ma se è così, è rappresentata una scrittura sillabica, come il geroglifico cretese e la lineare A, oppure una scrittura logografica, con segni che indicano ognuno un morfema, cioè una parola? La prima possibilità è la più accreditata, ma il numero di segni totali non è sufficiente per validare l'ipotesi. Ecco la maledizione di un unicum. Non esiste falsificazione o verifica. Altro che ramo isolato, questo è un cigno nero: raro, anzi unico, ad altissimo impatto, e maledetto.
Maledetto perché non ci permette di applicare il metodo scientifico, e quindi nessuno, nessuno mai, riuscirà a decifrarlo. Con sottile ironia inglese, il filologo Chadwick, che aiutò Michael Ventris nella decifrazione della lineare B, scrisse a proposito del disco di Festo: “Se anche re Minosse in persona mi comparisse in sogno e mi desse la chiave di lettura, non avrei nessuna prova del nove per dimostrare al mondo di avere la soluzione”. Punto e a capo. Siamo tornati all'inizio del nostro gioco dell'oca, un percorso a vicolo cieco in cui nessuno ha vinto la partita. Come si dice a Roma, alla fine del tunnel ci sono solo i fari del camion.

 

Silvia Ferrara, 2019.