Gino.

 

 

 

 

Sono un chirurgo. Una scelta fatta tanto tempo fa, da ragazzo.
Non c'erano medici in famiglia, ma quel mestiere godeva di grande considerazione in casa mia. “Fa il dutur, l'è minga un laurà,” diceva mia madre, “l'è una missiùn." Un'esagerazione? Non so, ma il senso di quella frase me lo porto ancora dentro, forse mia madre era una inconsapevole ippocratica.
Sarei stato il primo a laurearmi in famiglia, una famiglia di operai. Per undici anni avevamo condiviso l'appartamento con due zii e due cugine, Anna e Mariangela, “la Mari”, che per me sono state praticamente sorelle.
La zia Gianna aveva rinunciato a una camera di casa sua per permettere a mia madre di mettere su famiglia in un periodo in cui i miei non potevano pagare l'affitto di un appartamento solo per loro. Si sposarono un 7 giugno, lo stesso giorno del mio matrimonio con Simonetta, tanti anni dopo.
Appena i miei hanno avuto qualche soldo in più, ci siamo trasferiti in due case vicinissime. Vivevamo nello stesso condominio, divisi da un pavimento e un soffitto perché la nostra ormai era di fatto una famiglia unica, che condivideva tutto non più per bisogno ma per affetto.
Vivevamo in via Lacerra, uno dei quartieri più popolari di Sesto San Giovanni. La chiamavano la "Stalingrado d'Italia”: le grandi industrie, gli operai, il partito, il passato partigiano.
A Sesto si faceva politica per forza. Erano gli anni dell'immediato dopoguerra, c'era in giro aria di ricostruzione, lo capivamo anche noi bambini, che oltre ai fumi delle acciaierie respiravamo etica del lavoro, responsabilità, senso di comunità.
Sesto era un buon posto dove diventare grandi. Avevo gli amici del cortile e del campetto, come tutti i bambini di allora. Una banda, con la quale siamo rimasti affiatati negli anni, dai banchi di scuola a oggi.
Eravamo sempre fuori, mia madre aveva rinunciato a essere apprensiva anche se quando ci vedeva tutti insieme urlava dalla finestra un “Me racumandi" per stare più tranquilla. Mio zio Gino, invece, teneva bordone, ci copriva e ci coinvolgeva in qualsiasi attività gli venisse in mente. La pesca di frodo, ad esempio.
Mi caricava sulla canna della bici e poi andavamo al fiume. Non tornavamo mai a mani vuote, anche se lo zio Gino era sempre un po' evasivo con mia madre e con la zia sulla provenienza del pesce. Una volta che venne intercettato dalle guardie mentre tornava da una pesca di frodo, si difese così: “Mì, pescà de sfros? Ma se g'ho gnanca la licensa!” Lo zio Gino è stato l'uomo più sfacciato e divertente che abbia conosciuto nella mia vita.
Mio padre era più riservato. Si dedicava al lavoro -era operaio alla Breda-, alla lettura e alla famiglia. Quando non lavorava mi costruiva giochi di legno che usavamo insieme fino a perdere il senso del tempo, ore leggere, bellissime.
E’ morto di leucemia in pochi mesi quando avevo vent'anni. Passai quella sera al cinema, non ricordo neanche a vedere cosa, un dolore troppo grande per affrontarlo nel viavai dei parenti e degli amici che venivano in casa per le condoglianze.
In questo periodo, mi torna spesso in mente, Mario si chiamava. Mi è capitato di sognarlo o di sentirmelo accanto, una sensazione dolcissima che non ricordo di aver mai provato in sua presenza. Forse ci vuole del tempo per capire l'amore.
In famiglia erano tutti antifascisti. Avevano vissuto sulla propria pelle quel periodo e alla sera, ogni tanto, raccontavano di quando suonava la sirena e dovevano scappare al rifugio, la paura per i bambini, il lavoro in fabbrica per produrre le munizioni, le code delle tessere annonarie. Sono stati i racconti di mia madre e di mia zia a farmi conoscere quegli anni e le ragioni del loro antifascismo convinto. Ragioni molto concrete, tangibili: i fascisti ti tenevano d'occhio se la pensavi diversamente, i fascisti picchiavano, i fascisti avevano voluto la guerra.
Ho scoperto solo più tardi, quando mio zio era ormai morto, che stava con i partigiani. In tanti si davano da fare in quegli anni e anche i miei zii ospitavano qualche compagno che doveva nascondersi o che faceva tappa a Sesto nella fuga verso chissà dove, e questo lo sapevo. Ma mio zio aveva avuto un ruolo molto attivo di cui in casa non si era mai detto niente, neanche a guerra finita, neanche quando io e le sue figlie eravamo più cresciuti.
Milano era stata bombardata e a Sesto tutti convivevano con l'incertezza. Le fabbriche di armi, come la Breda, erano tutte lì e si viveva ogni giorno con la paura che la guerra provoca sempre a chi non può fare altro che cercare di nascondersi.
Una sera, mio padre mi raccontò una storia che per me è ancora la storia della guerra nella mia città. Il 20 ottobre 1944, un bombardiere americano scaricò ottanta tonnellate di esplosivo sul quartiere di Gorla, poco lontano da Sesto. L'obiettivo era per l'appunto la Breda, ma ci fu un errore di trascrizione o di interpretazione delle coordinate in codice e, quando il pilota si accorse di non poter riprendere la direzione giusta, aveva già tutte le bombe innescate. Invece di scaricarle nelle campagne della Bassa, decise di lanciarle lì, su un quartiere abitato. Una delle bombe colpì la scuola elementare Francesco Crispi: morirono 184 bambini, 14 insegnanti, la direttrice della scuola, 4 bidelli e un'infermiera. 614 morti in tutto il quartiere.
Anni dopo, mentre ero in Afghanistan, un mattino arrivò in ospedale un'intera classe, ventitré bambini fra i dieci e i dodici anni. Venivano da Sirobi, a un'ottantina di chilometri da Kabul. Un razzo era caduto sulla loro scuola, ma nella violenza brutale dell'esplosione erano stati più fortunati, erano feriti, ma vivi. Tutti tranne uno. “La guerra non guarda in faccia nessuno": mio padre mi parlava ancora, come quarant'anni prima.
L'importanza del lavoro, la dignità, la solidarietà verso i vicini, l'idea di far parte di una comunità e che quindi in qualche modo alla comunità si dovesse rendere conto dei propri comportamenti erano pane quotidiano a casa mia.
Per il resto, è stata un'infanzia semplice: non avevamo molto, ma quello che c'era si divideva. Ed ero libero di stare in giro tutto il giorno tra le partite di pallone e qualche scherzo al vicinato.
Avevo fatto il liceo classico per scelta, ma a scuola mi interessavano soprattutto le discipline scientifiche. La medicina è almeno in parte una scienza e mi affascinava il lavoro del medico perché ha a che fare direttamente con gli esseri umani. Scelsi la facoltà di Medicina e poi la specializzazione in Chirurgia d'urgenza con il leggendario professor Vittorio Staudacher.
“Il Professore", come lo chiamavamo -la maiuscola c'era di sicuro-, aveva fondato al Policlinico di Milano il primo reparto di Chirurgia di urgenza in Europa.
Erano anni di grande vitalità al Policlinico, con tanti medici che stavano rivedendo l'approccio ai malati per cure sempre più specializzate ed efficaci. Cerano grandi cambiamenti, penso ad esempio alla creazione della medicina di urgenza, con il professor Randazzo, o al reparto di anestesia, con il professor Damia e tutto il gruppo di colleghi che sono diventati amici: Martin, Antonio, Valter...
Voglia di fare, di sperimentare, di dare il massimo: la medicina non era ancora intrappolata tra Drg e rimborsi, i medici erano medici, talvolta scienziati, certamente non manager.
Staudacher era un grandissimo clinico. Klínê in greco significa “letto” e “clinica” è la capacità di visitare il malato sdraiato, a letto, di toccarlo per capire quali sono i suoi problemi ancora prima di fare esami strumentali costosi e a volte inutili. Anzi, spesso senza neanche farli.
Bastava che Staudacher guardasse un paziente, che gli appoggiasse una mano sull'addome, per fare una diagnosi a cui non aveva pensato nessuno di noi. E che ovviamente era quella giusta.
Una capacità straordinaria che cercai di apprendere da lui e che mi è tornata utilissima in molti ospedali del mondo dove spesso non c'è modo di fare indagini sofisticate, ma solo di guardare un paziente in faccia e fargli le domande giuste. Perché, anche se non ci siamo più abituati, la medicina è innanzitutto un rapporto tra un essere umano e un altro essere umano.
Erano anni caldi nelle università di tutta Italia.
Mi impegnai da subito nel Movimento studentesco con gli studenti di Medicina.
Facevamo riunioni su riunioni, assemblee, passavamo nottate a scrivere "Medicina al servizio delle masse popolari", il giornale che distribuivamo in università, e centinaia di volantini per la manifestazione del sabato. Perché non c'era sabato che non fossimo in piazza, un appuntamento fisso per tutti.
C'erano diritti da difendere e da rivendicare, né l'Argentina né il Vietnam erano troppo lontani. Anzi. Era proprio il fatto che fossero lontani a spingerci a lottare: se non noi, chi lo avrebbe fatto? Avevamo una convinzione: i diritti sono di tutti per definizione.
Come potevamo rivendicare i diritti di noi studenti senza manifestare contro la guerra in Vietnam? Come potevo preoccuparmi del lavoro di un italiano e ignorare la sofferenza di un altro essere umano, anche se stava dall'altra parte del pianeta?
Quegli anni fecero sentire a me e a tanti altri che eravamo parte del mondo, una parte attiva, e potevamo cambiarlo. Sono di quel periodo gli amici più veri, che sono rimasti una specie di famiglia: Carlo, la persona più vicina all'idea di umanista che possa avere, Ennio ed Emi, non provo neanche a definirli, Antonio, allenatore della Nazionale di atletica, Rudy, giornalista, Roberto, medico, Bau, Max, Nico, architetti, designer, grafici… creativi, insomma. Quasi tutti di origini sestesi, adesso che ci penso. Sarà perché siamo cresciuti in una comunità operaia e solidale che, alla fine, della comunità abbiamo continuato a occuparci in qualche modo.
Il Professore guardava con simpatia il Movimento studentesco. Naturalmente ne era fuori: era un aristocratico, di fatto e di carattere, e le aule piene di rivendicazioni e di fumo non erano il suo ambiente. Eppure si capiva che ascoltava quello che avevamo da dire.
Venne a un'assemblea una volta, elegante come sempre nel suo dolcevita chiaro. L'Aula magna di Medicina ammutolì intimorita, me compreso, e lui si sedette in un angolo ad ascoltare fino alla fine. Gliene fui sempre riconoscente.
Non so se fu per questo impegno politico o per l'avidità con cui seguivo le sue lezioni, ma mi prese in simpatia. Mi scelse come uno dei suoi aiuti, il che significava disponibilità h24, ma anche una possibilità di imparare che non aveva uguali. Passavo in ospedale o in sala operatoria una grande quantità di ore tutti i giorni, non mi stancavo mai di vederlo al lavoro. Fremevo nell'attesa di impugnare io il bisturi.
Mi disse che gli piacevo perché non ero un leccaculo: me ne ero fatto un punto d'onore in un ambiente “molto competitivo" come quella scuola di specialità.
Piacergli non significava essere trattati con i guanti, anzi. Nei momenti più tesi del Movimento, appena mi vedeva al lavandino pronto per lavarmi, urlava: "Cane, cagnaccio! Ma perché mi fate aiutare dai terroristi?”. Era un suo modo di mettermi in guardia dal non oltrepassare un certo limite. Non ci avevo mai neanche pensato, a oltrepassarlo.
La medicina mi appassionava, ma la chirurgia era quello che volevo fare davvero. Mi somigliava, dopotutto. Davanti a un problema, avevo bisogno di fare.
Era una sfida continua dal punto di vista tecnico: guardavo il Professore, imparavo procedure nuove, studiavo, studiavo, studiavo perché sentivo che la sala operatoria era il mio ambiente naturale. Io che mi annoiavo facilmente, potevo stare dodici ore di fila in camice, guanti e mascherina senza neanche accorgermene. Ero già quel che si dice “un animale chirurgico".
A un certo punto, il Professore mi propose di andare negli Stati Uniti.
Iniziavo a soffrire la competizione interna e mi vedeva scalpitare per imparare qualcosa di nuovo. C'era la possibilità di andare a Pittsburgh e Stanford a studiare i trapianti di cuore, una grande occasione per imparare a fare una cosa nel posto dove si faceva meglio in assoluto.
“Non vedo l'ora," dissi. Il primo viaggio me lo regalò lui.
Già a Milano avevo iniziato a mettere il naso nel laboratorio di chirurgia sperimentale con i babbuini e i maiali, e finalmente sarei andato a studiare come si faceva nel posto che fino ad allora mi era sembrato solo un sogno lontano.
Nel frattempo avevo sposato Teresa ed era nata Cecilia, ma partii da solo. Loro rimasero in Italia e mi raggiungevano per lunghi periodi durante le vacanze, per recuperare un po' di vita insieme nei grandi parchi americani.
Le Università di Pittsburgh e Stanford erano posti fatti per studiare e lavorare.
Dentro il campus c'era tutto: alloggi, aule studio attrezzatissime, ristoranti, caffè, negozi, dall'ovvia libreria alla meno scontata ferramenta. L'idea era che tutto dovesse essere a portata di mano per non distrarre gli studenti dai loro obiettivi. Studiavo come un matto, anche perché non avevo molto in comune con i miei colleghi oltre alla medicina. Il fine settimana mi ricavavo un po' di tempo per andare in giro nella natura fantastica degli Stati Uniti.
Dopo un po' mi proposero un contratto di collaborazione stabile. Un contratto economicamente vantaggiosissimo, che in Italia mi sarei sognato anche dopo dieci anni, e avrei lavorato in uno dei primi centri trapianti al mondo. Ambiente, colleghi, attrezzature, fondi, c'erano pochi posti al mondo che avrebbero potuto competere.
Ci pensai su un paio di giorni e poi decisi: gli Stati Uniti non facevano per me. Che senso ha praticare la medicina in un Paese dove per potersi curare la gente deve tirare fuori la carta di credito? Nessuno, a meno che far soldi non sia il tuo obiettivo, e di sicuro non è mai stato il mio.
Tornai a Milano dopo quattro anni con un'esperienza sui trapianti cuore-polmone che avevamo in pochi. Con il Professore, avevamo deciso di sperimentare il primo trapianto di cuore. Anche se in Italia non c'era ancora una legge che consentiva il trapianto di cuore, la nostra équipe aveva ricevuto dal giudice il permesso di intervenire su una donna in condizioni molto critiche. L'intervento arrivò al termine, ma la donna morì dopo l'impianto. La strada da percorrere era ancora lunga, però il primo passo era fatto. Negli anni seguenti ebbi altre esperienze in giro per l'Italia e il mondo e poi per puro caso, per il desiderio di fare qualcosa di diverso, mi trovai a lavorare in un Paese in guerra.
Rileggo queste pagine e mi chiedo perché le ho scritte. Forse per far contento l'amico Carlo Feltrinelli, che voleva che scrivessi un'autobiografia, o perché queste sono le radici che mi hanno tenuto saldo ovunque sia andato nel mondo: l'antifascismo, la politica, la militanza, la passione per la medicina.

 

Gino Strada, 2021.