Dal Vietnam a Gaza.

 

 

 

 

C’è un filo che collega le guerre imperiali contemporanee, dal Vietnam a Gaza. Il filo dell’autolesionismo di chi le scatena, cioè della stupidità dei loro perpetratori, intrecciata con l’oscenità dei loro effetti sulla popolazione civile e sugli stessi combattenti.
Il detto di Clausewitz che “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” è molto popolare. Ma è anche molto logoro, perché a ben vedere è una mezza verità, che vale solo per le guerre di conquista, scatenate da un potere imperiale in espansione, la cui politica estera consiste nella predazione di risorse altrui e nell’intimidazione dei concorrenti attuali o potenziali.
La guerra si tramuta poi in una gravosa necessità nel momento in cui la politica del vincitore è diventata quella di salvaguardare il bottino dalle mire dei competitori e dalla reazione armata degli assoggettati.
Ma è nel momento del declino di una potenza egemone che la guerra divorzia dalla politica, ed è costretta a mostrare la sua natura più profonda, cioè la sua oscenità e stupidità assolute. Oscenità per lo scempio di vite innocenti e di soldati causato da operazioni militari sempre più sbagliate e sconsiderate. E stupidità nel senso di un danno che lo stupido – secondo i manuali sul tema – infligge a se stesso oltre che agli altri.
Gli imperi declinanti tendono a fare delle guerre inutili, prive di un lucido calcolo dei costi e dei benefici. Avventure che si risolvono in disastri che accelerano anziché rallentare la fase terminale della loro supremazia. Dal Vietnam a Gaza, si sono combattuti conflitti che il più forte poteva evitare se la nebbia della stupidità, emessa copiosa dagli interessi industriali e militari in gioco, non ne avesse compromesso la capacità di giudizio.
C’è qualcuno in grado di dimostrare quale vantaggio abbiano tratto gli Stati Uniti dalla guerra del Vietnam? Il cosiddetto “effetto domino” –cioè il contagio che una vittoria dei vietcong comunisti avrebbe inferto all’Asia e che avrebbe imposto l’intervento militare in quel Paese in nome del mondo libero– non si è visto. Non c’era prima, e non si è manifestato dopo la sconfitta e il ritiro delle truppe americane al prezzo di 58 mila morti da un lato e tre milioni dall’altro.
Ancora più inconsistente è stata, poi, la motivazione dell’invasione dell’Afghanistan nell’ottobre 2001, un mese dopo l’11 settembre. Quel Paese è stato attaccato perché non si poteva attaccare l’Arabia Saudita, patria di 15 dei 19 dirottatori contro le due Torri. I talebani non avevano avuto alcun ruolo nell’attentato, la cui matrice saudita era subito emersa, ma doveva essere nascosta perché di possibile grande imbarazzo per il presidente in carica e per la famiglia Bush in rapporti di affari decennali con l’establishment saudita, famiglia Bin Laden inclusa. L’occupazione si è conclusa 20 anni dopo con una sconfitta militare, politica ed economica senza attenuanti. E con il ritorno dei talebani.
Due anni dopo è stato il turno dell’Iraq, invaso e occupato perché il suo governo avrebbe detenuto armi di distruzione di massa. Mai trovate dopo l’invasione perché mai esistite. Il danno politico autoinflitto qui è consistito in un cambio di regime risoltosi in un governo iracheno favorevole all’Iran, cioè al maggiore avversario degli Stati Uniti nella regione. Il danno economico è stato quantificato in quasi 2.000 miliardi di dollari finiti nelle fauci dell’industria militare e in un contributo al super-indebitamento di Washington. Con la ciliegina sulla torta –come ammesso da Obama nel 2015– della nascita dell’Isis come effetto della guerra.
L’assalto alla Siria di Assad nel 2011 è stata una guerra largamente per procura, dove gli Usa di Obama hanno armato e finanziato formazioni terroristiche sunnite riconducibili ad al Qaeda e a quelle degli autori dell’11 settembre. Ne è risultata una guerra civile da 500 mila morti, terminata con l’intervento della Russia e dell’Iran a fianco di Assad, che è adesso al potere più forte di prima.
Ucraina. È vero che è stata la Russia ad attaccare l’Ucraina in risposta a 30 anni di espansione minacciosa della Nato fino ai suoi confini. Ma lo scontro poteva durare solo poche settimane perché Mosca e Kiev avevano raggiunto un accordo secondo cui i russi avrebbero ritirato le proprie truppe in cambio della neutralità dell’Ucraina. Com’è noto, l’accordo fu sabotato dall’intervento dell’Europa e degli Stati Uniti, che hanno trasformato il conflitto tra Russia e Ucraina in una guerra tra Nato e Russia. La quale sta emergendo vittoriosa sia sul piano militare sia su quello politico, godendo della neutralità o dell’appoggio della “maggioranza globale”, cioè del 90% degli Stati del pianeta.
Valeva la pena di aggiungere 300 mila morti e la devastazione dell’Ucraina alla lista delle sconfitte imperiali?
Anche il conflitto tra Israele e palestinesi di Gaza è guidato dalla sindrome autolesionista di un impero che tramonta. Lo Stato di Israele e le sue forze armate sono tenuti in piedi dal sostegno incondizionato del governo Usa, che è il decisore di ultima istanza di ciò che fa Tel Aviv. Siccome tutto lascia pensare che Hamas non sarà distrutto né militarmente né politicamente perché ha già raggiunto i suoi obiettivi –la propria sopravvivenza dentro e fuori Gaza, il ritorno della questione palestinese al centro dell’agenda politica mondiale, la fine del mito dell’invincibilità dell’esercito di Israele e dell’infallibilità della sua intelligence– è il caso di continuare a seguire un altro canone della stupidità? Quello definito da Einstein come la pretesa di ottenere risultati diversi ripetendo sempre la stessa azione. Dal Vietnam a Gaza.

 

Pino Arlacchi, 2023.