Muhammad Alì.

 

 

 

 

"Float like a butterfly, sting like a bee". Non c'è sportivo o protagonista del nostro tempo che abbia travalicato i confini del suo ambiente, del suo mondo come Mohammad Alì -Cassius Clay- per diventare un simbolo positivo, una persona accettata da tutti, anche da chi, negli anni sessanta, lo detestava per quella presunzione di voler essere molto più del grande pugile che era, molto più di quel meraviglioso innovatore della boxe, alla quale aveva tolto violenza e regalato spesso le movenze di una danza, la gioia di una festa, lo stile quasi di un'arte.
All'epoca lui, giovane pugile di Louisville, apparentemente superbo, aveva voluto dar voce, approfittando della sua fama, ad un popolo, quello di milioni di afroamericani che 38 anni fa, contavano ancora poco, faticavano a far valere i propri diritti, non avevano ancora conquistato negli Stati Uniti una compiuta emancipazione.
"Chi avrebbe mai dato retta a un ragazzo nero nato in Kentucky, figlio di un artista di strada che disegnava santi sui marciapiedi, se non avesse conquistato contro quel "cattivo" di Sonny Liston, nel '64, il titolo di pugile più forte del mondo?" Mi ha risposto beffardo Muhammad Alì un giorno che cercavo di capire il perché dei suoi antichi comportamenti.
E ha continuato: "Le mie qualità di pugile tecnico, veloce di gambe e di braccia, innamorato della fantasia, insomma il mio modo di stare sul ring e di provocare l'avversario più con gli atteggiamenti irridenti che con la volontà di fargli male, non sarebbe servito a niente se io non avessi capito quasi subito che dovevo utilizzare i mezzi di comunicazione invece di farmi usare, se veramente volevo rendere manifesto il mio disagio, la protesta, il dolore, le richieste, l'orgoglio della mia gente. Dovevo utilizzarli quei microfoni che mi buttavate davanti alla bocca, dopo le mie vittorie. Dovevo sputare le mie sentenze, le mie sfide possibili o esasperate sui vostri taccuini, cercando di precedere le vostre domande, imponendo i miei argomenti ai vostri. Così forse ho contribuito alla presa di coscienza e alla crescita della mia gente perché ho cercato di cambiare il rapporto fra un pugile, un atleta e la società in cui vive. Allora molti non me lo perdonavano.
Ora la più grande soddisfazione della mia vita è di essere stimato anche da quella metà dell'America che non mi amava, che mi detestava perché non mi capiva, che mi chiamava "comunista" perché mi rifiutavo ad andare a combattere in Vietnam in nome, invece, della mia fede religiosa, quella dei musulmani neri".
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"Adesso tutti hanno capito la mia buona fede e la morale delle mie battaglie.
E sono dispiaciuti del torto che ho subito quando, nel '67, fui privato del titolo mondiale, cioè del mio lavoro, per quel rifiuto alla guerra in Vietnam e riammesso a combattere nel '70, dovetti aspettare fino al '74 per riprendermi, contro Foreman, il titolo che nessuno mi aveva mai tolto sul ring. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha cambiato la legge sull'obiezione di coscienza a causa del mio caso.
Tutto questo non sarebbe accaduto se io non avessi tentato di essere non solo il pugile che ero, ma anche l'uomo che volevo essere".
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Fu in quegli anni, contraddittori ed entusiasmanti per gli Stati Uniti, che conobbi Cassius Clay, poco prima che rifiutasse questo nome "imposto ai suoi avi portati schiavi dall'Africa dal padrone bianco", per scegliere quello di Muhammad Alì. Affascinato dalle teorie di Malcom X, scelse di militare nei "Black Muslims", movimento allora antagonista al governo nel panorama politico degli Stati Uniti. L'incontro con Malcom X lo aveva convinto anche a cambiare identità. Poco prima di incontrare proprio Sonny Liston. Perché lo fece? "Perché la religione dei Musulmani Neri mi permise di conoscere la mia identità, le mie radici, di quale mondo facevo parte e anche di capire finalmente quali erano i miei diritti.
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Ho seguito l'avventura sportiva e umana di Cassius Clay poi diventato Muhammad Alì per più di trent'anni. Non l'ho mai visto tradire il suo impegno, il suo spirito indomito. All'epoca della guerra del Golfo, nel '91, andò in Iran, forte della sua fede islamica e ottenne da Saddam Hussein la liberazione di un centinaio di cittadini degli Stati Uniti. Due anni fa è stato anche a Cuba, con una delegazione della Croce Rossa per portare aiuti umanitari. Lo scortava per tutta l'Isola Teofilo Stevenson. Tre volte olimpionico nei pesi massimi, l'avversario predestinato per il "match del secolo" che non si svolse perché Stevenson, fedele al socialismo cubano, non passò mai al professionismo. Muhammad, come altri, si sforzava in quel momento, di trovare una soluzione per risolvere l'ormai antistorico embargo degli Stati Uniti verso l'isola di Castro. Anche in quel frangente il campione di Louisville era coerente a se stesso, in un'epoca dove tutto è in vendita o, se non è in vendita, si può affittare.
  
Gianni Minà, 1999