L’appetito edonico.
Il cibo? Una droga. Non è una provocazione ma scienza, a giudicare dal moltiplicarsi di studi sul tema. Uno dimostra che lo zucchero stimola i centri di ricompensa del cervello come gli stupefacenti. Un altro, che i cibi ad alto contenuto di grassi aumentano il rilascio di endocannabinoidi, come la marijuana. E così le cavie alimentate con grassi e poi messe a digiuno vanno in astinenza e, quando il cibo torna, ne divorano oltre il 20% in più. Zuccheri e grassi modificano anche il cervello umano. Quello di ragazzini che adorano il milkshake al cioccolato è stato fotografato mentre lo gustavano: avevano bisogno di dosi sempre maggiori perché i centri di ricompensa indicassero che erano soddisfatti.
Dunque, siamo destinati a dipendere a vita da alcuni cibi? Risponde lo psichiatra e neurologo Armando Piccinni, docente e clinico all'Università di Pisa, autore del nuovo libro "Drogati di cibo. Quando mangiare crea dipendenza" (Giunti).
Drogati di cibo: in che senso?
"Cibo, acqua e sesso sono stimoli primari, utili per la sopravvivenza del singolo e della specie. Soddisfarli dà gratificazione. Ma un conto è l'appetito alimentare, regolato da meccanismi che inducono a fermarsi raggiunta la sazietà; un altro è l'appetito edonico, più difficile da arrestare, che si alimenta di esperienze gustative piacevoli ed espone al rischio di dipendenza.
Una volta trovato il cibo che soddisfa il palato si innesca la coazione a ripetere. E da qui alla dipendenza il passo è breve. Ci si rinchiude in una stanza dove l'appetito edonico regna sovrano, e tutto il resto viene offuscato dal bisogno".
Non tutti i cibi danno dipendenza.
"Soprattutto gli zuccheri danno una stimolazione dopaminergica forte: la sostanza è il principale neurotrasmettitore del circuito della ricompensa, che raccoglie stimolazioni piacevoli (come quelle derivate da alcol o dolci) e le porta a livello di coscienza. Consumare carboidrati riduce la tensione e dà una calma che dura circa due ore. Mangiarli ripetutamente produce un adattamento nei circuiti di ricompensa, che causa ansia o depressione quando quel cibo non è disponibile".
È così che l'industria crea a tavolino il cibo perfetto?
"È il giusto mix tra dolce, grasso e salato a rendere snack e patatine irresistibili. Nella panna montata, l'equilibrio tra grassi e zucchero è fondamentale perché sia iperappetibile e non sgradevole. Un gioco di proporzioni studiato dai food designer.
In "Perché mangiamo troppo (e come fare per smetterla)", edito da Garzanti, David Kessler, pediatra che fu ai vertici della Food and Drug Administration Usa, racconta come l'industria persegue l'obiettivo. Nelle bevande gasate, per esempio, la componente zucchero non deve superare il 10%".
Come agisce il comfort food, cibi che consolano?
"C'è il cibo che sazia e quello che tranquillizza. Posso non aver più fame dopo un panino al prosciutto, ma sentirmi inquieto finché non mi appago con un marron glacé. Il cibo che tranquillizza è quello che dà craving, desiderio ripetuto. Di solito è un dolce, ma a volte pizza o patatine. Il cibo serve ad automedicarsi, è un potente farmaco, soprattutto contro lo stress di cui soffrono in Italia, ci dice l'Associazione nazionale italiana farmaceutica dell'automedicazione, otto persone su dieci. Le persone cercano i cibi che calmano ansia e insoddisfazione, innalzano il tono dell'umore e delle energie disponibili. Quasi sempre quelli industriali, più ricchi di grassi e carboidrati. I comfort food stimolano le aree cerebrali collegate alla percezione del piacere. Sono localizzate nella parte anteriore del nucleus accumbens, un sistema di neuroni situato davanti all'ippocampo e coinvolto anche nei meccanismi delle dipendenze. Sono due, in realtà, i sistemi coinvolti. Quello dopaminergico ci fa prendere l'auto smaniando per il budino di riso del pasticcere del paese vicino. L'altro è il sistema oppioide, che si attiva quando gustiamo il budino. Il sistema dopaminergico di chi ha una dipendenza alimentare è meno sensibile, ha meno recettori, e quindi ha bisogno di stimoli più forti per raggiungere la stessa gratificazione".
Craving e addiction: la differenza?
"Ognuno di noi ha un conto in sospeso con l'alimentazione. Secondo studi canadesi, inglesi e americani, cento giovani donne su cento e 70 giovani uomini riferiscono una o più esperienze di food craving. Quello per il cioccolato è presente nel 40% delle donne e nel 15 degli uomini. Il craving è la bramosia, il desiderio intenso, il bisogno impellente. L'addiction è una perdita di controllo, una dipendenza che ha bisogno di aumentare le dosi e, se non soddisfatta, dà astinenza. L'associazione americana Yale's Rudd Center for food policy and obesity ha messo a punto una scala di valutazione della dipendenza. Sicuramente qualcosa ci suona familiare: "Quando attacco con alcuni alimenti, finisco per mangiarne più del previsto". Oppure: "Continuo anche se non ho più fame". O: "Voglio ridurre o eliminare certi cibi"".
Siamo geneticamente determinati a dipendere?
"L'epigenetica sta dimostrando che il determinismo genetico non esiste. Le interazioni con l'ambiente sono più importanti. Pensiamo all'imprinting materno, quello ti che fa apprezzare la salsa alla vaniglia anche da adulto, se da neonato hai preso un latte artificiale con vaniglia. Pensiamo anche alle influenze delle religioni, ma soprattutto all'educazione alimentare. Negli USA
ci sono dodicenni con placche aterosclerotiche nella carotide: se continuiamo a esporre i bambini a messaggi che danno al frollino un valore morale (la famiglia felice intorno al tavolo della colazione imbandito), ne diventeranno dipendenti".
E per chi già è dipendente?
"I nuovi studi mostrano che il nostro concetto di dieta è inutile e sbagliato. Togliere i cibi senza tener conto di ciò che il cervello richiede significa andare incontro a fallimenti continui. Il programma va personalizzato, tenendo conto dell'appetito edonico, affettivo, che ci fa desiderare la torta di mele.
Daniela Condorelli, 2012