Mediterraneo.

 

 

 

 

Si tratta di nuovo di una scampagnata maschile, una cameratesca vacanza generazionale (otto soldati che Montini descrive "più o meno in quell'età in cui non hai ancora deciso se mettere su famiglia o perderti per il mondo") in cui il gruppo (che in "Marrakech"doveva ri-costituirsi) deve costituirsi ex novo, come il paese dall'altra parte del mare lacerato dalla guerra.
"Mediterraneo" racconta la storia di una guerra dalla quale la guerra è esclusa, mette sullo schermo delle dinamiche di gruppo di soldati in un contesto diverso da quello abituale, e lo fa con un progressivo svuotamento delle caratteristiche tipiche del war movie: l'allontanamento del conflitto e delle armi, lo sgretolamento delle gerarchie militari, la chiave comica con cui vengono smontati gli episodi bellici (l'uccisione dell'asina, l'aggressione da parte di un "plotone" di galline, la gag delle parole d'ordine) e più di tutto, nell'inversione del logico epilogo della guerra: non la morte, ma la rinascita, con l'amore tra Farina e Vassilissa.
È comunque un film di guerra, contro la guerra, ponendo in rilievo le difficoltà per lo sradicamento della propria patria unendo il tutto allo spettacolo e alla bellezza della natura. Il film appare come una "storia", all'apparenza discostata dai temi generazionali a cui ci ha abituati Salvatores, ma ha comunque le varie facce di una generazione che va dai trenta ai quaranta anni.
La voglia di fuga di un gruppo di uomini che loro mal grado sono costretti ad una guerra di cui sono poco convinti, è la chiave di lettura di questo film fuori schema di Salvatores, che è raffinato e sobrio soprattutto in termini di equilibri tra i contenuti e lo stile del racconto. La narrazione drammatica e intercalata da piccole brillanti interpretazioni, è condotta con molta maestria tanto da far risaltare personaggi e situazioni nel bianco accecante di questa isola greca.(Rita Plebeni)
L'isola fornisce infatti una cornice ambientale abbastanza forte e vincolante da orientare lo sviluppo dell'azione verso percorsi più o meno obbligati (il naufragio, la lotta per la sopravvivenza, l'incontro-scontro con gli eventuali isolani, la fuga per mare), articolando sul piano simbolico poche grandi opposizioni: sacro/profano, natura/cultura.(Monica D'Alasta)
Attraverso questa storia (e all'epilogo, ambientato nel presente, vale a dire il futuro dei protagonisti) Salvatores racconta i sogni di una generazione che ha combattuto per la liberazione dell'Italia e che ha avuto (o creduto di avere) la possibilità di ricostruirla da zero. Ma è una generazione che al suo rientro si scontra con l'impossibilità di cambiare il vecchio, concetto che è racchiuso nella frase che Lo Russo (Diego Abatantuono) pronuncia al suo ritorno sull'isola: "Non ci hanno lasciato cambiare niente. Allora ho detto: avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice." Questa frase (assieme all'epigrafe iniziale e alla dedica finale) ha contribuito a creare il mito di Salvatores come il regista della fuga, a definire "Mediterraneo" come l'epilogo della trilogia della fuga: probabilmente più che alla fuga, questo film fa riferimento alla sconfitta. Salvatores mira a recuperare la sospensione del tempo, l'atmosfera di incantamento che avvolge i protagonisti e li estranea. La sua è una visione ottimistica,"consolatoria", è stato detto: "il suo mondo dell'utopia è un mondo che dimentica la guerra e ritrova un senso panico della felicità del vivere".(Mirella Poggialini).
"Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l'andatura di cappa, che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il vento in poppa. La fuga è spesso il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire terre sconosciute che spuntano all'orizzonte dalle acque tornate calme. Rive che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l'illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca che si chiama desiderio...". Così scrive Henri Laborit nel suo "Elogio della fuga". Un libro che ci ha accompagnato nel nostro viaggio durante questo film.
Mediterraneo, in particolare, è un film sulla fuga. Ma non la fuga intesa come vile rifiuto delle responsabilità, bensì la fuga, per usare un termine desueto, intesa come protesta. La fuga da una situazione che non ti piace e nella quale non riesci a trovare un tuo luogo, verso un luogo nuovo dove costruire una realtà migliore. Non occorre trovare isole deserte: si può "fuggire" anche all'interno della propria coscienza, lontano dalla volgarità e dalla superficialità di questi anni. La mia generazione è "fuggita" molte volte durante la sua storia, in vari modi, a volte disastrosi, a volte meravigliosi... Questa è la fuga di cui parla il film: c'è questa ambiguità, in una vicenda ambientata nella seconda guerra mondiale, 1941, ma che io spero riesca a parlare di noi. La guerra è da vedere solo in termini metaforici: è appunto la situazione-limite. Ma i personaggi parlano, con un linguaggio assolutamente contemporaneo, di problemi nostri. Per me era molto importante il fatto di prendere gli attori e portarli su di un'isola molto lontana, perché volevo che facessero lo stesso tipo di esperienza dei loro personaggi: infatti così è stato, con crisi anche pesanti da parte di alcuni di loro, all'inizio. (Gabriele Salvatores)
 
AA.VV citati, 1991