Greenwashing.

 

 

 

 

Il termine deriva dalla fusione delle parole green e washing, in definitiva un bel lavaggio verde. Sta a indicare il fenomeno con il quale le aziende mostrano un'attenzione verso la natura che in realtà non hanno, ingigantendo le loro iniziative verdi alfine di dare un'immagine di sé positiva o di coprire eventuali responsabilità per comportamenti ambientali negativi. Marketing, insomma. D'altra parte i pubblicitari lo sanno bene: ormai sono la maggioranza i consumatori che stanno attenti ai messaggi che contengono riferimenti ambientali, che denotano attenzione da parte delle aziende per natura e sostenibilità. La responsabilità sociale nei confronti dell'ambiente è diventata un fattore di marketing determinante, nessuna grande azienda si presenterebbe ai clienti senza credenziali verdi.
Ad esempio ha fatto discutere la campagna di qualche anno fa di Eni con la quale il colosso italiano dell'energia invitava i propri dipendenti a non portare la cravatta d'estate in uffcio così da evitare che si abbassasse di un grado la temperatura di tutti i condizionatori: una mancata emissione di circa 140 tonnellate di anidride carbonica. Tali emissioni equivalgono però a quelle prodotte da soli quindici italiani all'anno, mentre le emissioni di Eni e dei suoi circuiti produttivi (produzione elettrica compresa) sono di centinaia di milioni di tonnellate di CO2. Altro che cravatte.
Ferrarelle, invece, aveva messo in commercio delle bottiglie che portavano la scritta "impatto zero" sull'etichetta e si era impegnata a creare e tutelare nuove foreste, così da compensare la CO2 emessa. Ma il Giurì nel 2011 ha censurato la pubblicità del marchio: la frase "impatto zero" sarebbe ingannevole perché lascia intendere che la CO2 è interamente compensata, e questo non'è vero.
A prima vista il greenwashing è una via di mezzo tra una moda e un trucco dei soliti furbetti, ma gli esperti sostengono che in realtà è proprio un male per l'ambiente perché può indurre i consumatori in buona fede a adottare comportamenti o acquistare prodotti contrari alla causa ambientale. E per di più il greenwashing può nuocere gravemente alla credibilità delle aziende e dei prodotti perché, se da una parte i consumatori sono sempre più sensibili alle promesse che riguardano l'ambiente, dall'altra diventano molto severi verso chi approfitta di questa disponibilità. Infine questa pratica può generare sfiducia verso le politiche verdi in generale, anche di aziende che le adottano seriamente e responsabilmente. Dunque nei tempi medi e lunghi il greenwashing si rivela una pessima idea.
Gli antidoti, come spesso accade, arrivano dai paesi anglosassoni. Negli Stati Uniti, dove il termine greenwashing è ormai parola comune, esistono diversi siti internet che mettono in allerta i consumatori. GoodGuide, creato dal Mit, classi?ca molti prodotti di consumo dando un giudizio secondo tre parametri: salute, ambiente e sociale. Green Wikia, come i suoi fratelli Wikia e Wikipedia, invece si basa sul crowdsourcing, la partecipazione di tutti gli utenti. Ma la denuncia pubblica del falso-green ha i suoi paladini almeno dal 2007, cioè da quando Kevin Tuerff ha creato Greenwashing Index, un sito in cui i consumatori inseriscono direttamente il loro giudizio. Per contrastare questo fenomeno molti paesi hanno inoltre adottato norme anti greenwashing. Nel nostro, invece, sul fronte legislativo siamo ancora all'età della pietra.
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Tuttavia non sempre i tentativi delle multinazionali di promuovere situazioni nelle quali venga fuori la loro anima ambientalista funzionano. Ad esempio, ha fatto scandalo nel marzo 2012 il goffo tentativo del gigante minerario Vedanta Resources di ripulirsi l'immagine grazie a un concorso cinematografico lanciato a Bollywood in cui diversi docu-film avrebbero dovuto raccontare la "felicità" che la compagnia porta alle comunità locali. L'azienda britannica tentava così di recuperare la credibilità internazionale perduta negli ultimi anni.
Gli aspiranti cineasti, accompagnati dalla stessa Vedanta a visitare le aree in cui opera la compagnia, avrebbero dovuto documentare gli effetti positivi della sua presenza, ma la realtà raccontata dalle organizzazioni indipendenti era completamente differente. Per sfruttare i giacimenti di bauxite presenti sulle colline di Niyamgiri, nello Stato indiano di Orissa, la compagnia aveva ignorato i diritti della popolazione Dongria Kondh che vive nella regione. La miniera a cielo aperto di Vedanta aveva devastato le foreste, i fiumi che scorrono nel territorio nonché l'identità e la cultura dei Dongria Kondh, mettendo fine alla loro esistenza.
L'attrice Gul Panag, incoronata Miss India nel 1999, dopo aver appreso del coinvolgimento di Vedanta attraverso i social network, è voluta uscire dal progetto. Il regista Shyam Benegal, i cui film hanno ricevuto nomination a grandi festival internazionali come quello di Cannes, si è ritirato per motivi analoghi. Il concorso faceva parte di una più ampia campagna di comunicazione di Vedanta denominata Creating Happiness (Creare felicità), diretta dall'agenzia pubblicitaria internazionale Ogilvy & Mather. Ma alla fine si è rivelata un boomerang.
Esistono anche altri casi. Nel mirino dei blogger che custodiscono l'ortodossia ambientalista sono finiti, per esempio, grandi marchi dell'industria automobilistica, come Audi e Renault, che presentavano alcuni loro modelli come fenomeni di sostenibilità equiparandoli, sul piano delle ricadute ambientali, perfino alle biciclette. In realtà, secondo un rapporto dell'organizzazione Transport & Environment, che si basa sui dati ufficiali della Commissione europea, alcune case automobilistiche sono ancora molto lontane dagli obiettivi fissati dall'Ue per il 2012 e il 2015. "Il primato per le emissioni medie più alte -si legge- spetta a Daimler-Mercedes, con ben 175g/ km di CO2, mentre la media attuale delle emissioni dei costruttori europei è di 153 grammi per chilometro, molto lontana dai 140 g/ km che dieci anni fa le case automobilistiche avevano promesso di raggiungere entro il 2008."
Ma il caso di greenwashing probabilmente più clamoroso è quello che ha visto protagonista la British Petroleum, la seconda società petrolifera del mondo. Scavando nei bilanci di questa multinazionale, dopo il disastro ambientale avvenuto nel Golfo del Messico nell'estate del 2010, si è scoperto che soltanto un anno prima la Bp aveva investito centinaia di milioni in una campagna che aveva lo scopo di "ripulire" la sua immagine con lo slogan "Beyond Petroleum››, ("oltre il petrolio, che sovrappone le iniziali Bp a quelle della società), teso a sottolineare un significativo spostamento del fatturato verso le fonti energetiche alternative. Nei fatti restano i 60.000 barili al giorno di greggio riversati nel Golfo del Messico che le sono costati 4,5 miliardi di dollari di multa, la più alta mai pagata per un danno ambientale.
Perfino i burocrati dell'Unione europea ci sono cascati. A Bruxelles, infatti, viene periodicamente assegnato il marchio di qualità ecologica Ecolabel alle aziende più rispettose dell'ambiente. Peccato però che tra le tremila società alle quali è stato concesso di recente ci fosse anche l'indonesiana Pinto Deli di proprietà della Asia Pulp and Paper (App), un colosso nel settore della carta, finita sul banco degli imputati per aver distrutto un milione di ettari di foreste solo nella zona di Sumatra.
Guardando le nostre Federica Pellegrini o Valentina Vezzali alle Olimpiadi di Londra 2012 magari non ci avete fatto caso. Neanch'io. Ma poi ho scoperto che ai Giochi è stata assegnata anche la medaglia d'oro per il greenwashing, un riconoscimento all'ipocrisia verde assegnato via internet dalle organizzazioni ambientaliste inglesi London Mining Network, Bhopal Medical Appeal e Uk Tar Sands. Sono state loro a lanciare la campagna Greenwash Gold 2012. Le tre associazioni non hanno digerito la scelta degli sponsor per le gare olimpiche, in particolare la solita Bp (quella della marea nera del Golfo e dello sfruttamento delle sabbie bituminose del Canada), Dow Chemical(che ha acquistato la Union Carbide, da cui uscì la grande nube tossica di Bhopal in India) e la Rio Tinto (proprietaria di una miniera a cielo aperto negli Usa accusata di violazione delle leggi sull'inquinamento atmosferico, tanto che, secondo il quotidiano britannico "The Independent››, il 30 per cento circa delle 1000-2000 morti annuali dovute all'inquinamento nello Utah è causato dalle esalazioni di questa miniera).
Le tre aziende -secondo le associazioni inglesi- hanno sborsato fior di quattrini per riverberare sulla propria immagine l'ombra verde delle Olimpiadi londinesi, presentate dagli organizzatori come "le più etiche della storia".
  
Valentina Furlanetto, 2013