Happy hour.

 

 

 

 

Premessa: Non amo, anzi per essere precisi, non sopporto gli "happy hour" con abbondanza di stuzzichini, varianti miscele bibitorie con annesso rituale, probabilmente per ragioni anagrafiche e sociopatiche. Non ho mai frequentato neanche l'aperitivo tradizionale, salvo sporadiche eccezioni, ma rammento con nostalgia il Camparino, il bianchino spruzzato o no con tre olive, vermouth liscio o con soda, nei bar e ritrovi della Milano popolare che fu. Riporto l'articolo di seguito perché analizza il fenomeno alla grande, in modo dotto, divertente, arguto.
È più di un aperitivo e meno di una cena. Ma occupa il tempo dell'uno e dell'altra insieme. L'happy hour è il nuovo timer delle ore liete. Un orologio postmoderno che segna intervalli liquidi, qualità temporali diverse e non quantità uguali. Una aritmetica pop che allunga le giornate del cittadino globale e trasforma l'ora che volge al desio in un tramonto rosso spritz. Producendo un'inedita misura del tempo individuale e sociale, una riforma del calendario quotidiano. E introducendovi cadenze e liturgie collettive che incarnano lo spirito del presente. Modulare, flessibile, interinale.
Ma anche libero di inventare tradizioni fusion, cerimoniali del vivere insieme fatti con pezzi di passato e scampoli di futuro. L'aperitivo lungo è un rito che accomuna le tipologie sociali affluenti. Facendone affiorare usi e costumi. Nonché nuove categorie del pensiero, come quella di lounge, che significa un po' tutto, dal salotto a un tipo di musica, dal perdere tempo al rilassarsi. Un vero ausiliare del linguaggio globale. I singles, quelli di andata e quelli di ritorno, trovano nel lounge drink uno spazio di relazione e un'occasione di incontro sottratti alla frettolosità dell'aperitivo mordi e fuggi come ai formalismi troppo impegnativi e costosi della cena. Il popolo della notte, che da sempre confonde i tempi e le ore, ne fa una piattaforma euforizzante da cui lanciarsi a capofitto nella movida. L'umanità I-life, galassia di androidi iperconnessi, il suo cosmopolitan lo beve straniata, quasi in second life. E nella leggerezza incorporea delle antenne tecnologiche trova la quadratura del cerchio tra comunicazione e partecipazione, tra relazione face to face e contatto face to facebook. E persino le giovani coppie trasformano lo street bar in un'oasi esonerante dove riassaporare un vivere easy e spensierato, quasi una forma di sospensione extraterritoriale delle responsabilità.
Gli ex ventenni che una volta bevevano bianchetto, birretta e prosecchino adesso tengono famiglia, a volte più d' una. Ma non per questo intendono tirare i remi in barca e si bevono il loro mojito con pargoli al seguito. Al punto che molti bar hanno adottato i tavolinetti bassi, più Ikea che Montessori, per tenere impegnati i pupi con colori e giocattoli. E allettarli con salatini, pizzette e patatine che barattano il silenzio assenso infantile con una licenza di uccidere alimentare. Genitori performanti e bambini concilianti. Forever young gli uni, forever junk gli altri.
Insomma, il motivo è sempre lo stesso. Unificare funzioni, ottimizzare tempi, ridurre all' essenziale le formalità. E, quel che più conta, produrre il massimo delle relazioni nel minimo del tempo e, possibilmente, del denaro. Sei già dentro l'happy hour, vivere costa la metà, parola di Ligabue. E l'illusione del lusso democratico per qualche ora diventa realtà. Sia pure in una sorta di multiproprietà. Tra divani avvolgenti, lampade vintage e cristalli design. In questi salotti a cielo aperto, il rito dell'ora felice, figlio prodigo del low cost e del last minute, funziona come un acceleratore di particelle relazionali in grado di liberare energie inaspettate. Uno shaker sociale che agita fiumi di adrenalina a prezzi stracciati. A metà tra contemplazione narcisistica ed esaltazione dionisiaca, l'aperitivo col sorriso diventa un teatro sociale dell'ebbrezza, un baccanale metropolitano officiato da barman più mitici di Ebe e Ganimede. Con tanto di adoni griffati, ninfe seducenti, muse inquietanti, fate intriganti. E Dj coribanti.
Dove a fare da mattatore è l'individualismo di massa contemporaneo che riscrive le sue categorie del gusto, le sue mitologie della socialità. E perfino le norme dell'etichetta. In questo senso l'happy hour è il vespro della regola globale, la giusta ricompensa dell'ora et labora quotidiano. Cerimoniale squisitamente postmoderno, l'aperitivo che sazia non ha nulla a che fare con una grande narrazione alimentare come la cena, né con uno zapping gastronomico come il brunch. È piuttosto una sventagliata di twitter da bere, da mangiare, da scambiare. Un insieme di miniracconti da scrittori esordienti. Vite sceneggiate. Dialoghi in attesa di regia per pratiche in attesa di teoria. Più community che comunità. Non più aperitivo non ancora cena.
L'happy hour è insomma la transizione in un bicchiere, anzi due al prezzo di uno. Per un verso è l'aperitivo che tracima sulla cena con i suoi tempi mentre la seconda inonda il primo con i suoi cibi, le sue bevande, i suoi comportamenti. Ma per l'altro verso è molto di più di un modo nuovo di vivere il bar. È una cerimonia sociale sincretica che rimescola tempi e sapori, persone e abitudini, mode e modi. Ed è una metafora del nostro presente in rapida trasformazione, nonché un simbolo anticipatore del nostro futuro. Del resto l'origine stessa dell' ora felice, o meglio allegrotta, riflette la sua filosofia squisitamente liberal.
Il termine, nato negli anni Venti per indicare l'ora di intrattenimento concessa ai marines imbarcati, entra nel linguaggio comune all'inizio dei Sessanta dopo un articolo del Saturday Evening Post dedicato alla vita militare. Il resto lo fa l'atmosfera effervescente e libertaria di quegli anni. Così il tradizionale cocktail prima di cena cambia nome e forma diventando drink a costi ribassati per conciliare i ritmi di chi vuol prendere l'aperitivo tardi con quelli di chi vuol cenare presto. E soprattutto per riempire bar e pub dopo il lavoro. Come nella Londra dei Beatles e di Mary Quant.
È però solo negli anni Ottanta che negli USA e in Gran Bretagna nasce l'uso di accompagnare il drink con stuzzichini di ogni tipo per prolungare l'hour e al tempo stesso ridurre l'happyness, leggi ebbrezza. Insomma il salatino come misura antipalloncino. La profonda mutazione antropologica di quegli anni produce dunque nuovi miti e nuovi riti del bere e del mangiare in compagnia. Tempi e abitudini che innovano anche gli spazi sociali. Locali come gli street bar sono in questo senso la proiezione architettonica delle odierne antropologie del tempo libero. Soglie porose, senza più confine tra interno ed esterno, tra pubblico e privato, tra lusso esclusivo e consumo democratico.
Al punto che molti locali lounge istituzionalizzano questa divisione tra spazi personalizzati e area social. E così il rito dell'happy hour esce all' aperto e diventa paesaggio urbano. La trasformazione del tempo in denaro passa da sempre attraverso la creazione di forme spaziali. Dai fori e dalle agorà del mondo antico alle piazze dei Comuni fino ai passages e alle terrasses dei caffè che nella Parigi del XIX secolo diventano i templi di un capitalismo che ha fretta ma non rinuncia a vedere e farsi vedere. In questo senso gli street bar sono i passages e le terrasses del nostro tempo, acceleratori di economia e società. Nuovi spazi pubblici che nascono in contropiede rispetto all'implosione domestica, al ripiegamento nel privato che caratterizzano la modernità liquida.
Se la strada diventa un bar diffuso si crea di fatto uno sito collettivo inatteso. Virtuale senza essere immateriale, un'area open source, che favorisce l'interconnessione tra umanità a banda larga, una rete in carne ed ossa gettata nella polis. In questo modo internet esce dallo schermo e diventa forma di vita. E il link diventa drink.
  
Marino Niola, 2013