Filiazione e etnologia.

 

 

 

 

Gli etnologi sono sollecitati a pronunciarsi pubblicamente anche in un altro campo. Alcuni vengono chiamati a far parte delle commissioni costituite allo scopo di fornire ai governi dei diversi paesi un parere sui nuovi metodi di procreazione assistita. Davanti ai progressi della biologia, l'opinione pubblica vacilla. Al giorno d'oggi, le coppie nelle quali un coniuge è sterile o lo sono entrambi dispongono di diversi mezzi per avere un figlio: inseminazione artificiale, dono di un ovulo, utero in affitto, fecondazione in vitro con spermatozoi provenienti dal marito o da un donatore, ovulo della moglie o di un'altra donna. Bisogna autorizzare tutto? Bisogna permettere certi procedimenti vietandone altri? E in tal caso, con quali criteri?
Si creano situazioni giuridiche inedite per le quali le leggi dei paesi europei non hanno ancora una risposta. Nelle società contemporanee, l'idea che la filiazione derivi da un legame biologico tende a prevalere su quella che vede in essa un legame sociale. ll diritto inglese ignora addirittura la nozione di paternità sociale: il donatore dello sperma potrebbe rivendicare legalmente il bambino o essere tenuto a provvedere al suo sostentamento. In Francia il codice napoleonico stabilisce che il marito della madre è il padre legale del bambino: in altre parole rifiuta la paternità biologica ammettendo solo quella sociale. "Pater id est quem nuptiae demonstrant" è un vecchio adagio, peraltro smentito da una legge del 1972 che autorizza la ricerca della paternità.
Tra il legame sociale e quello biologico non si sa più quale dei due debba prevalere. Come rispondere allora ai problemi posti dalla procreazione assistita nella quale il padre legale non è più il genitore del bambino e la madre non ha fornito l'ovulo né, forse, l'utero nel quale è avvenuta la gestazione? l bambini nati da queste manipolazioni potranno avere, a seconda dei casi, un padre e una madre come è normale, oppure una madre e due padri, due madri e un padre, tre madri e un padre e addirittura tre madri e due padri nel caso che il genitore non sia il marito e tre donne siano state chiamate a collaborare: una per dare l'ovulo, una per prestare l'utero e una terza che sia la madre legale del bambino.
Quali saranno i diritti e i doveri rispettivi dei genitori sociali e di quelli biologici, ormai dissociati? Che cosa dovrà decidere un tribunale se la prestatrice dell'utero dà alla luce un bambino mal formato e la coppia che si era rivolta a lei non lo vuole? O se una donna fecondata per conto di una moglie sterile con lo sperma del marito cambia idea e vuole tenersi il figlio come se fosse suo? Bisogna considerare legittimi tutti i desideri, compreso quello di una donna che chiede di essere inseminata con lo sperma congelato del marito morto? O quello di due lesbiche che vogliono avere un bambino nato dall'ovulo di una delle due, fecondato artificialmente da un donatore anonimo e impiantato nell'utero dell'altra? Il dono dello sperma, quello di un ovulo e il prestito dell'utero possono essere oggetto di un contratto a titolo oneroso? Devono restare anonimi oppure i genitori sociali ed eventualmente il bambino stesso possono conoscere l'identità dei genitori biologici?
Nessuna di queste domande è gratuita: questi problemi, e altri ancora più stravaganti, sono stati posti ai tribunali e continuano a esserlo. Tutto questo appare così nuovo che il giudice, il legislatore e persino il moralista a cui manchi l'esperienza di situazioni di questo genere si trovano completamente spiazzati.
Non così gli etnologi, i soli che non siano presi alla sprovvista da problemi di questo genere. Certo, le società che essi studiano non conoscono le tecniche moderne come la fecondazione in vitro, il prelevamento di un ovulo o di un embrione, il trapianto, l'impianto o il congelamento, ma hanno immaginato degli equivalenti metaforici. E poiché li credono reali, le implicazioni psicologiche e giuridiche sono le stesse.
La mia collega Héritier-Augé ha dimostrato che l'inseminazione con un donatore ha un equivalente tra i Samo del Burkina Faso, in Africa. Le ragazze si sposano giovanissime e ognuna, prima di andare a vivere col marito, deve avere per un certo tempo un amante ufficiale. A tempo debito, porterà al marito il bambino avuto dall'amante, che sarà considerato il primogenito dell'unione legittima. Un uomo, da parte sua, può prendere diverse mogli, ma se queste lo lasciano rimane il padre legale di tutti i figli che le donne avranno successivamente. Presso altre popolazioni africane, un marito abbandonato da una o più mogli ha un diritto di paternità sui figli che esse avranno in seguito. Basta che, quando diventano madri, egli abbia con loro il primo rapporto sessuale post partum; esso determina chi sarà il padre legale del prossimo figlio. Così un uomo sposato a una donna sterile può ottenere di essere designato da una donna feconda, gratuitamente o a pagamento. In questo caso il marito della donna è il donatore inseminatore e la donna dà l'utero in affitto a un altro uomo o a una coppia senza figli.
Il problema, che in Francia è scottante, di decidere se il prestito dell'utero debba essere gratuito o a pagamento in Africa non si pone. Presso i Nuer del Sudan, la donna sterile è assimilata a un uomo: perciò può sposare un'altra donna. Presso gli Yoruba della Nigeria, le donne ricche si comprano delle mogli e le fanno convivere con un uomo. Quando nascono i figli, la donna, che è il "marito" legale, li rivendica o li cede al genitore dietro un compenso. Nel primo caso una coppia formata da due donne, e quindi letteralmente omosessuale, ricorre alla procreazione assistita per avere dei figli dei quali una delle due sarà il padre legale e l'altra la madre biologica. L'istituto del levirato, anticamente in vigore presso gli ebrei e ancora oggi diffuso nel mondo, permette e talvolta impone che il fratello minore generi in nome del fratello morto: si tratta dell'equivalente di una inseminazione post mortem. La cosa è ancora più chiara nel caso del cosiddetto matrimonio "fantasma" dei Nuer del Sudan; se un uomo moriva celibe o senza figli, un parente prossimo poteva prelevare dal gregge del defunto il prezzo di una moglie. Così generava, in nome del morto, un figlio (che considerava suo nipote). Poteva capitare che quel figlio a sua volta svolgesse lo stesso compito nei confronti del padre biologico che dal punto di vista legale era suo zio. I figli che generava erano per legge suoi cugini.
In tutti questi esempi lo status sociale del bambino si determina in funzione del padre legale, anche se si tratta di una donna. Tuttavia il bambino conosce l'identità del genitore ed è unito a lui da un legame affettivo. Contrariamente a ciò che noi temiamo, la trasparenza non fa nascere in lui un conflitto motivato dal fatto che il genitore biologico e il padre sociale sono individui diversi. Esistono nel Tibet società nelle quali parecchi fratelli hanno una sola moglie in comune. Tutti i bambini sono attribuiti al maggiore e lo chiamano padre, mentre chiamano zii gli altri mariti. I legami biologici reali sono noti, ma non li si considera molto importanti. Una situazione simmetrica prevaleva in Amazzonia tra i Tupi-Kawaib che ho conosciuto circa cinquant'anni fa. Un uomo poteva sposare diverse sorelle o una madre e una figlia nata da un'unione precedente: quelle donne allevavano i figli insieme e, a quanto pare, non badavano al fatto che il bambino del quale si stavano occupando fosse loro o di un'altra moglie del marito.
Il conflitto tra parentela biologica e parentela sociale, che da noi rappresenta un problema per i giuristi e i moralisti, non esiste nelle società studiate dagli etnologi. Esse riconoscono il primato del sociale senza che i due aspetti entrino in conflitto nell'ideologia del gruppo o nella coscienza dei suoi membri. Non pretendiamo che esempi esotici ispirino il comportamento della nostra società; tuttavia essi possono almeno abituarci all'idea che i problemi posti dalla procreazione assistita ammettono un discreto numero di soluzioni differenti, nessuna delle quali deve essere considerata naturale o scontata.
Per convincersene, del resto, non occorre cercare molto lontano. Nei casi di procreazione assistita, una delle nostre maggiori preoccupazioni sembra essere quella di dissociare la fecondazione dalla sessualità, o per meglio dire dalla sensualità. Le cose, per essere accettabili, devono svolgersi nell'atmosfera gelida di un laboratorio, coperte dall'anonimato e con la mediazione di un medico, in modo da escludere ogni contatto personale, ogni condivisione erotica o emotiva tra i partecipanti. Ma prima che qualcuno inventasse le tecniche moderne, le nostre società non ignoravano il dono dello sperma: ci si aiutava alla buona, per così dire "in famiglia".
Nel 1843 -un tempo in cui i pregiudizi sociali e morali erano molto più forti di quanto non siano oggi- Balzac cominciò un romanzo che lasciò incompiuto e che, significativamente, aveva intitolato "I piccoli borghesi". Il romanzo, molto probabilmente ispirato a fatti reali, racconta come due coppie di amici, una feconda e l'altra sterile, si accordarono tra loro: la donna fertile ebbe un figlio col marito della donna sterile; la bimba nata da quell'unione fu ugualmente amata dalle due coppie, che abitavano nello stesso caseggiato: il vicinato era al corrente della situazione.
Al giurista e al moralista impazienti di legiferare l'etnologo raccomanda dunque la prudenza. Egli ricorda che anche le pratiche e le rivendicazioni più traumatiche per l'opinione pubblica -procreazione assistita permessa alle vergini, alle nubili, alle vedove o alle coppie omosessuali- hanno un equivalente in altre società che non mostrano di soffrirne. La saggezza probabilmente consiste nell'affidarsi alla logica interna delle istituzioni di ogni società e al suo sistema di valori per creare strutture familiari che risultino praticabili, eliminando quelle che generano delle contraddizioni. Solo la pratica può rivelare quello che, nel lungo periodo, sarà accettato o rifiutato dalla coscienza collettiva.
 
Claude Lévi-Strauss, 1989