Placebo.
L'effetto placebo è una realtà di portata tutt'altro che trascurabile sia nella pratica medica che nella ricerca clinica. Si ritiene comunemente che si tratti "soltanto" di un effetto "psicosomatico", ed è invece meno noto che questo effetto sottintende eventi biochimici complessi. Ciò vale in particolare per l'analgesia da placebo dovuta a mediatori chimici prodotti dal nostro sistema nervoso. Le idee approssimate sul placebo possono avere implicazioni non trascurabili nella pratica clinica.
Il placebo non è solo un farmaco che, pur sprovvisto di attività specifica, risulta efficace nei confronti di un sintomo o di una malattia. Un placebo può infatti essere non farmacologico, un consiglio, un'attenzione, una tisana, un buon rapporto con il proprio medico di famiglia, un sortilegio, una fiducia profonda in qualcosa o una delle sempre più numerose medicine complementari alternative (CAM, nell'acronimo inglese più usato). Placebo significa dunque tante cose che condividono la capacità di produrre un effetto favorevole più o meno significativo e non di rado sorprendente su parametri sia soggettivi (molto ampiamente documentati) che oggettivi (pur essi documentati ma meno ampiamente). Essendo il placebo per definizione sprovvisto di attività specifica, l'opinione più diffusa è che gli effetti da esso provocati siano di "natura psicologica". E certamente in parte e in un certo senso è così, ma i non addetti ai lavori interpretano questa "natura psicologica" come pura suggestione, qualcosa di impalpabile, di immateriale legata al "carattere" dell'individuo. Al contrario, nel complesso meccanismo d'azione del placebo giocano un ruolo numerosi protagonisti tutt'altro che immateriali, quali organi, cellule e mediatori biochimici.
Tra questi il cervello (non l'indefinibile psiche) ha un ruolo fondamentale così come il sistema nervoso autonomo, simpatico e parasimpatico, i cui centri regolatori si situano per altro sempre nel cervello, ma al di sotto della corteccia, nel cosiddetto ipotalamo. Si tratta di una "autonomia relativa" in quanto se è vero che noi non li possiamo regolare volontariamente (ma individui eccezionali, come ad esempio i fachiri, sembra che in parte ci riescano) è altrettanto vero che sono automaticamente controllati e regolati dalla nostra corteccia. Il cervello può così influire sulla "periferia", vale a dire sui nostri organi, sulle nostre ghiandole endocrine (in primis ipofisi e surrene) ed esocrine (quelle sudoripare, ad esempio), sui nostri vasi sanguigni, sul sistema immunitario e sulle funzioni che ne derivano.
È bene ricordare al riguardo che simpatico e parasimpatico sono in competizione tra loro, nel senso che se il primo stimola il secondo inibisce e viceversa. Il simpatico, ad esempio, accelera i battiti cardiaci ed il parasimpatico li rallenta, il simpatico frena i nostri movimenti intestinali ed il parasimpatico li aumenta, il simpatico provoca vasocostrizione e il parasimpatico vasodilatazione (ma a livello coronarico avviene l'inverso), il simpatico dilata la pupilla e il parasimpatico la restringe, il simpatico riduce la secrezione acida dello stomaco e il parasimpatico la stimola, il simpatico dilata i piccoli bronchi e il parasimpatico li costringe e via dicendo. Queste azioni su organi, ghiandole e vasi sanguigni, con specifiche conseguenze funzionali, sono esercitate dalle fibre simpatiche e parasimpatiche grazie alla liberazione a livello delle loro terminazioni di mediatori biochimici in gran parte identificati che rispondono principalmente al nome di acetilcolina, adrenalina, noradrenalina e peptidi ormonali quali endorfine ed encefaline.
Fenomeni come il condizionamento (che risente di precedenti esperienze) o le aspettative (che possono di fatto considerarsi "previsioni vantaggiose"), componenti riconosciute dell'effetto placebo, agiscono anch'essi grazie al braccio operativo rappresentato dai mediatori di cui sopra. Il substrato biochimico meglio studiato dell'effetto placebo è quello relativo alla analgesia da placebo, cioè all'effetto antidolorifico che il placebo risulta esercitare in situazioni algogene di vario tipo, quali l'estrazione dentaria, il dolore mestruale, il dolore anginoso, il mal di pancia e persino il dolore che... si immagina di provare ricevendo una martellata sul piede.
Semplificando al massimo vediamo cosa succede in un paziente che soffre di una sintomatologia dolorosa dopo somministrazione di un farmaco placebo (o di un placebo non farmacologico in cui comunque il paziente nutre fiducia e ripone le proprie speranze). La sensazione di dolore sale al nostro cervello lungo fibre nervose sensitive (che registrano anche sensazioni termiche e tattili). Grazie a tecniche sofisticate, quali ad esempio la tomografia a emissione di positroni (PET, nell'acronimo inglese più usato), si è potuto dimostrare che i segnali di dolore veicolati da queste fibre non arrivano a un'unica area cerebrale. Parte dei segnali raggiunge infatti la parte anteriore della corteccia cerebrale (lobi frontali) e parte è convogliata verso i lobi parietali. È quest'ultimo terminal che "registra" l'intensità e la sede d'origine del dolore, mentre l'area frontale "decide" quale importanza assegnare ad esso. Dopo questa messa a fuoco, il sistema nervoso centrale, oltre che influenzare come già si è detto quello autonomo, reagisce producendo le endorfine. Queste sono composti ad azione morfinosimile capaci di fissarsi sugli stessi recettori cellulari sui quali si fissano anche gli stupefacenti, con conseguente attenuazione più o meno spiccata del dolore.
La scoperta che il placebo induce la liberazione di endorfine è frutto di una ricerca condotta più di vent'anni fa su un gruppo di pazienti sottoposti a estrazione del dente del giudizio. In questi il placebo produceva un effetto anestetico non significativamente diverso da quello dell'anestetico vero e il naloxone, noto antagonista dei recettori morfinici usato per la disassuefazione dei tossicodipendenti, risultava in grado di bloccare questo effetto. Ricerche recenti hanno ulteriormente arricchito le nostre nozioni sui protagonisti biochimici responsabili dell'effetto placebo e in particolare della placebo analgesia. Si sa ora, ad esempio, che questa può essere bloccata non solo da agenti esogeni come il naloxone, ma anche da composti endogeni, prodotti cioè in contemporanea dal nostro stesso sistema nervoso. Bene identificata, tra questi, è la colecistochinina (CCK, nell'acronimo ampiamente usato), ormone di natura proteica noto soprattutto per i suoi effetti sulla cistifellea (di cui stimola la contrazione) e sul pancreas (di cui stimola la secrezione di enzimi digestivi). Ebbene, la CCK, come il naloxone, risulta opporsi all'effetto complessivo delle endorfine sollecitate dal placebo . È altamente plausibile che la maggiore o minore resistenza al dolore dei soggetti sia influenzata dal rapporto endorfine/colecistochinina contemporaneamente prodotte.
Che anche la CCK giochi un ruolo ben preciso è dimostrato dal fatto che se si somministra la proglumide, farmaco che blocca l'azione di questo ormone, si ottiene un potenziamento dell'effetto placebo in quanto le endorfine possono agire senza interferenze. Poiché la proglumide, grazie alla sua azione anti-CCK, produce anche un effetto ansiolitico e antipanico, è possibile che la CCK non agisca solo da competitore nei confronti delle endorfine, ma anche come agente ansiogeno di per sé, ed è noto che l'ansia è una componente non trascurabile nella percezione degli stimoli dolorosi. Anche meccanismi diversi dalla liberazione di endorfine possono essere chiamati in causa nella analgesia da placebo e ciò può almeno in parte dipendere dal ruolo giocato dal condizionamento e, rispettivamente, dalle aspettative. In questo senso orientano i risultati di uno studio in soggetti cui veniva provocato dolore ischemico a un arto mediante legatura con laccio molto stretto.
Nella prima fase dello studio il dolore veniva controllato con un classico oppiaceo, la morfina, o con un antiinfiammatorio-analgesico, il ketorolac. L'effetto di questi farmaci condizionava la successiva risposta ai relativi placebo pseudomorfina e, rispettivamente, pseudoketorolac. Questi placebo risultavano anch'essi di efficacia antidolorifica non significativamente diversa da quella della morfina e del ketorolac. Tuttavia, mentre la risposta placebica nei soggetti condizionati con la morfina era bloccata dal più volte ricordato naloxone, questo composto "non inibiva" la risposta placebica nei soggetti condizionati con il ketorolac. Ciò dimostra che l'effetto placebo può dunque essere mediato da protagonisti biochimici diversi dalle sostanze morfinosimili. Gli autori dello studio concludevano testualmente che "nella placebo analgesia fattori cognitivi e condizionamento sono bilanciati in varia guisa e questo bilanciamento è cruciale per l'attivazione di sistemi oppioidi e non oppioidi".
Quando l'effetto placebo è sostenuto dalle aspettative e non da condizionamento sembrano invece in gioco soltanto mediatori oppiacei, in primis le endorfine. In base a queste più recenti acquisizioni, è evidente che l'opinione secondo cui l'efficacia terapeutica del placebo (etichettato provocatoriamente da qualcuno come "terapia fatta di niente") sarebbe dovuta unicamente a "suggestione psichica" risulta pertanto alquanto semplicistica e comunque non aggiornata circa la complessa base biochimica dell'effetto placebo. Ben si comprende anche come farmaci in commercio possano influire favorevolmente sul dolore o su altri sintomi anche se sprovvisti di attività specifica (più del 50%!) e lo stesso dicasi per i più disparati trattamenti alternativi, compresi quelli del tutto astrusi. Poco male, si potrà dire, se l'effetto dei vari placebo tradizionali o alternativi risulta comunque vantaggioso per un individuo che sta male. Poco male in verità, "purché" il terapista che ne fa uso sia conscio di come funziona il placebo che sta consigliando e "purché" lo faccia nell'esclusivo interesse del paziente.
Diverso è il caso di chi invece lo fa ignorando (evento frequentissimo!) il potenziale del placebo e il suo meccanismo d'azione. Poiché il paziente placebotrattato probabilmente starà "momentaneamente" meglio, il terapista ciecamente convinto dell'efficacia della cura che sta dando, anche se priva in realtà di qualsiasi documentazione scientifica, potrà involontariamente ritardare un approfondimento diagnostico magari decisivo o l'attuazione di una terapia validata da oggettive dimostrazioni di efficacia. Non si dovrebbe mai dimenticare al riguardo un'antica riflessione valida in tutti i campi: ci si entusiasma spesso di fronte a eventi non controllati e al contrario, quando si va a controllare in modo appropriato, si perde spesso ogni entusiasmo.
Giorgio Dobrilla, 2004